45) Il sacerdozio

Capire l’amore e trasmetterlo è compito di tutti i cristiani, ma la Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche ne fa la missione propria dei sacerdoti, manifestando un’intuizione avuta nella preghiera: “Voglio che i miei sacerdoti siano seminatori di amore” (Diario Intimo, 25 giugno 1902). I brani che seguono (tratti dal libro: “Il Sacro Cuore e il Sacerdozio”) costituiscono una sintetica antologia della mirabile dottrina di Madre Luisa Margherita sul Sacerdozio, dalla stessa appresa in modo del tutto particolare e suggeriscono validi spunti di riflessione e meditazione. Il sacerdote, creazione dell’Amore Infinito L'uomo è profondamente ignorante. Anche dopo la grazia del battesimo, le ombre del peccato annebbiano ancora la sua intelligenza. I peccati personali rendono questa nebbia ogni giorno più fitta: avvolto dall'oscurità, immerso nell'ignoranza e nell'incertezza, l'uomo cammina, senza rendersene conto, verso lo smarrimento eterno. E il prete insegna. Apre l'uomo alla verità, gli fa vedere la strada che conduce a Dio; fa scoprire alla sua anima gli orizzonti luminosi della fede. La sua missione è di dissipare l'oscurità e far splendere di fronte a tutti la verità di Dio, che è, insieme all'amore, la vita dell'uomo…… L'uomo ha bisogno di Dio. La sua debolezza deve appoggiarsi sulla forza divina, la sua povertà reclama i tesori del cielo; il suo nulla ha un continuo bisogno di appoggiarsi alla sorgente degli esseri. E tuttavia il peccato lo spinge lontano dalla santità di Dio: Dio è grande, è puro, è inaccessibile verità e giustizia. Ci va un mediatore tra Dio e l'uomo, ed è Cristo. Ma tra Cristo e lui, l'uomo, tanto è miserabile, ha bisogno di un altro mediatore: il prete. Ecco perché, oggi che il ministero sacerdotale è così necessario al mondo; Cristo chiama i sacerdoti al suo cuore: perché essi attingano a questa fonte divina novità di grazia e, rituffandosi nell'oceano di amore da cui sono nati, vi trovino un rinnovamento e una crescita di vita sacerdotale. Il prete, che ha una missione così grande e un ministero ricco di fecondità, vada a Cristo, si stringa a lui. Ripensi a ciò che ha fatto, ascolti la sua parola, penetri i suoi pensieri, lo segua passo passo nel Vangelo, impari da questo Maestro perfetto a compiere degnamente il suo ministero consacrato. Gesù lo ha fatto per primo: il prete non ha che da seguire le sue tracce divine. Rivestirsi di Cristo è imitarlo, riprodurre le sue virtù, le sue azioni sante, fino ai suoi gesti divini. Se qualcuno deve essere rivestito di Cristo, questo è soprattutto il sacerdote, che deve darlo al mondo. Il sacerdote, maestro degli uomini Il prete, per conservare intatta la verità divina, versata da Cristo nella sua anima il giorno della sua consacrazione, deve restare saldo contro gli attacchi dell'errore. Questi gli vengono da tre fronti: 1. Satana, lo spirito cattivo, l'eterno sobillatore di discordia e di odio, che cerca di distruggere la verità ovunque la trova, e cerca soprattutto di strapparla dal cuore del prete, suo nemico, sempre in lotta contro la sua azione infernale. 2. Lo spirito del mondo, i suoi princìpi, che tendono incessantemente a indebolire la verità; il prete vive nel mondo, respira la sua aria di menzogna, e subisce quasi senza accorgersene l'influsso rammollente delle sue false dottrine. 3. Molti fermenti di errore vivono infine allo stato latente, in lui stesso, là dove il peccato originale ha lasciato le sue tracce. La minima ventata di orgoglio può risvegliarli, la minima impurità può farli proliferare. Per sconfiggere questi nemici, il prete ha a sua disposizione armi potenti, che sempre assicurano la vittoria. In primo luogo, l'unione alla Chiesa, l'attaccamento instancabile alla Cattedra di Pietro, organo infallibile della verità. Le imprese di satana infatti non possono nulla contro la roccia su cui è fondata la Chiesa. Non si può smarrire chi cammina con quel Pietro a cui Gesù disse: “ Ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno; tu, quando ti sarai convertito, prega per i tuoi fratelli” Il prete sconfigge lo spirito del mondo con l'unione a Cristo, vincitore del mondo; e questa unione si produce con lo spirito di preghiera, con lo studio del cuore di Cristo e delle sue adorabili virtù, con la separazione interiore, ma reale, da tutto ciò che nel mondo Gesù riprova e condanna. Ma per sconfiggere se stesso, per cancellare in sé ogni genere di errore, per diventare inaccessibile alle falsità e saldo contro tutti gli attacchi, per possedere con sicurezza i tesori della verità e conservarli intatti, il prete deve prosternarsi nell'umiltà. Una santa e giusta diffidenza nei confronti di se stesso, del suo giudizio personale, un facile ricorso ai lumi altrui, una umile sottomissione di fede: ecco ciò che è necessario al prete per rimanere integro, premunirsi contro le illusioni di una falsa scienza; per essere, in una parola, come Giovanni, lampada sempre accesa che illumina i popoli; per essere, con Cristo, la luce del mondo….. La dolcezza La dolcezza è l'anima della bontà, forma delicata che la rende attraente. Una bontà rude e grossolana è una bontà senza volto, che non conquista. Ma quando è rivestita di dolcezza, attira tutto a sé. Così è stata la bontà di Gesù. La dolcezza, temperando la sua dedizione ardente, rendeva Cristo affabile, attraente. Aveva segnato tutta la sua persona di un fascino così irresistibile che tutti, i bambini come gli anziani, gli ammalati, le folle andavano a lui e seguivano il suo cammino. « Imparate da me che sono mite e umile di cuore », aveva detto Gesù. Questa mitezza interiore traspariva dalla sua persona e gli guadagnava ogni uomo…… Con gli ammalati e gli infermi che si avvicinavano a lui era pieno di benevolenza e compassione. Era facilmente colpito dal vedere la loro sofferenza. Lui, così pronto a soffrire, così impaziente di spargere il suo sangue, così desideroso della croce, delle spine, dei flagelli, non poteva sopportare la visione del dolore dei suoi fratelli. Non poteva vedere una sofferenza senza guarirla; non poteva vedere piangere Marta e Maria senza piangere con loro. Con gioia e generosità utilizzava la potenza che gli veniva da Dio per guarire e per risuscitare…… Tutte le parole di Gesù hanno il respiro della pace e della bontà: « Sono io, non temete ». « Abbi fiducia, ti sono rimessi i tuoi peccati ». « Perché rattristate questa donna? ». « Venite a me, voi tutti che siete stanchi, e io vi consolerò ». « La pace sia con voi - Io vi do la pace ». Il Profeta aveva detto che non si sarebbe sentita la sua voce gridare, e che non avrebbe disputato sulle piazze. Il suo parlare, infatti, è ricco di dolcezza; il suo insegnamento riveste di solito una forma semplice e armoniosa, misurato sulla bellezza della natura che lo circonda. E quando flagella le passioni cattive e i crimini dell'uomo, si sente, nella sua voce, più l’amore per i peccatori che il disprezzo o la collera. Se già durante il suo apostolato, e poi dopo la risurrezione, Gesù ha mostrato questa dolcezza, lo ha fatto soprattutto durante la Passione. Quando, dopo la Cena, lascia andare Giuda a compiere il suo misfatto, gli parla così dolcemente che gli altri apostoli credono che lo mandi a fare un'elemosina. Al Getsemani, quando il traditore si avvicina e lo bacia, Gesù ricambia il bacio e gli dice « Amico, cosa sei venuto a fare? ». E quando Pietro impugna la spada: « Rimetti subito quella spada nel fodero », gli dice, e voltandosi verso l'uomo che aveva ferito, lo guarisce. Nel palazzo di Anna, un servo lo schiaffeggia brutalmente e Gesù: « Se ho parlato male, fammi vedere dove sbaglio; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti? ». Di fronte ai giudici iniqui che lo condannano, in mezzo ai soldati che lo dileggiano e lo torturano, di fronte a quella folla che ha colmato di doni e che ora lo insulta e lo sbeffeggia, conserva una dolcezza inalterabile, e rimane, Agnello muto, nelle mani dei suoi persecutori. Mentre lo inchiodano alla croce, non gli sfugge neppure un lamento, neppure una parola amara verso chi lo crocifigge. Il prete è chiamato a rivivere la mansuetudine di Cristo. È mandato a guadagnare a Dio gli uomini, e nessun'arma è più potente della dolcezza e della bontà. Sia buono della stessa bontà del Salvatore, pieno di pazienza e di dolcezza, di tolleranza e carità. Arriveranno a lui molte miserie; molte debolezze cercheranno il suo appoggio. Anime sofferenti o ferite, cuori urtati dalle ingiustizie della vita, spiriti sviati dagli errori del mondo, volontà abbattute o fuori strada saranno dirette verso di lui dalla mano misteriosa della Provvidenza. Dovrà avere una mano dolce e delicata per fasciare tutte queste ferite. La sua azione dovrà essere soave e paziente. Può certo parlare con forza, colpire i vizi e ammonire i peccatori; ma le sue parole, le verità che annuncia, saranno più penetranti se avvolte di dolcezza….. La misericordia La grande missione del prete è rivelare agli uomini la misericordia di Dio. Tutti hanno, più o meno, peccato. Tutti avvertono, fra la santità infinita di Dio e la propria miseria, un abisso che sembra loro incolmabile e che li spaventa. In fondo ad ogni uomo, anche quando è avvolto dalle tenebre, rimane una traccia di verità che gli fa vedere Dio infinitamente santo e sovranamente puro. Per questo, quando si vede colpevole, cerca di allontanarsi da Dio, si sforza di dimenticarlo e, non potendo annullare realmente questo Dio che lo condannerà, cerca almeno di cancellarlo dai propri ricordi e di distruggerlo nella sua mente. Allora, continua ad andare sempre più lontano sulla strada del male, e precipita negli abissi. Ma quando gli si fa vedere l'amore misericordioso di Dio, per poco che abbia di sincerità, il timore scompare, il pentimento nasce, e la grazia della riconciliazione porta a compimento l'opera che la misericordia aveva iniziato. Far conoscere Gesù nel suo aspetto più amabile e attraente; far penetrare nel profondo dell'uomo la conoscenza della misericordia, aprire i cuori alla confidenza e all'amore: è il compito del prete. Ma le sue parole non potranno nulla se non sarà, lui stesso, discepolo di Cristo nella compassione per i peccatori. Bisogna che lo si veda, preoccupato per la salvezza dei suoi fratelli, andare alla ricerca delle pecore smarrite sulle tracce di Gesù, senza lasciarsi scoraggiare dalla lunghezza del cammino o dalle asperità della strada. E quando avrà ritrovato questi uomini coperti dalle piaghe del peccato, abbia pietà di loro, si chini e versi olio e vino sulle loro ferite, li prenda fra le braccia e li riporti al Signore……. Amore di Cristo per i suoi sacerdoti oggi Un così grande numero di doni d'amore non ha esaurito il cuore infinitamente amante di Cristo. All'aurora di questo ventesimo secolo è così ardente, così tenero nei confronti del sacerdozio come al tempo in cui personalmente formava i suoi sacerdoti e, dopo averli educati con la sua parola e con l'esempio, li inviava in missione. Dall'alto del trono della gloria, dal buio dei suoi tabernacoli solitari e troppo abbandonati, Cristo ha visto gli uomini, traviati da un soffio d'indipendenza, spezzare il giogo benefico della legge e uscire dalla retta via. Ha visto le onde del male avventarsi sulle anime. Ha visto l'idolatria della materia, il culto della ragione umana rimpiazzare nell'uomo la fede nell'Essere creatore, la coscienza del proprio nulla e la speranza nel suo destino immortale. Ha visto l'egoismo freddo e i suoi calcoli indegni divorare, come un cancro, il cuore dell'uomo, creato per un amore infinito e per gli slanci del dono di sé. Ha visto lo scetticismo, la negazione di ogni azione soprannaturale, l'avidità dell'oro e gli avvilimenti dell'impurità agire come solventi potenti su tutte le società umane, e, spezzando ogni legame, disgregare e distruggere la famiglia, la fraternità sociale e l’omogeneità delle nazioni. Ha visto il mondo vacillare sulle sue fondamenta e, mosso da una immensa pietà per quest'umanità riscattata dal suo sangue, per questa umanità ingrata che si distoglie da lui, si è chinato verso i suoi sacerdoti e ha detto loro: Venite a me, miei fedeli, miei prediletti; venite ad aiutarmi a riconquistare le anime! Ecco che, nuovamente, io vi mando per ammaestrare le nazioni: offrite loro la salvezza con la verità delle vostre parole e con la luce del vostro esempio. Dovrete combattere, e soffrire; ma, poiché lavorerete per la mia gloria e mi offrirete le anime, voglio farvi un regalo, il più prezioso di tutti i doni: vi regalo il mio Cuore! Ve lo do come spada e scudo nelle vostre battaglie; come guida e luce nel vostro cammino; come consolatore nelle vostre sofferenze. Attingete senza timore ai tesori d’amore che contiene, Attingetene innanzitutto per voi stessi; arricchitevi della sua pienezza; riempitene i vostri cuori fino a farli traboccare. Attingetene ancora per gli altri; diffondete il mio amore fra gli uomini; portate ovunque questo fuoco di Dio che deve purificare e rinnovare la terra. E Gesù, attirando il suo sacerdozio a sé, gli ha donato il suo cuore, segno del suo incomparabile amore.

46) La vita

Dio creando l’uomo lo ha posto nel giardino dell’Eden perché lo coltivasse e lo custodisse: all’uomo, pertanto, fin dall’origine, prima cioè del peccato originale, venne affidata la responsabilità sull’ambiente di vita. Il compito di coltivare il giardino con il proprio lavoro sta a significare che il lavoro stesso deve essere inteso come un bene sapientemente attribuito all’uomo, secondo la sua natura e non già come condanna conseguente al peccato originale, mentre l’altro compito di custodirlo, collegato al divieto di “mangiare il frutto dell’albero”, indica che il dominio attribuito all’uomo sulla natura non è indice di un potere assoluto ma, invece, è sottoposto a leggi naturali che, fin dalla creazione del mondo, contrappongono l’uso all’abuso, condannando quest’ultimo, in quanto non è certo idoneo a custodire l’ambiente: sotto certi aspetti può sostenersi che la questione ecologica sia stata ben presente al Creatore, sin dal principio. Ma l’uomo solo nel giardino è insoddisfatto fino a quando il suo unico riferimento rimane il mondo vegetale ed animale: Dio si accorge di questo e con l’apparizione della donna nella scena del creato soddisfa l’esigenza, per l’uomo, del dialogo interpersonale, attribuendo ad entrambi la specifica responsabilità della generazione di altre vite umane. Nella generazione, l’uomo è chiamato ad esercitare un’attività ministeriale: nella generazione, infatti, Dio stesso è presente, in quanto con tale atto continua la creazione, trasmettendo la sua immagine e somiglianza al nuovo individuo, grazie alla creazione dell’anima immortale. Dio, creatore della vita, non ha creato la morte: la morte entra nella storia dell’uomo a causa del diavolo e del peccato, attraverso l’uccisione di Abele da parte di Caino. “Dov’è Abele ?”; “non lo so, sono forse il guardiano di mio fratello ?”: all’atroce peccato del fratricidio si aggiunge, così, anche quello della menzogna. Dio ammonisce Caino, attribuendogli un “segno”, non per additarlo alla vendetta degli altri, bensì per preservarlo: ed è qui che si manifesta il paradossale mistero della misericordia divina. La grande attenzione che va posta al rispetto di ogni vita comporta la considerazione che il precetto negativo: “non uccidere” – che implicitamente spinge ad un atteggiamento positivo: “amerai il prossimo tuo come te stesso” – è assoluto, sicché togliere la vita non è mai lecito né come “fine”, né come “mezzo”. Se ciò è vero, è ancora più vero se riferito ad un soggetto “debole” e “totalmente affidato” come è il caso della vita di chi non è ancora nato: è inutile, a tal riguardo, ogni disquisizione circa l’esistenza o meno di una vera vita; basterebbe la sola probabilità di trovarci di fronte ad una “persona” per desistere da ogni iniziativa negativa. D’altra parte non mancano chiari riferimenti nelle Sacre Scritture alla vita della persona non ancora nata: mi piace fare riferimento, più che al profeta Geremia (“prima di formarti nel grembo materno, ti conoscevo, prima che tu uscissi alla luce, ti avevo consacrato”), all’incontro tra la Vergine Maria ed Elisabetta. Elisabetta sentì Maria, ma Giovanni esultò di gioia nel grembo di Elisabetta, percependo la presenza del Signore, nel seno di Maria. Particolare attenzione meritano, poi, le nuove tecniche, ideate dalla scienza medica, relative alla così detta “fecondazione in vitro”, al fine di favorire l’insorgere di una gravidanza che, altrimenti, per varie situazioni patologiche sarebbe difficile conseguire. Tale tecnica consiste nella fusione di un ovulo con degli spermatozoi in una provetta e non nell’utero. L’avvenuta unione (fecondazione) porta alla formazione della prima cellula dell’embrione (detta zigote) ed al successivo trasferimento nell’utero, tramite un sottile catetere per il suo impianto; se questo processo non avviene correttamente l’embrione non può sopravvivere. A parte ogni possibile riserva sulla liceità o meno (ovviamente sotto l’aspetto della morale cristiana) di un simile processo sostitutivo di quello naturale, il problema più delicato è quello relativo all’ “embrione preimpianto”, cioè all’embrione in sviluppo dallo stadio di zigote fino a quello che precede l’impianto nell’utero materno. Se è vero, come sperimentalmente provato, che l’incontro tra uno spermatozoo ed un ovocita (avvenuto in modo naturale od in provetta) porta alla formazione della prima cellula dell’embrione (cellula che, con 46 cromosomi, contiene l’informazione genetica completa per formare una specifica persona) è possibile sostenere, con una certa fondatezza, che detto incontro costituisca l’inizio della vita di una nuova persona, intesa come essere vivente dotato di un codice genetico (DNA) unico ed irripetibile. Quell’incontro, pertanto, costituisce il momento in cui un “qualcosa” si trasforma in “qualcuno”, similmente a quanto accade per il chicco di grano che, preso dal suo sacco, viene sotterrato ed a contatto con la terra comincia a germogliare. Da tutto ciò scaturisce quella particolare attenzione che deve essere riservata all’embrione artificialmente come sopra “prodotto”, con tutte le conseguenze sulla sua conservazione, evitando, in ogni modo la sua distruzione o, peggio, il suo deprecabile utilizzo per altri fini, sia pure scientifici. Volendo, per concludere, ricercare la verità circa il valore della vita umana, scopriremo che il suo valore è sacro: sacro, perché con questo dono Dio partecipa qualcosa di sé alla sua creatura, conferendole un’altissima dignità. Dio affida all’uomo il compito di amare, venerare, difendere e custodire la vita, quella propria e quella degli altri: “domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, ad ognuno, di suo fratello”. Occorre, inoltre, riscoprire il nesso inscindibile tra “vita” e “libertà”: non c’è libertà dove la vita non è accolta e non c’è vita se non nella libertà. Ma se la vita è un dono di Dio ed il suo valore è, quindi, sacro, qual è il vero senso della vita? La vita è un dono che si compie nell’amore verso gli altri, nella continua donazione di sé stessi agli altri nell’esistenza quotidiana: è Gesù che illumina questo senso della vita.

47) La povertà

In un omelia riportata nella raccolta, intitolata “Gli amici di Dio”, Josemaria Escrivà, raccontava di una nobildonna spagnola molto ricca ed abitante in un lussuoso edificio; costei, però, pur disponendo di notevoli ricchezze, conduceva una vita morigerata, spendendo per sé stessa lo stretto necessario per sopravvivere e destinava il superfluo, valutato con grande generosità, ai più bisognosi ai quali personalmente si dedicava; a costei contrapponeva il ricordo di un mendicante, sicuramente nullatenente, che usufruiva abitualmente di una mensa dei poveri e che lo aveva colpito per una sua singolare particolarità: ogni volta che interveniva alla mensa, il mendicante, appena seduto, estraeva, con evidente ostentazione, dalla tasca interna della sua giacca un cucchiaio di peltro e lo usava visibilmente compiaciuto ed orgoglioso di poter disporre, a differenza di tutti gli altri, di una “sua” posata che, nella sua mente, doveva suscitare invidia negli astanti. Alla fine del pasto, dopo una sommaria pulizia e, dopo aver avvolto con cura il cucchiaio in un fazzoletto, lo deponeva di nuovo nella tasca della sua giacca. Tra i due soggetti non è difficile individuare, sulla base degli insegnamenti evangelici, il vero “povero” ed il vero “ricco”. La ricchezza, invero, non si misura con riferimento alla quantità di beni da ciascuno posseduti: ciò lo capirono bene innanzi tutto gli Apostoli, i quali, pur possedendo ben poco, ebbero ad affermare: “se è così, non si salva nessuno”, dopo l’incontro di Gesù con il giovane ricco ed aver appreso quale ostacolo costituisce la ricchezza all’entrata nel regno di cieli. Invero la “povertà” si identifica nella castità del rapporto con le cose, anche se estremamente difficile appare il suo raggiungimento, sicché, forse, ad evitare pericolose tentazioni, sarebbe preferibile praticare una povertà francescana, basata sull’effettivo e concreto distacco da tutte le cose. Se questo è il precetto evangelico, l’osservazione del comportamento umano ci porta, invece, ad assistere al prevalere di una logica completamente diversa. Sul piano individuale i valori dell’avere soffocano quelli dell’essere: io sono per quello che ho e non per quello che realmente sono. Sul piano dell’impresa, la spinta determinata dalla ricerca ad ogni costo dell’incremento del profitto, porta chiaramente in direzione opposta a quella indicata da principi ispirati alla solidarietà. Ho letto di recente un articolo di un dirigente di una società di consulenza aziendale il cui motto era :“dominare o morire”. E’ questa logica perversa che ci spinge ad accumulare insensatamente ricchezze, senza badare all’altro che siamo pronti a prevaricare se non addirittura ad “uccidere”: a volte uccidiamo noi stessi, cedendo ai mezzi più indegni, pur di realizzare il “dominio” sul mondo, in contrasto con ogni principio di morale cristiana. D’altra parte è lo stesso concetto di proprietà privata, civilisticamente inteso, che viene ridisegnato in termini sconvolgenti dalla morale cristiana: ciò che è “mio” in effetti mi è stato dato in semplice custodia e gestione. Ciò comporta che ogni uso abnorme di quello che ho, diventa lesivo del precetto “non rubare”: il pane che avanza dalla mia tavola per essere buttato via è, infatti, sottratto al povero che muore di fame; fame che costituisce uno dei più grandi scandali del nostro tempo. Se ciascuno diventa trasgressore del settimo comandamento per ogni smodato abuso nella spendita di ciò che è proprio, molto di più, poi, dovrebbero sentirsi trasgressori di tale comandamento quanti, nella gestione di disponibilità non proprie – soprattutto se pubbliche – non si attengono a criteri di doverosa moderazione, anche se i comportamenti posti in essere risultano formalmente conformi al diritto positivo. La mancanza di un’appropriata cultura cristiana sul rapporto con il denaro porta, a volte, da un lato, ad accettare vie illecite pur di procurarsene sempre di più, dall’altro, sempre per lo stesso motivo, ad accettare condizioni troppo onerose, imposte da soggetti senza scrupoli. Così l’usura, nella quale il soggetto “vittima” è il richiedente dell’illecita prestazione (costituendo tale richiesta l’indispensabile presupposto, come avviene nel caso della prostituzione, della consumazione dell’odioso delitto in questione) il più delle volte è determinata da richieste intese a finanziare spese voluttuarie, non adeguate alla propria condizione finanziaria, ovvero temerari progetti di espansione della propria attività che non possono trovare soddisfazione nelle fisiologiche sedi bancarie competenti. E’ necessario, pertanto, ripristinare una corretta scala dei valori che, privilegiando il valore dell’essere su quello dell’avere, tenga sempre in debito conto il rispetto della dignità umana che esige la pratica della virtù della temperanza (moderazione), giustizia (rispetto dei diritti altrui) e solidarietà (aiuto ai fratelli bisognosi). Invero, la perfetta solidarietà cristiana si raggiunge – riscoprendo, così, il valore della povertà – seguendo la regola aurea del Signore che da ricco che era si è fatto povero per noi, secondo la sua liberalità, perché noi diventassimo ricchi. La vera povertà cristiana non è, comunque, il fine da raggiungere, valido per sé stesso, né il mezzo per arricchire gli altri, ma solo l’indispensabile presupposto per intraprendere la via di una vera e perfetta sequela di Cristo.

48) Il peccato

Ho letto, di recente, della meraviglia, per non dire quasi dello scandalo, avvertito da uno scrittore, non certo di provata fede cattolica, nel vedere durante una celebrazione eucaristica, alcune vecchiette battersi il petto ed accusarsi di aver “molto peccato”. Dopo aver affermato che era del tutto improbabile che delle pie donne come quelle potevano aver “molto peccato” l’innominato scrittore concludeva che, tutto sommato, fatte alcune debite eccezioni, l’uomo d’oggi, costretto com’è a vivere una vita piena di disagi e difficoltà che quasi tolgono la gioia di vivere, è da ritenersi esente dal peccato. Invero, è di tutta evidenza come il notevole affievolimento della sensazione del peccato fino alla sua perdita totale, costituisca una non esaltante prerogativa dell’uomo contemporaneo, che è, così, portato a convincersi dell’inesistenza sia dell’Inferno, sia addirittura dello stesso Purgatorio, in quanto già su questa terra ognuno di noi avrà sofferto in abbondanza prima di morire. La mia riflessione sull’argomento mi porta a soffermarmi non già sui singoli peccati (non certo per la motivazione della mancanza degli stessi), bensì sull’empietà che S. Paolo definisce madre, radice e causa di ogni altro peccato. L’empietà nei confronti del Signore che risiede essenzialmente nel rifiuto a glorificarlo, lodarlo e ringraziarlo, determina, infatti, l’abbandono dell’uomo da parte di Dio, il quale non si oppone più a che l’uomo, lasciato in balia di se stesso, compia ogni genere di iniquità. Il prototipo del peccatore colpevole di empietà verso il Signore è Lucifero che, con la sua ribellione, preferì la dannazione per propria colpa alla beatitudine per merito di un Altro. E’ sempre per questa stessa ribellione che il Diavolo convinse Adamo ed Eva a mangiare il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, commettendo il peccato originale: questo misterioso peccato, con il quale il primo uomo credette di poter diventare simile a Dio, pretendendo di arrogarsi ogni valutazione su ciò che è bene e ciò che è male. Se si considera, invece, che uno dei più importanti comandamenti, come ci ha insegnato lo stesso Gesù Cristo, consiste nell’amare il “Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta le mente”, di fronte alla radicalità di tale messaggio come non avvertire un evidente disagio che inevitabilmente ci deve spingere a ritenerci tutti peccatori?. “Il mio popolo ha abbandonato me sorgente di acqua viva, per costruire cisterne screpolate che non tengono l’acqua”. Ma quali sono le pericolose e subdole sollecitazioni interiori dell’animo umano, che spingono l’uomo d’oggi ad allontanarsi sempre più dall’amore di Dio, scambiando “la gloria del Signore con l’immagine di un bue che mangia fieno?”. “Fanno tutti così”: è, innanzi tutto, sulla base di questa constatazione che l’uomo è portato, per suo tornaconto, a seguire la massa, come se la legge morale scaturisse dal modo di comportarsi della maggioranza od anche della totalità dei soggetti; questa forma biasimevole di “pecoronaggio” mortifica ed uccide lo spirito dell’uomo che, sempre, deve cercare di pervenire ad una corretta e rigorosa valutazione del proprio operato a prescindere dall’altrui comportamento. “Chi me lo fa fare?”: a volte desistiamo da un comportamento obbiettivamente corretto solo perché intravediamo soltanto i suoi immediati effetti negativi sulla nostra tranquillità e non ci facciamo carico di verificare quelli positivi, anche se solo del tutto ipotetici. “Non faccio male a nessuno”. Altre volte, ipocritamente, basiamo la nostra indagine sulla ricerca di un soggetto esterno che eventualmente possa risultare danneggiato dalla nostra azione e, non trovandolo, procediamo tranquilli nel nostro cammino, senza accorgerci che, il più delle volte, i danneggiati siamo noi stessi. “Segui le ragioni del cuore” (per non usare le stesse parole del titolo di un libro che ha ottenuto un enorme successo editoriale): ecco l’imperativo allettante che acquieta le coscienze, inducendole ad un vuoto e sterile sentimentalismo, quando ci si lascia condurre da un cuore che, svincolato da ogni obbiettivo riferimento alla legge divina, in sostanza, rifiuta il vero Amore. “Per la sua iniquità – così dice il Signore – mi sono adirato con il mio popolo, l’ho percosso, mi sono nascosto e sdegnato; eppure egli, voltandosi, se n’è andato per le strade del suo cuore”. Notevolmente affievolita o addirittura venuta meno la sensazione del peccato, l’uomo di oggi è sempre più orientato alla ricerca di sofisticate soluzioni che lo convincano in ordine alla giustificazione dell’operato suo e di quello degli altri, dimenticandosi, invece, del perdono che il Signore è sempre disponibile a concedere, nella sua infinita misericordia, senza limitazioni alcune ad un cuore “affranto ed umiliato”: indispensabile presupposto di una valida richiesta di perdono è, però, un corretto esame di coscienza, svolto in piena umiltà innanzi al Signore. Quanto, poi, alla distinzione tra peccato mortale e quello veniale, quest’ultima la troviamo nella prima lettera di Giovanni (5, 16-17), ove è detto: “se uno vede il proprio fratello commettere un peccato che non conduce alla morte, preghi, e Dio gli darà vita…..c’è infatti un peccato che conduce alla morte….ogni iniquità è peccato, ma c’è il peccato che non conduce alla morte”. Secondo alcuni teologi, il peccato mortale si verificherebbe soltanto nel rifiuto di Dio, quale risultato di un atto che coinvolge la persona nella sua totalità, cioè un atto di “opzione fondamentale”. Al riguardo Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor”, osservava che “si dovrà evitare di ridurre il peccato mortale ad un atto di “opzione fondamentale” contro Dio, concepito sia come esplicito e formale disprezzo di Dio e del prossimo, sia come implicito e non riflesso rifiuto dell’amore. Si ha, infatti, peccato mortale anche quando l’uomo, sapendo e volendo, per qualsiasi ragione sceglie qualcosa di gravemente disordinato. In effetti, in tale scelta è già contenuto un disprezzo del precetto divino….senza dubbio si possono dare situazioni molto complesse e oscure sotto l’aspetto psicologico, che influiscono sulla punibilità soggettiva del peccatore. Ma dalla considerazione della sfera psicologica non si può passare alla costituzione di una categoria teologica, quale appunto l’ ‘opzione fondamentale’, intendendola in modo tale che, sul piano oggettivo, cambi o metta in dubbio la concezione tradizionale di peccato mortale……Con tutta la tradizione della Chiesa noi chiamiamo peccato mortale questo atto, per il quale un uomo, con libertà e consapevolezza, rifiuta Dio, la sua legge….il che può avvenire in modo diretto e formale, come nei peccati di idolatria, di apostasia, di ateismo; o in modo equivalente, come in tutte le disubbidienze ai comandamenti di Dio in materia grave”. Secondo la Tradizione della Chiesa (v. Catechismo della Chiesa cattolica) “la materia grave è precisata dai Dieci comandamenti, secondo la risposta di Gesù al giovane ricco: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre. La gravità dei peccati è più o meno grande: un omicidio è più grave di un furto…Perché il peccato sia mortale deve anche essere commesso con piena consapevolezza e totale consenso che presuppone la conoscenza del carattere peccaminoso dell’atto, della sua opposizione alla Legge di Dio; implica, inoltre, un consenso sufficientemente libero perché sia una scelta personale…L’ignoranza involontaria può attenuare se non annullare l’imputabilità di una colpa grave. Si commette un peccato veniale quando, trattandosi di materia leggera, non si osserva la misura prescritta dalla legge morale, oppure quando si disobbedisce alla legge morale in materia grave, ma senza piena consapevolezza e senza totale consenso. Il peccato veniale indebolisce la carità; manifesta un affetto disordinato per i beni creati……tuttavia non ci oppone alla volontà e all’amicizia divine; non rompe l’Alleanza con Dio. E’ umanamente riparabile con la grazia di Dio….non priva della grazia santificante…né, quindi, della beatitudine eterna”. Nel Vangelo è detto, con estrema chiarezza, che tutti i peccati saranno perdonati, eccetto quello contro lo Spirito Santo. "In verità vi dico: ai figli degli uomini saranno perdonati tutti i peccati e qualunque bestemmia avranno proferita; ma chiunque avrà bestemmiato contro lo Spirito Santo, non ha perdono in eterno, ma è reo di un peccato eterno." (Marco 3:28,29) Ma cosa significa: “bestemmiare contro lo Spirito Santo?”. Peccare contro lo Spirito Santo significa rifiutare coscientemente e volontariamente fino alla fine l’opera della salvezza che Egli vuol realizzare nel nostro cuore, con il nostro ravvedimento e la richiesta di perdono al Signore. Convincere di peccato è opera dello Spirito Santo: il peccato diventa, quindi, imperdonabile quando la persona rifiuta e non cerca più il perdono di Dio, nell’erronea convinzione di essere nel giusto, continuando, così, per il resto della propria vita, a non rispettare i Suoi comandamenti.

49) Il Dio nelle tre religioni monoteistiche

(Pubblicato nella rivista “Avis a Roma”, n. 2 giugno 2012, www.avisroma.it ) Sulla base delle acquisite conoscenze scientifiche sull'origine dell'universo (con particolare riferimento ad un sempre più certo suo “inizio”) e delle innumerevoli leggi che lo governano, secondo un evidente e preordinato progetto, puo pervenirsi alla conclusione che ammettere l'esistenza di un Dio creatore sia un fatto quanto meno ragionevole, in assenza di qualsiasi altra valida ipotesi: si pensi, per esempio, alla teoria della casualità che, sulla base di un calcolo statistico delle probabilità, appare davvero inverosimile. La forza dell'esistenza di un Dio creatore è comune alle tre religioni monoteiste: Ebraica, Islamica e Cristiana che, in generale, raccolgono la stragrande maggioranza della popolazione mondiale;l'induismo, il buddismo, il neoplatonismo plotiniano ed, in genere, tutte quelle correnti di pensiero che, pur nella loro indiscutibile ricchezza di contenuti, costituiscono non una vera e propria religione, ma più che altro una filosofia di vita, a prescindere dall 'idea di un Dio creatore dell'universo e tutte le loro prescrizioni sono essenzialmente finalizzate al raggiungimento di un sereno stile di vita. Comune fondamento dell'Ebraismo e del Cristianesimo è costituito dal complesso di libri sacri, perché ritenuti di ispirazione divina, denominazioni “Antico Testamento”: lo stesso Islam ne accetta molte parti e molti profeti, riconoscendone un'origine celeste, sia pure alterata dal fluire del tempo e dalla malizia degli uomini.Lo studio approfondito del complesso di tali libri, che risultano scritti nell'arco di circa 1500 anni, costituisce un'ardua impresa: in essi si narra come Dio si scelse, con singolare disegno, il popolo di Israele al quale affidare le promesse di salvezza dell'uomo, dopo la sua “caduta”, avvenuta con il peccato originale, per aver mangiato del frutto dell'albero della conoscenza del bene e del male, ovvero per aver preteso, opponendosi alla legge divina, di rendersi egli stesso autore di tale legge sulla determinazione di ciò che è bene e ciò che è male.La lettura dei libri dell'Antico Testamento, manifestando a tutti la conoscenza di Dio ed il modo, giusto e misericordioso, con cui si comporta con gli uomini, evidenzia come gli stessi siano soprattutto preordinati a preparare ed annunziare profeticamente l'avvento di un Messia . Orbene, in detti libri, scritti da innumerevoli autori, in un arco di tempo davvero ingente, si ritrovano oltre trecento precisi riferimenti all'avvento di tale personaggio, identificato con vari appellativi, prevedendone, anche se sulla base di un intervento interpretativo, sia il tempo che il luogo della sua nascita ed altri moltissimi dettagli sulla sua vita: ed è proprio dalla ricerca dell'identificazione di tale soggetto che traggono origine le sostanziali differenze tra le suddette tre religioni.Così, mentre la religione ebraica ritiene che l'avvento come sopra profetizzato non si sia ancora verificato, rimanendo tuttora in attesa di tale evento, per il Cristianesimo il Messia preannunciato si identifica nella persona di Gesù Cristo e, per l'Islam, in Maometto . A proposito della posizione ebraica, Giovanni Paolo II, in occasione della storica Sua visita alla Sinagoga romana, ebbe a dire “ai fratelli maggiori” che, tutto sommato, sia i cristiani che gli ebrei sono in attesa della venuta della stessa Persona, con la differenza che, per i cristiani, si tratterà della sua seconda venuta, mentre, per gli ebrei, della prima. Ma chi è realmente questo Dio creatore dell'uomo, del cielo e della terra e supremo legislatore dell'universo?Per rispondere a questa domanda in termini condivisi da tutte e tre le suddette religioni, è bene rifarsi all'incontro di Mosè con Dio, così come narrato nell'Antico Testamento. A Mosè, il quale chiedeva quale fosse il nome di Dio che gli aveva parlato dal roveto ardente, per riferire agli Israeliti quanto aveva udito, Dio rispose: “Io sono colui che sono. Dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi”. Pare quasi di sentirla questa voce solenne e maestosa scandire con potenza quell' “Io sono”, come il fragore che, rompendo il silenzio, squassa ogni cosa e si propaga di valle in valle, moltiplicandosi in mille echi tumultuosi.Può sembrare la voce imperiosa di un Dio sterminatore, vendicatore, “terribile”, pronto impietosamente a castigare le sue malcapitate creature, senza possibilità alcuna di scampo o riparo: di fronte ad un Dio siffatto c'è solo, inevitabilmente, la propensione ad una fuga precipitosa e di esito quanto mai incerto, unitamente ad un angoscioso senso di paura e di disperata tristezza. Perché questa sensazione di annichilimento e di crollo spaventoso innanzi a chi si identifica con l' “Io sono”?. Invero, tale è la condizione della creatura che avverta, sia pure inconsapevolmente, come la propria identificazione sia da ricercarsi nel suo “non essere”: è allora che la distanza tra l'io e l'“Essere” diventa abissale ed incolmabile. “Non essere”,identificato in quel continuo divenire, ove si finisce per vivere immersi nel passato (o meglio nel ricordo di un passato che non esiste più) e dallo stesso, comunque, condizionati, nel bene e nel male e, quindi, proiettati verso un futuro tutto terreno (comunque anch'esso non reale, perché ipotetico, sul cui contenuto si hanno, in alternativa, solo vaghe aspettative positive o negative): tutto ciò comporta la perdita del “presente” che diventa, così quell'attimo fuggente assolutamente indecifrabile, con la conseguenza della fuga da Chi, invece, è l'eterno presente, oltre ogni umano limite di tempo. Si tratta, allora, di trovare la capacità di adeguare il proprio “non essere” all' “Essere” per convertire quella fuga da ciò che passa verso ciò che rimane in eterno, al fine di pervenire ad una concreta partecipazione con l' “Essere stesso: allora il tuono fragoroso si modificherà in un “lieve sussurro di una brezza leggera”; la disperata tristezza in soave malinconia; la terrificante paura, in sano timore. Timore che non è lo stato d'animo che attanaglia l'umana debolezza quando teme di soffrire ciò che non vorrebbe gli accadesse: in altri termini, mentre la “paura” riguarda l'intenzione di ricevere del male dall'altro, il “timore ” riguarda, invece, l'avvertita incapacità del soggetto di non corrispondere appieno all'amore che l'altro riversa su di noi. Si deve all'ispirata intuizione di Madre Luisa Margherita Claret de la Touche una delle più belle pagine, tratte dai suoi scritti, su: “Il nome di Dio”, qui di seguito sinteticamente riportato. “All'inizio dei tempi Dio stesso si era dato un nome: 'Io sono colui che sono'. L'essere assoluto, sovranamente indipendente e libero nella conduzione degli avvenimenti. L'Essere esistente per Se stesso. Mosè, il grande legislatore degli israeliti, il privilegiato che con la sua dolcezza e la sua forza aveva attirato su di sé lo sguardo di Dio, riconoscendo nel rovereto ardente del deserto la presenza della divinità, gli aveva chiesto il nome, e Dio aveva risposto in mezzo al fuoco: “Io sono Colui che sono”. Profonda risposta che rivelava Dio come l'Essere supremo, sostanziale, unico, causa e principio di ogni essere; di una stabilità e unità assoluta; non soggetto ad alcun mutamento, ad alcuna caratteristica o accrescimento. Ma risposta misteriosa, come misteriose sono tutte le manifestazioni di Dio nell'Antico Testamento, che non svelavano il mistero di Dio e tenevano l'anima umana come sospesa davanti a questo Essere incomprensibile. L'uomo, ancora troppo vicino alla caduta delle origini, che ancora portava su di sé l'impronta infamante del peccato, poteva solo intravvedere la Divinità nascosta sotto i suoi attributi. Talvolta, quando vedeva la sua potenza manifestarsi con prodigi strepitosi, lo chiamava l”Onnipotente” altre volte, quando considerava l'ordine e la sapienza con cui era condotto l'universo, lo chiamava: la “Divina Sapienza”; quando i misteri della divina condotta sorpassavano la sua intelligenza, lo chiamavano l”Altissimo”; altre volte ancora, quando si sentiva avvolto dalla sua tenerezza e perdonato dei suoi peccati, lo chiamavano “Somma Bontà” e il “Misericordioso”. Tutti i nomi davano un'idea, un aspetto di Dio, ma non potevano definirlo nella sua totalità, nella sua essenza. Perché, chi lo chiamava: l'”Onnipotente” non si richiamava alla sua bontà e chi lo chiamava: “Somma Bontà” in certo qual modo dimenticava la sua giustizia.I Patriarchi ei Profeti non conobbero il vero nome di Dio; avevano intravisto, ma non visto la Divinità. Camminavano ancora fra le ombre. A Dio occorre un nome che possa dirlo Creatore e insieme Salvatore; un nome che racchiuda in sé l'idea dell'onnipotenza, della sapienza infinita, della bontà, della misericordia, della grandezza, della forza, della dolcezza, della bellezza, del bene assoluto; un nome che parli di eternità senza inizio e senza fine; che possa convenire a Dio puro spirito. Dio è l'Amore: ecco il vero nome di Dio. Ma Dio è infinito: dunque è l'Amore Infinito. L'Amore Infinito è la sua essenza, la sostanza del suo Essere e nello stesso tempo è il suo Nome.Si chiama Amore, perché è l'amore personificato, perché tutto ciò che compie è amore e perché tutto ciò che fa, lo fa per amore e nell'amore. Tutti i misteri hanno la loro spiegazione perché Dio è l'Amore e le sue opere tutte impregnate di amore ci dicono che Egli è l'Amore stesso!”. La rivelazione esplicita che Dio è amore la si ritrova, per i cristiani, nella prima lettera di Giovanni (4, 12-16): “Nessuno mai ha visto Dio…….Noi abbiamo riconosciuto e creduto all'amore che Dio ha per noi . Dio è amore; chi sta nell'amore dimora in Dio e Dio dimora in lui”. Per i musulmani, basti ricordare che quasi tutte le Sure che costituiscono il Corano, hanno la seguente intestazione: “In nome di Allah, il Compassionevole, il Misericordioso”;“il concetto di misericordia - come si legge nell'enciclica sulla misericordia divina di Giovanni Paolo II – nell'Antico Testamento (che, per gli ebrei, costituisce l'unica raccolta di libri sacri) ha una sua lunga e ricca storia……… i Profeti collegano la misericordia di Dio all'amore di uno sposo. L'Esodo è tutta una grande operazione di misericordia, dall'inizio alla fine. Mosè parla di 'Dio misericordioso e pietoso, lento all'ira e ricco di grazia e di fedeltà'”.

50) La corruzione

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Negli ultimi mesi stiamo assistendo ad una vera e propria raffica di scandali per episodi di corruzione d’ogni tipo che coinvolgono vari settori, ma soprattutto quello della politica, ormai vista come un mondo distaccato dove regna l’interesse personale che spinge i suoi componenti a preoccuparsi solo del bene proprio senza badare a quello altrui: in un momento di profonda crisi, come l’attuale - in cui la maggioranza degli italiani è costretta a grandi sacrifici per far fronte al continuo aumento del costo della vita, aggravato dall’incremento del carico fiscale (non equamente distribuito) che determina un sensibile decremento del valore reale di stipendi e pensioni, senza considerare il triste fenomeno della disoccupazione, soprattutto giovanile, in continua e preoccupante ascesa - il dover assistere quotidianamente ad un immorale reticolo di corruttele e di scandali che alimentano indebitamente un enorme flusso di disponibilità finanziarie nelle tasche di una spregiudicata minoranza di cittadini, non può che rafforzare una profonda indignazione nella gente comune unitamente all’auspicio dell’avvento di una lotta penetrante ed inesorabile a tale inquietante fenomeno. Lo stesso Governo ha ritenuto, di recente, di dover applicare nuove disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione: sul piano del diritto positivo, la corruzione risultava, infatti, già particolarmente prevista e sanzionata come reato dal codice penale. Sinteticamente, secondo le disposizioni previste dalla legge penale, la corruzione ricorre nell’ipotesi in cui un pubblico ufficiale riceve una somma di denaro quale compenso non dovuto per indurlo a compiere un atto dell’ufficio o del servizio. Perché si compia la corruzione occorre, quindi, il concorso di due soggetti: il corruttore-istigatore ed il pubblico ufficiale (corrotto), mentre il denaro, od altra utilità, costituisce il mezzo usato dal corruttore per realizzare il suo scopo; alla stessa pena soggiace, poi, sia il corruttore che il corrotto. Diversa è la fattispecie (concussione) nella quale è lo stesso pubblico ufficiale ad indurre il cittadino a dargli o promettergli indebitamente una somma di denaro: in tal caso, l’illecito è ascrivibile al solo pubblico ufficiale. Se tale è la configurazione della corruzione sotto l’aspetto del diritto positivo, sul piano della morale cattolica, anche se non sempre comportamenti che il diritto penale qualifica come reati sono anche considerati moralmente condannabili, il “Catechismo della Chiesa Cattolica” (n. 2409) colloca la corruzione come violazione del settimo comandamento (non rubare). Invero, come ivi esplicitamente indicato, “il settimo comandamento proibisce di prendere o tenere ingiustamente i beni del prossimo e di arrecare danno al prossimo nei suoi beni in qualsiasi modo”: rientrano, pertanto, in tale ambito, come atti moralmente illeciti, oltre al furto in senso stretto: la speculazione, i lavori eseguiti male, la frode fiscale, la contraffazione di assegni, le spese eccessive, lo sperpero, ecc. Desta talune perplessità, anche se l’argomento specifico è riproposto in maniera più approfondita in altre sedi, la scarna ed imprecisa definizione di tale riprovevole comportamento data dal suddetto Catechismo: in un solo rigo, infatti, viene citata “la corruzione, con la quale si svia il giudizio di coloro che devono prendere decisioni in base al diritto”. Sembra quasi che l’attenzione si concentri solo sulla figura del corruttore e non anche su quella del corrotto, mentre non si fa alcun cenno sul mezzo usato (denaro, od altri beni) per ottenere l’indebita prestazione. Invero, perché la corruzione si realizzi è sempre necessario il concorso di almeno due persone: il soggetto da corrompere, da un lato ed il soggetto corruttore-istigatore, dall’altro. In altri termini, la “tentazione” messa in atto dal corruttore assume valore determinante sul comportamento del corrotto; ovviamente ciò non può avere alcuna conseguenza, né come giustificazione, né come attenuante, sulla valutazione di un comportamento assolutamente deprecabile, ma deve spingere ad una più serena riflessione da parte di quanti, pur giustamente, manifestano la propria indignazione per gli autori di siffatto vero e proprio crimine sociale. Inoltre, non può sottacersi la considerazione che la corruzione può essere consumata solo da parte di soggetti che si trovino in particolari situazioni, con riferimento alla loro posizione di funzionari pubblici preposti alla gestione, sotto vari aspetti, di denaro pubblico. E’, infatti, sin troppo facile esprimere pesanti condanne nei confronti dei “corrotti” da parte di chi, non certo per propria scelta, non si trovi in quella particolare situazione sopra indicata, senza aver fatto un serio esame di coscienza; così, d’altra parte, è anche evidente la giustificata indignazione di fronte a spropositati compensi, liquidazioni e pensioni (che costituiscono grave offesa nei confronti di chi non riesce ad arrivare alla fine del mese, con il proprio stipendio o pensione) attribuiti a personalità varie del mondo della politica e della finanza, senza porsi l’interrogativo di cosa ognuno avrebbe fatto al loro posto. E’evidente, quindi, che il vero istigatore della corruzione, sotto il profilo morale, vada individuato nel denaro o, meglio, nel suo uso (ovvero anche nel desiderio di un sempre maggiore suo accrescimento) che non sia conforme a criteri di moderazione ed equità sociale: il denaro, pertanto, con riferimento al rapporto che si instaura con il soggetto che lo detiene, può diventare un ottimo servitore, oppure un pessimo padrone. Il denaro e la ricchezza in genere, di per sé, non va comunque condannata, ma solo quando è ingiusta od iniqua. E’ ingiusta la ricchezza quando la stessa è conseguita in maniera illecita: in tal caso va, innanzi tutto, restituita a chi è stata sottratta, sia che si tratti di un soggetto privato che di una pubblica organizzazione. La ricchezza può, inoltre, essere considerata iniqua, quando, pur essendo lecitamente acquistata, viene utilizzata in maniera egoistica, senza alcuna moderazione ed al di fuori d’ogni principio di cristiana solidarietà: ciò avviene quando tra la ricchezza ed il suo detentore sussiste un rapporto di patologico attaccamento che sfocia in vera e propria soggezione, a prescindere dalla sua entità. Tutto ciò è efficacemente descritto in diverse pagine del Vangelo: è fin troppo noto, innanzi tutto, l’episodio del giovane ricco, che non viene citato con il proprio nome, ma identificato semplicemente come un “tale”. In questo caso, l’invito di Gesù rivolto al giovane ricco di vendere “tutto” ed a dare ai poveri il ricavato, sembra individuare nella ricchezza qualcosa di fondamentalmente negativo di cui è meglio sbarazzarsene completamente, anche se lecitamente conseguita (il giovane, infatti, nell’episodio narrato nel Vangelo, testualmente dichiara di osservare i comandamenti, compreso quello di non rubare): invero, la soluzione radicale suggerita da Gesù risiede essenzialmente nella particolare situazione di quel giovane, di essere, cioè, una persona troppo attaccata ai propri beni, tanto da rendere impossibile una profonda trasformazione nel modo di gestione di tale ricchezza; da tale soggettiva impossibilità (evidentemente avvertita da Gesù) ne deriva il consiglio di disfarsi completamente di ogni ricchezza. Infatti, il giovane ricco “se ne andò triste; poiché aveva molte ricchezze”. Diverso è, invece, il caso di Zaccheo, il cui ravvedimento operoso è positivamente ricordato: qui ci si trova di fronte ad un soggetto molto ricco e che ha accumulato le sue ricchezze, almeno in parte, in modo illecito. L’incontro con Gesù produce una profonda conversione nell’animo di Zaccheo il quale, innanzi tutto, promette di restituire (“quattro volte tanto”) ciò che ha frodato e di donare la “metà” dei suoi beni ai poveri. Ciò che conta, non è, pertanto, l’ammontare di quello che si dà, né la percentuale di ciò che si dà rispetto all’ammontare complessivo dei propri beni, ma una sana predisposizione d’animo aperta alla solidarietà e, soprattutto, fondata sulla consapevolezza che ciò che è in mio possesso mi è stato dato solo in amministrazione: non è, pertanto, corretto ritenere che di tutto ciò che è “mio” sono libero di farne ciò che voglio. Lo smodato utilizzo delle proprie ricchezze e lo sperpero del superfluo costituisce, infatti, un’evidente grave offesa ed un’indebita sottrazione nei confronti di coloro ai quali manca l’indispensabile necessario per sopravvivere. Inoltre, la vera carità consiste nel dare ciò che ognuno è in grado di dare nell’ambito delle proprie disponibilità senza condizionare la propria solidarietà ad eventuali fortunosi accrescimenti delle proprie ricchezze: non è raro, infatti, sentire affermazioni di grandi propositi di beneficenza, condizionandoli ad eventuali future vincite. Se si ha poco o nulla da dare, allora sarà bene rifarsi all’aureo esempio di Chi non avendo più nulla ha donato sé stesso, seguendo il Suo “comandamento nuovo”: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Concludendo, la corruzione e tutte le altre iniquità commesse sotto la spinta della forte tentazione del conseguimento di un sempre maggiore accumulo di denaro e ricchezze potranno essere efficacemente combattute solo pervenendo ad una radicale revisione dei rapporti che intercorrono tra ognuno di noi con gli altri e con la ricchezza in genere, sostituendo, al desiderio di ricchezze da conseguire con l’indebito utilizzo degli altri, l’uso di quanto mi appartiene finalizzato al bene del mio prossimo: solo per questa via, infatti, può pervenirsi al raggiungimento di una vera e salda pace sociale, indispensabile presupposto di un vivere civile proteso alla realizzazione del bene comune.

51) La speranza

Come disse Padre Liberman, uno dei più grandi maestri spirituali del secolo scorso: “una delle cose che maggiormente paralizzano gli uomini nelle relazioni con Dio, impedendo loro di progredire, è la mancanza di speranza”. E’ sempre, infatti, opportuna un’attenta analisi per verificare il grado della nostra fiducia in Dio, a prescindere dalla valutazione dei singoli problemi, più o meno gravi, che ci affliggono; perché è la mancanza di speranza che, a volte, quando ci vediamo messi di fronte a difficoltà di varia origine che riteniamo superiori alle nostre capacità di sopportazione, ci blocca e ci fa indietreggiare sul cammino intrapreso, lasciandoci vincere dal subdolo suggerimento interiore, secondo cui, per superare certi ostacoli, bisognerebbe essere santi e la santità non è per noi. La speranza consiste nell’aspettativa della realizzazione di cose desiderate: ma quale grande differenza intercorre tra l’aspettativa della realizzazione di cose terrene, rispetto all’analoga aspettativa, quando quest’ultima ha per oggetto le cose celesti. L’aspettativa di cose terrene è sempre, infatti, sottoposta all’eventualità della realizzazione concreta di quanto desiderato: in altri termini, il nostro desiderio può rivolgersi su qualcosa che oggettivamente potrebbe non realizzarsi mai. Non così per le cose celesti, per le quali è la nostra fede a garantirci la certezza dello loro realizzazione, in quanto Dio non delude mai una speranza che sia piena di umiltà e fondata sull’amore. Essendo tutti peccatori, l’oggetto della nostra speranza riguarda, innanzitutto, l’allontanamento dell’ira della giustizia divina che ceda il passo all’avvento del suo Amore misericordioso. Non si può parlare di misericordia di Dio se non si crede alla sua giustizia: e la misericordia è giustamente quel potere che Egli ha di prendere un cuore indurito, di toccarlo e di strappargli un grido al quale non può resistere e che potrebbe così efficacemente esprimersi, con le parole di Maria Noel: “Dio mio, io non ti amo….Ma passando, guardami, sosta per un attimo nell’anima mia, metti un po’ d’ordine così, senza dirmi niente….Se vuoi che io ti ami, dammi l’amore. Io non ne ho, non ci posso far niente. Ti do quello che ho: la mia debolezza. Il dolore….Questa disperazione….Questa vergogna inaudita, il mio male e la mia speranza!”. Speranza, quindi, nella propria salvezza e di quella degli altri, perché “chiamati, in Cristo Gesù, a partecipare alla stessa eredità, a formare lo stesso corpo e ad essere partecipi della promessa per mezzo del vangelo” (Ef. 3, 6), nonostante la nostra pochezza, unitamente alla speranza nel grande aiuto per ottenerla, offerto dalla preghiera, unica arma con la quale possiamo vincere il Signore. E’ quando avverto la mia estrema debolezza è, allora, che si manifesta in me una grande potenza: è la speranza certa nell’aiuto del Signore, la “mia” forza. Mi sovviene, al riguardo, il racconto proposto da un sacerdote durante una sua omelia. Un bambino è alle prese di un pesantissimo vaso che cerca di spostare: il padre lo osserva e lo incoraggia ad insistere, dicendogli di essere sicuro che il piccolo ce l’avrebbe fatta con le proprie forze. Alla fine, però, il bambino, dopo ulteriori e vani tentativi, desiste. Il padre lo invita a verificare se effettivamente ha utilizzato tutte le sue forze; il bambino annuisce, senonchè il padre gli fa presente che ciò non corrisponde al vero, in quanto: “non hai chiesto – gli dice – il mio aiuto”. La speranza è una virtù forse un po’ negletta, immeritatamente: essa, invece, costituisce l’indispensabile corollario che ravviva, rinvigorisce e purifica le altre due virtù teologali della fede e della carità. Infatti, mentre, da un lato, elimina ogni possibilità di presunzione su eventuali propri meriti idonei al conseguimento della salvezza, dall’altro efficacemente combatte contro gli inutili sensi di colpa che possono portare allo sconforto ed alla disperazione, in considerazione della nostra pochezza. Pertanto, come “la fede senza le opere è morta” (Gc. 2,26) dato che (come s. Giacomo aggiunge) “anche i demoni credono in Dio e lo temono”, lo stesso può dirsi sia per la fede che per la carità senza la speranza: una fede, infatti, che prescinda dalla speranza nella misericordia divina contraddice se stessa, mentre la stessa carità esercitata senza l’aspettativa della “gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm. 8, 18) risulterebbe poca cosa; ecco perché San Paolo afferma che “nella speranza noi siano stati salvati” (Rm. 8, 24); “tutti infatti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male” (2 Cor. 5, 10). Le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) appaiono, quindi, tra loro legate in un vincolo di necessaria interconnessione, ognuna avendo pari dignità delle altre due. Credere, sperare ed amare sono, quindi, i fondamentali principi cristiani cui deve ispirarsi il comportamento dell’uomo che aspiri alla propria salvezza, finché è su questa terra; solo “la carità non avrà mai fine” (1 Cor. 13, 8). Dopo la morte, fede e speranza svaniranno: quando “allora vedremo faccia a faccia” e non più “come in uno specchio, in maniera confusa” (1 Cor. 13, 12) non avremo, infatti, più bisogno di aggrapparci alla fede per credere, similmente a quanto accadrà per la speranza (“ciò che si spera, se visto, non é più speranza; infatti, ciò che uno già vede, come potrebbe ancora sperarlo?”: Rm. 8, 24) quando sarà totalmente realizzata con il ritorno nella Patria beata del Padre, assaporando la sublime dolcezza del naufragare nel mare infinito dell’Amore di Dio. La speranza nel ritorno alla Patria Beata, nella consapevolezza che “le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà esser rivelata in noi” (Rm. 8, 18), dà coraggio nella sofferenza e ci spinge, comunque, in questa fiduciosa attesa, a vivere sempre con serenità e gioia: gioia che, sia pur inconsapevolmente, distribuiremo a quanti avremo modo di incontrare sul nostro cammino, senza che, con questo, possa diminuire: “la gioia è una merce meravigliosa – sosteneva, infatti, Pascal – più se ne distribuisce e più se ne ha”.

52) Testimonianza

L’esigenza di una nuova evangelizzazione è oggi particolarmente sentita quale possibile rimedio ai mali che affliggono l’uomo contemporaneo: essa comporta l’annuncio e la celebrazione della Parola, proponendo i contenuti del Vangelo nella predicazione e nel dialogo personale. E’ necessario proclamare e testimoniare il Vangelo verso chiunque: il tutto con esclusione di idee personali e senza temere l’ostilità, l’impopolarità, rifiutando ogni compromesso ed ambiguità, cercando di suscitare una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati dal Signore per colpa propria o per scandali altrui, perché ritornino a Lui e rimangano sempre nel suo amore. “Annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta, con ogni magnanimità e dottrina”: questo è l’insegnamento di S. Paolo. Invero, un’autentica testimonianza cristiana si basa essenzialmente sulla partecipazione, senza finzioni, ai fratelli del mistero della propria nuova vita e ciò, più che con parole superflue, attraverso l’esempio concreto di un adeguamento reale e radicale dei propri quotidiani comportamenti ai principi cui si ritiene di doversi ispirare. Così facendo si può, forse, cadere nella tentazione di sentirsi incompreso. In effetti chi si ritiene incompreso, il più delle volte, manifesta una forte presunzione di sé stesso: “come mai il mio agire non è apprezzato ed additato agli altri come esempio? Come mai le mie idee, le mie affermazioni, le mie parole non sono accolte e messe in pratica dagli altri?”. Tale stato d’animo può portare all’auto esaltazione di sé stesso di fronte a tutto il mondo circostante, fino a ritenersi quasi un nuovo profeta….Ciò può avvenire quando il soggetto è mosso prevalentemente dall’infondato proponimento, più o meno consapevole, di voler, col proprio comportamento, cambiare il modo di essere degli altri. Il vero “testimone”, invece, innanzitutto, non si prefigge mai di “testimoniare”: saranno gli altri, eventualmente, ad accorgersi di avere a che fare con una persona diversa che agisce controcorrente, in maniera evidentemente contraddittoria nei confronti del modo di porsi di tutti gli altri. La vera testimonianza è, poi, svincolata da un obbiettivo da raggiungere; la sua validità va ricercata in sé stessa e non ha bisogno di riscontri sulla base degli effetti conseguiti: che se vengono realizzati effetti immediati, possono, forse, sorgere addirittura seri dubbi sulla sua autenticità. La vera testimonianza, infatti, non è chiassosa e, pertanto, è aliena da accuse clamorosamente formulate, puntando il dito ostentatamente nei confronti di chi si ritiene non sia sulla retta via, ma agisce con discrezione, eventualmente richiamando quest’ultimo amorevolmente e nella maniera più riservata possibile in modo da non suscitare inutili scandali. La vera testimonianza è, inoltre, aliena, il più delle volte, dalla “predica”, affidandosi, invece, ad un più eloquente silenzio. A proposito della predica silenziosa mi piace ricordare un apologo orientale: poco prima della predica di un maestro buddista, un uccello cominciò a cantare su di un albero fuori delle mura del monastero. Il maestro tacque e tutti ascoltarono il canto in rapito silenzio. Appena l’uccellino smise, il maestro annunziò che la predica era finita e se ne andò. Testimoniare è saper cogliere le occasioni che vengono offerte nel quotidiano, facendo valere una presenza che si realizzi secondo le modalità più opportune che le situazioni del momento suggeriscono, senza alcun timore delle eventuali conseguenze negative su sé stessi, a volte scegliendo il nascondimento, sempre che quest’ultimo non possa essere interpretato disinteresse o, peggio, acquiescenza e tacita approvazione dell’operato altrui. Tutto ciò, inevitabilmente, può comportare emarginazione, disprezzo e derisione: “se Cristo venisse oggi fra noi – come qualcuno ha affermato – forse sceglierebbe il martirio della derisione”. Comunque, “nonostante le apparenze – e queste sono le parole di Giovanni Paolo II, pronunciate in occasione di una sua visita in Polonia – i diritti della coscienza vanno difesi anche oggi. Sotto l’insegna della tolleranza si diffonde, infatti, nella vita pubblica e nei mezzi di comunicazione di massa una intolleranza sempre più forte: i credenti ne risentono dolorosamente. Essi avvertono crescenti tendenze alla loro emarginazione nella vita sociale: si deride, a volte, e si schernisce ciò che per loro è più sacro. Queste forme di ritornante discriminazione destano inquietudine e fanno molto pensare”. Purtroppo, “l’insidia che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo – come affermato dal Cardinale Biffi, nella nota pastorale “Christus hodie”, in preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale del lontano 1997– consiste nel rilevare che i discepoli di Gesù, stanchi del pesante onere della testimonianza al Crocifisso risorto che viene loro affidata nel battesimo, si riducono a parlare di pace, di solidarietà, di amore per gli animali, di difesa della natura ecc…Il cristianesimo viene, così, ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura e la Chiesa del Dio vivente, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice……Così il dialogo con i lontani, non inciampando mai in un maestro che pretende di essere unico….né in un uomo che incredibilmente è anche Dio, si fa meno irto e più spedito e la nostra possibilità di essere accolti nei salotti mondani – cioè negli ambienti culturalmente emergenti, nelle redazioni dei giornali e dei telegiornali, nei circoli scientificamente e socialmente progrediti – diventa facile e senza problemi. Come se…di Lui non fosse stato mai detto che è segno di contraddizione perché siano svelati i pensieri di molti cuori”. Parole sempre attuali, tanto che Papa Francesco nella Sua prima omelia ai Cardinali, (Santa Messa del 14 marzo 2013) dopo la Sua elezione, ha autorevolmente affermato: “noi possiamo camminare quanto vogliamo, possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ong pietosa, ma non la Chiesa, sposa del Signore. Quando non si cammina, ci si ferma. Quando non si edifica sulle pietre cosa succede? Succede quello che succede ai bambini sulla spiaggia quando fanno i castelli di sabbia, tutto viene giù, è senza consistenza". Il Papa ha quindi citato una frase di Leon Bloy riferita a quando non si confessa Gesù Cristo: "Chi non prega il Signore, prega il diavolo", perché "quando non si confessa Gesù Cristo - ha spiegato - si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio……. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce - ha osservato - non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo vescovi, preti, cardinali, papi, ma non discepoli del Signore!". "Io vorrei che tutti, dopo questi giorni di grazia - ha detto Papa Francesco - abbiamo il coraggio - proprio il coraggio - di camminare in presenza del Signore, con la Croce del Signore; di edificare la Chiesa sul sangue del Signore, che è versato sulla Croce; e di confessare l'unica gloria, Cristo Crocifisso. E così la Chiesa andrà avanti". Quindi ha concluso: "Io auguro a tutti noi che lo Spirito Santo, la preghiera della Madonna, nostra Madre, ci conceda questa grazia: camminare, edificare, confessare Gesù Cristo Crocifisso. Così sia”.

53) La tolleranza

Quanti sono alla ricerca di una morale che sia di comune riferimento per credenti e non credenti, al fine di addivenire ad uno stile di vita che garantisca una migliore convivenza tra gli uomini, individuano concordemente, tra i vari punti di comune incontro, la virtù della tolleranza. Tolleranza è, innanzi tutto, disponibilità all’ascolto di chi non la pensa come me; tolleranza è assenza di ogni intento di prevaricazione sull’altro; tolleranza è rispetto e comprensione nei confronti del diverso; tolleranza è capacità di aprirsi sempre al dialogo, senza insofferenza ed impazienza. Per riuscire in questa difficile impresa è indispensabile abbandonare antichi ed anacronistici pregiudizi soprattutto in campo religioso: l’assenza di tolleranza in tale campo costituisce, infatti, un insormontabile ostacolo a qualunque altro processo di integrazione sociale. I principi di tolleranza religiosa sono stati particolarmente approfonditi da due tra i più grandi filosofi dell’era moderna: Locke e Voltaire. Per John Locke per essere buoni cristiani non si deve giudicare e condannare il prossimo solo perché ha idee diverse in materia di fede: la fede, pertanto, non può costituire un pretesto per scatenare guerre e provocare massacri. Nella sua “Lettera sulla tolleranza” così testualmente affermava: “nessuno può dirsi cristiano se impone ad altri la sua religione con forza e la violenza……la vera religione non è stata fondata per fare sfoggio di pompa esteriore, né per istituire un potere ecclesiastico e nemmeno per esercitare una forza coercitiva, bensì per disciplinare la vita umana secondo i precetti della virtù e della pietà….. Ora, io mi appello alla coscienza di coloro che col pretesto della religione perseguitano, straziano e uccidono altri uomini e mi chiedo se veramente agiscono verso di essi per spirito di amicizia e con benevolenza”. Il filosofo francese Voltaire, altro grande difensore del principio della tolleranza religiosa, nel suo “Trattato sulla tolleranza”, pubblicato nel 1763 metteva in evidenza le contraddizioni fra il cristianesimo insegnato da Gesù e l’atteggiamento di intolleranza di molti cristiani. “Se Dio non esistesse bisognerebbe inventarlo” , esclamò di fronte all’ateismo di Diderot, aggiungendo: “disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Se, però, tolleranza è solo disponibilità all’ascolto di chi non la pensa come me, assenza di ogni intento di prevaricazione sull’altro, rispetto e comprensione nei confronti del diverso, tutto questo, servirà a ben poco, se non addirittura a niente: a cosa servono, infatti, simili atteggiamenti se continueranno ad essere accompagnati dalla disapprovazione e dal radicato convincimento di essere, io, nel vero e l’altro nell’errore? Così, a fronte di una pacificazione solo apparente che non comporta alcuna reale unione, permarranno i sostanziali dissidi che procureranno ulteriori lacerazioni e divisioni. Non si può essere tolleranti con gli altri se prima non si è rigorosi con sé stessi; se, cioè, non si procede prima ad un serio esame di coscienza che non può ridursi ad una fredda introspezione, ma deve piuttosto consistere nel mettersi umilmente faccia a faccia con Dio per rispecchiarsi in Lui, alla luce della Sua verità. Scopriremo, allora, la nostra enorme ignoranza quando è in gioco il problema della verità: è sull’acquisita consapevolezza dei limiti della “nostra” verità, che deve fondarsi ogni concreto atteggiamento di una costruttiva tolleranza. Invero, l’intolleranza religiosa che sfocia in violente contese fino a degenerare in vere e proprie guerre trae origine essenzialmente dai diversi risultati cui, nel tempo, l’uomo è pervenuto nella risoluzione del fondamentale problema relativo agli interrogativi che, da sempre, si è posto, alla ricerca della Verità su sé stesso, circa le proprie origini ed il proprio fine: chi sono ?, da dove vengo ? e dove andrò a finire, dopo la morte ?. A ben guardare, il problema della Verità sull’uomo non si risolve in un problema di conoscenza, ma di identità del proprio essere; basti ricordare che Qualcuno ebbe a dire di sé stesso: “Io sono la Verità”. Ma chi, allora, è “Uomo vero”? Se la verità di qualcosa, secondo la definizione seguita da un grande pensatore, si identifica con l’esatta corrispondenza tra la cosa ed il fine per il quale è naturalmente predisposto, e tale fine, per l’uomo, è individuabile nell’adempimento del “comandamento nuovo” lasciatoci dal Gesù (“amatevi l’un l’altro come io ho amato voi”) è facile pervenire alla conclusione che la Verità sull’uomo coincida sulla sua capacità di amare. La vera tolleranza (soprattutto in campo religioso) che può sortire l’effetto dell’instaurazione di una solida e duratura pacificazione tra gli uomini non può, allora, che risiedere nell’adempimento del precetto dell’Amore fraterno. Un comportamento autenticamente cristiano non può basarsi, pertanto, su di una semplice tolleranza, nei rapporti con l’altro, identificata solo nel rispetto, nella comprensione e nell’oggettiva considerazione, ma occorre anche capacità di essere umili e di amare l’altro, anche se non la pensa come me, senza, peraltro, che un simile atteggiamento comporti l’abdicazione alle proprie convinzioni, alla ricerca di una diversa “verità” che possa essere accettata anche dall’altro.

54) La vita eterna

Ho a lungo vissuto nell’equivoco di considerare la vita eterna come qualcosa di diverso, se non addirittura contrapposto alla vita terrena, come se il concetto di eternità non fosse coniugabile con tutto ciò che è nel tempo. La vita – in quanto dono di Dio, il quale con il suo atto d’amore partecipa qualcosa di sé alla creatura, intervenendo nell’attività ministeriale della coppia nel compimento di un atto che, anche, eventualmente, a dispetto della loro volontà, è pur sempre atto di amore – è, infatti, per sua natura, eterna fin dal suo primo manifestatasi all’atto del concepimento: nulla può distruggere quanto dal Signore attribuito, a sua immagine, alla sua creatura. Resta pur sempre la difficoltà, per la mente umana, di riferire il concetto di eternità, ove tutto è stabile e, quindi, fuori del tempo, alla vita dell’uomo, sia nel periodo prenatale, sia in quello intercorrente tra la nascita e la morte, sia, forse, anche nel periodo successivo alla morte, fino al giorno della resurrezione: in ciò consiste il vero mistero della vita umana. Mistero che ci è stato rivelato, ma non spiegato, nell’incarnazione e resurrezione di Gesù Cristo. Solo nella resurrezione ci sarà dato di conseguire la beatitudine eterna, con l’assunzione del nostro corpo, divenuto irriconoscibile, in quanto riceveremo “senza velo sul volto, la gloria del Signore, trasformati nella sua stessa immagine”, in una misteriosa trasfigurazione di cui Egli stesso ne è testimone, tanto da non essere, a prima vista, riconosciuto dai suoi, nelle nuove sembianze. La vita terrena non è altro, pertanto, che quel “momento favorevole” a noi concesso per assecondare l’azione dello Spirito, nel renderci di giorno in giorno sempre più simili al Redentore e la morte non sarà altro che un transito attraverso una porta che sta a delimitare ciò che sta al di qua da ciò che sta al di là. “Hai ancora paura della morte, piccolo aborto?”, così mi interroga il mio angelo custode; “allora ripeti con me: vieni Signore Gesù, vieni”. “La parola ‘vita eterna’ – lo afferma testualmente Benedetto XVI, nell’enciclica Spe salvi – è una parola insufficiente che crea confusione”. Il termine ‘vita’ “ ci fa pensare alla vita da noi conosciuta, che amiamo e non vogliamo perdere e che, tuttavia, è spesso allo stesso tempo più fatica che appagamento, cosicché mentre per un verso la desideriamo, per l’altro non la vogliamo. ‘Eterno’ suscita in noi l’idea dell’interminabile e questo ci fa paura. La morte, certamente, si vorrebbe rimandare il più possibile. Ma vivere sempre, senza un termine, questo tutto sommato, può essere solo noioso e, alla fine, insopportabile”. Il concetto di “eternità” è, infatti, un concetto difficilmente comprensibile dalla mente umana per il semplice fatto che l’uomo vive nel “tempo”. Ma che cosa è il tempo? Sant’Agostino, nel libro XI, nn. 10-31 de “Le confessioni” si pone la stessa domanda. “Che cosa è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piena e breve? Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? Quando siamo noi a parlarne, certo intendiamo, e intendiamo anche quando ne udiamo parlare. Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente. Due, dunque, di questi tempi, il passato e il futuro, come esistono, dal momento che il primo non è più, il secondo non è ancora? E quanto al presente, se fosse sempre presente, senza tradursi in passato, non sarebbe più tempo, ma eternità. Se dunque il presente, per essere tempo, deve tradursi in passato, come possiamo dire anche di lui che esiste, se la ragione per cui esiste è che non esisterà? Quindi non possiamo parlare con verità di esistenza del tempo, se non in quanto tende a non esistere….Un fatto è limpido e chiaro: né futuro né passato esistono. E’ inesatto dire che i tempi sono tre: passato, presente e futuro. Forse sarebbe esatto dire che i tempi sono tre: presente del passato, presente del presente, presente del futuro. Queste tre specie di tempi esistono in qualche modo nell’animo e non vedo altrove: il presente del passato è la memoria, il presente del presente la visione, il presente del futuro l’attesa”. Singolare appare, inoltre, l’ipotesi, considerata sempre da Sant’Agostino, e, comunque, dallo stesso respinta, sulla base di argomentazioni logiche apparentemente fondate, secondo cui, partendo dalla considerazione che “il tempo è in qualche modo un’estensione”, “il tempo è il movimento di un corpo”. Come è noto, la così detta ipotesi della “dilatazione dei tempi” risulta, invece, accolta dalla teoria della relatività di Einstein e sperimentalmente avvalorata: essa prevede, infatti, che un orologio trasportato a grande velocità segnerà, al ritorno al punto di partenza, un’ora anteriore (anche se nell’ordine di qualche infinitesima frazione di secondo) rispetto a quella segnata da un orologio identico, rimasto sul posto. Tutto ciò val la pena di ricordare perchè chiarisce efficacemente quanto difficile sia pervenire ad un’esatta definizione del concetto di “tempo”: eppure noi siamo nel “tempo” e, pertanto, ci dovrebbe essere facile percepire e definire ciò che per noi è familiare. Quanto estremamente più difficile, appare, allora, la possibilità, per la mente umana, di pervenire alla “comprensione” di un concetto che riferisce di uno status che si pone su di un piano assolutamente diverso da quello nel quale siamo abituati a vivere, come quello della “vita eterna”. Dobbiamo, allora, come suggerisce Benedetto XVI, “cercare di uscire col nostro pensiero dalla temporalità della quale siamo prigionieri e in qualche modo presagire che l’eternità non sia un continuo susseguirsi di giorni del calendario, ma qualcosa come il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità. Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo – il prima e il dopo – non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: ‘ Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia ’. Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo…..Chi viene toccato dall’amore comincia ad intuire che cosa propriamente sarebbe ‘vita’. Comincia a intuire che cosa vuole dire la parola…..’vita eterna’, la vita vera che, interamente e senza minacce, in tutta la sua pienezza è semplicemente vita. Gesù che di sé ha detto di essere venuto perché noi abbiamo la vita e l’abbiamo in pienezza, in abbondanza, ci ha anche spiegato che cosa significhi ‘vita’: ‘Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo’. La vita nel senso vero non la si ha in sé da soli e neppure solo da sé: essa è una relazione. E la vita nella sua totalità è relazione con Colui che è sorgente della vita.

55) Papa Francesco scrive a Repubblica

“La Repubblica” dell’ 11 settembre 2013 pubblica, in prima pagina, la lettera che Papa Francesco ha scritto al Dott. Scalfari, in risposta alla lettera da quest’ultimo indirizzategli, dalle pagine dello stesso giornale il 7 luglio, contenenti sue personali riflessioni, successivamente arricchite, con lo stesso mezzo, il 7 agosto. Ciò che mi ha particolarmente colpito è il titolo, attribuito a tale lettera: “ La verità non è mai assoluta, Francesco”; il concetto è, poi, vistosamente ribadito a pagina 4, ove, a tutta pagina e virgolettato, appare il titolo “Anche per chi crede la verità non è assoluta non la possediamo, è lei che ci abbraccia”. In altri termini, con tale titolo si preannuncia, in modo inequivocabile, la tesi che Papa Francesco sosterrebbe nella lettera, secondo cui non esisterebbe una verità assoluta ma, quindi, solo una serie di verità relative e soggettive! Invero, al riguardo, Papa Francesco, nella lettera indirizzata al Dott. Scalfari, ha testualmente affermato: “il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede…….io non parlerei, nemmeno per chi crede, di verità assoluta, nel senso che assoluto è ciò che è slegato, ciò che è privo di ogni relazione. Ora, la verità, secondo la fede cristiana, è l’amore di Dio per noi in Gesù Cristo. Dunque, la verità è una relazione! Tant’è vero che anche ciascuno di noi la coglie, la verità, e la esprime a partire da sé…..Ciò non significa che la verità sia variabile e soggettiva, tutt’altro…..Dunque, bisogna intendersi bene sui termini e, forse, reimpostare in profondità la questione……” Papa Francesco, pertanto, a differenza di quanto vorrebbe far credere il Dott. Scalfari (e che, certamente, non è di buon auspicio “per intavolare quel dialogo sereno e costruttivo” che Papa Francesco auspicava all’inizio della sua lettera), non ha mai sostenuto che “anche per chi crede la verità non è assoluta”, sconfessando quanto, al riguardo, ha sempre sostenuto la Chiesa Cattolica e che, cioè, “l’uomo, per natura, ricerca la verità. Questa ricerca non è destinata solo alla conquista di verità parziali, fattuali o scientifiche; egli non cerca soltanto il vero bene per ognuna delle sue decisioni. La sua ricerca tende verso una verità ulteriore che sia in grado di spiegare il senso della vita; è perciò una ricerca che non può trovare esito se non nell’assoluto. Grazie alle capacità insite nel pensiero, l’uomo è in grado di incontrare e riconoscere una simile verità.” (Papa Giovanni Paolo II, enc. “Fides et ratio”, cap. III, nn. 28-35, “I differenti volti della verità dell’uomo”). E’, pertanto, necessario sempre, come indicato da Papa Francesco nella lettera al Dott. Scalfari, “intendersi bene sui termini” usati, reimpostando “in profondità la questione”: la fede che salva l’uomo non consiste, infatti, nella semplice conoscenza di una “verità assoluta” (che solo l’arrogante può ritenere acquisita) - anche il diavolo sa che esiste Dio ed il Suo unico Figlio, Gesù Cristo - bensì nella relazione di amore che ci lega a quella Persona che ha detto di sé: “Io sono la verità” ed, inoltre: “chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama” (Gv. 14, 21-26). Altra questione messa in evidenza da Repubblica dell’11 settembre è quella sull’atteggiamento della “Chiesa verso chi non condivide la fede in Gesù”; al riguardo, a pag. 2, con un titolo a tutta pagina, si legge: Francesco ai non credenti “Se obbedite alla coscienza avrete il perdono di Dio”. Anche qui il titolo (purtroppo molti lettori si limitano a leggere solo i titoli) appare (maliziosamente?) fuorviante; sul punto così testualmente scrive Papa Francesco: “mi chiede se il Dio dei cristiani perdona chi non crede e non cerca la fede. Premesso che – ed è cosa fondamentale – la misericordia di Dio non ha limiti se ci si rivolge con cuore sincero e contrito, la questione per chi non crede in Dio sta nell’obbedire alla propria coscienza. Il peccato, anche per chi non ha fede, c’è quando si va contro la coscienza. Ascoltare e obbedire ad essa significa, infatti, decidersi di fronte a ciò che viene percepito come bene o come male”. Con tali affermazioni, Papa Francesco non ha affatto inteso introdurre principi innovativi, ribadendo che il perdono di Dio (la cui misericordia non ha limiti) è pur sempre condizionato ad un’esplicita richiesta a Lui rivolta supportata (ed è cosa fondamentale) dal necessario pentimento per il peccato commesso. Per quanto, poi, riguarda il problema dell’insussistenza del peccato qualora il proprio operato risulti conforme alla propria coscienza, è evidente (ed anche qui “bisogna intendersi bene sui termini”) che deve trattarsi di “retta” coscienza e non di coscienza “colpevolmente erronea”; nella nostra coscienza, infatti, si annida sempre la possibilità dell’errore. “Non è mai accettabile confondere un errore soggettivo sul bene morale con verità oggettiva, razionalmente proposta all’uomo in virtù del suo fine, né equiparare il valore morale dell’atto compiuto con coscienza vera e retta con quello compiuto seguendo il giudizio di una coscienza erronea. Il male commesso a causa di una ignoranza invincibile o di un errore di giudizio non colpevole, può non essere imputabile alla persona che lo compie…….la coscienza, come giudizio ultimo concreto, compromette la sua dignità quando è colpevolmente erronea, ossia quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all’abitudine al peccato” (Papa Giovanni Paolo II, enc. Veritatis splendor, Cap. II, “La coscienza e la verità”). Non ritengo, pertanto, appropriati i toni trionfalistici espressi dal Dott. Scalfari, su Repubblica del 12 settembre, secondo cui “un’apertura verso la cultura moderna e laica di questa ampiezza, una visione così profonda tra la coscienza e la sua autonomia, non si era mai sentita finora dalla cattedra di San Pietro”, dato che nella lettera di Papa Francesco non si rileva alcun riferimento ad una coscienza “autonoma”, basata, cioè, su principi che ogni uomo, individualmente, ritenga soggettivamente veri. Concludendo, negare l’esistenza di una verità assoluta, anche per chi crede ed, inoltre, affermare che Dio perdona chi segua la propria coscienza “autonoma” (nel senso sopra chiarito) , principi, questi, che secondo Scalfari avrebbe sostenuto Papa Francesco nella sua risposta, significherebbe minare alla fondamenta gli essenziali principi su cui si fonda la fede cristiana. Senonché, nell’edizione del 1 ottobre 2013 di Repubblica, viene riferito il contenuto del colloquio avvenuto il 24 settembre a Santa Marta tra Papa Francesco ed il dott. Scalfari che riporto senza alcun commento. Alla domanda di Scalfari: “Santità, esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”, Papa Francesco ha così risposto: “Ciascuno di noi ha una sua visione del bene e anche del male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene”. A tale risposta, Scalfari ha soggiunto: “Lei, Santità, l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma, aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”; a tale affermazione il Papa ha risposto: “E qui lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.

56) Possono il bene ed il male definirsi tali come ciascuno li concepisce?

Nell’enciclica “Veritatis splendor” del 1993, Papa Giovanni Paolo II, nel criticare “le dottrine che perdono il senso della trascendenza o quelle che sono esplicitamente atee”, testualmente scriveva: “Si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un'istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All'affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l'affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l'imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di accordo con se stessi, tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettiva del giudizio morale. Come si può immediatamente comprendere, non è estranea a questa evoluzione la crisi intorno alla verità. Persa l’idea di una verità universale sul bene, conoscibile dalla ragione umana, è inevitabilmente cambiata anche la concezione della coscienza: questa non è più considerata nella sua realtà originaria, ossia un atto dell’intelligenza della persona, cui spetta di applicare la conoscenza universale del bene in una determinata situazione e di esprimere così un giudizio sulla condotta giusta da scegliere qui e ora: ci si è orientati a concedere alla coscienza dell’individuo il privilegio di fissare, in modo autonomo, i criteri del bene e del male e agire di conseguenza. Tale visione fa tutt’uno con un etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri. Spinto alle estreme conseguenze, l’individualismo sfocia nella negazione dell’idea stessa di natura umana. Queste differenti concezioni sono all’origine degli orientamenti di pensiero che sostengono l’antinomia tra legge morale e coscienza, tra natura e libertà…….. In tal modo si istaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette ‘pastorali’ contrarie agli insegnamenti del Magistero”. Non può, pertanto, la coscienza dell’uomo essere la fonte della legge morale: non compete all’uomo, quindi, stabilire ciò che è bene e ciò che è male, sulla base delle proprie valutazioni soggettive, con un atto di superbia analogo a quello che spinse Adamo al peccato originale. Sempre nella stessa enciclica sopra richiamata, Giovanni Paolo II avverte, infatti, che il “comando” dato da Dio (“tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi magiare”) in Genesi 2, 16-17, attesta inequivocabilmente il principio secondo cui: "il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L’uomo è certamente libero………ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo”. Questi principi, costituiscono una riproposizione di quanto in precedenza già esposto nel Catechismo della chiesa cattolica (Parte terza, articolo 6, La coscienza morale, n.1776 e segg.), approvato dallo stesso Papa Giovanni Paolo II e pubblicato nell’ottobre del 1992. Nel suddetto Catechismo è, infatti, testualmente affermato che: “nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire …. Che lo chiama sempre ad amare e a fare il bene e a fuggire il male ….E’ attraverso il giudizio della propria coscienza che l’uomo percepisce e riconosce i precetti della legge divina.” L’individuazione del bene e del male non è, pertanto, frutto del “pensiero” individuale e soggettivo dell’uomo: egli, invece, precisa il Catechismo, “deve sempre ricercare ciò che è giusto e buono e discernere la volontà di Dio espressa nella legge divina. ……La coscienza deve essere educata e il giudizio morale illuminato……. L’educazione della coscienza è indispensabile per esseri umani esposti a influenze negative e tentati a preferire il loro proprio giudizio ……. Messa di fronte ad una scelta morale, la coscienza può dare sia un giudizio retto in accordo con la ragione e con la legge divina, sia, al contrario, un giudizio erroneo che da esse si discosta…..Accade che la coscienza morale sia nell’ignoranza e dia giudizi erronei su azioni da compiere o già compiute. Questa ignoranza spesso è imputabile alla responsabilità personale. Ciò avviene quando l’uomo non si cura di cercare la verità e il bene…..In tali casi la persona è colpevole del male che commette. All’origine delle deviazioni del giudizio possono esserci …… la pretesa ad una malintesa autonomia della coscienza”. Detti principi, costantemente insegnati da tutti i Vescovi sparsi nel mondo, possono ritenersi rientrare nell’ambito del cosiddetto “Magistero ordinario universale” della Chiesa cattolica e, pertanto, immutabili. In estrema sintesi, nella valutazione morale dei propri atti, la coscienza umana è solo giudice e non legislatore. Tutto ciò non significa che il bene possa essere messo in pratica solo dal credente; al riguardo, Papa Francesco, in una Sua riflessione su di un brano del Vangelo di Marco (9, 38-40), con riferimento alla lamentela dei discepoli per una persona che faceva del bene ma non era del loro gruppo, osservava testualmente: “i discepoli, senza pensare, volevano chiudersi intorno a un’idea: soltanto noi possiamo fare il bene, perché noi abbiamo la verità. Si tratta, però, di un atteggiamento sbagliato e Gesù li corregge: non glielo impedite, lasciate che lui faccia il bene……i discepoli erano un po’ intolleranti, ma Gesù allarga l’orizzonte e noi possiamo pensare che dica: se questo può fare il bene, tutti possono fare il bene, anche quelli che non sono dei nostri.” Ciò, comunque, nulla toglie al principio che il bene da perseguire ed il male da combattere siano pur sempre quelli universalmente indicati nella legge morale che Dio dà all’uomo e non possono essere sostituiti da quelli ritenuti tali secondo il pensiero soggettivo di ciascun individuo che non si sottrae al rischio dell’errore quando promana da una coscienza che si ritenga autonoma rispetto alla legge divina: il principio secondo cui il bene da compiere debba sempre corrispondere a quello universalmente indicato nella legge divina resta, pertanto, sempre valido, anche se il bene (oggettivamente corrispondente alla legge divina) sia posto in essere da un non credente con la convinzione che ciò che ha fatto non corrisponda alle prescrizioni di una legge divina, ma solo a quanto suggerito dalla propria autonoma coscienza. Dall’insieme dei principi, inequivocabilmente emergenti da quanto testualmente affermato, sia nell’enciclica “Veritatis splendor” che nel Catechismo della Chiesa Cattolica, come sopra richiamati, appaiono discostarsi le affermazioni di Papa Francesco, secondo cui: “ciascuno di noi ha una sua visione del bene e del male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene……Lo ripeto. Ciascuno ha una sua idea del bene e del male e deve scegliere di seguire il bene e combattere il male come lui li concepisce”. Alla conclusione che dette affermazioni di papa Francesco appaiono discostarsi dai principi sopra ricordati è lecito pervenire non già sulla base di forzate interpretazioni, ma esclusivamente con riferimento al loro chiaro significato letterale, pur prendendo atto della naturale loro stringatezza, insita in un colloquio privato, dal quale sono state estratte. Le suddette frasi sono state ampiamente riprese da numerosi organi di informazione, con una diffusione sicuramente superiore a qualsiasi altro discorso di Papa Francesco: in ogni caso il Santo Padre le avrebbe pronunciate nel corso di un colloquio privato ed a Lui attribuite dal suo interlocutore, il quale aveva fatto riferimento ad una precedente affermazione dello stesso Pontefice, secondo cui quest’ultimo avrebbe detto che “la coscienza è autonoma” ( Padre Federico Lombardi, direttore della Sala Stampa vaticana, ha, comunque, precisato che non risulta che il testo dell’intervista di Papa Francesco pubblicato su Repubblica sia stato da Lui rivisto e, pertanto, resta solo “affidato alla responsabilità di un autorevole autore che si rende conto che per essere responsabile di ciò che dice deve rispettare la mente del suo interlocutore”). Entro tali limiti le affermazione di Papa Francesco (che si prestano, obbiettivamente, a conclusioni fortemente innovative in un tema così delicato, in assenza di una opportuna puntualizzazione o smentita, che, purtroppo, per il tempo ormai trascorso, è lecito pensare che non perverranno mai) vanno, pertanto, prese in considerazione: in ogni caso, non risultando formalmente presenti in un atto magisteriale, per le stesse dovrebbe, comunque, valere l’avvertenza che Benedetto XVI ritenne di scrivere nella premessa al Suo libro su “Gesù di Nazaret”: “Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale…… perciò ognuno è libero di contraddirmi”. -------------- In una nota pastorale del settembre del 1995 (in preparazione al Congresso Eucaristico Nazionale del 1997), il Cardinale Giacomo Biffi ricordava che : “Vladimir Sergeevic Solovev (noto teologo russo ed inascoltato profeta), scrivendo nei primi mesi del 1900, aveva supposto con sorprendente antiveggenza che alla fine del secolo XX la grande tentazione del mondo cristiano sarebbe stata l’attenzione primaria o addirittura esclusiva data ai ‘valori’; ‘valori’, beninteso, visti non come consecutivi (che sarebbe giusto) ma come sostitutivi dell’adesione alla persona di Cristo e al Suo mistero salvifico. In questo quadro profetico, i discepoli di Gesù – stanchi del pesante onere della testimonianza al Crocifisso risorto che viene loro affidata nel battesimo – si riducono a parlare di pace, di solidarietà, di amore per gli animali, di difesa della natura ecc. Così il dialogo con i lontani……si fa meno irto e più spedito…..Il cristianesimo ridotto a pura azione umanitaria nei vari campi dell’assistenza, della solidarietà, del filantropismo, della cultura; il messaggio evangelico identificato nell’impegno al dialogo tra i popoli e le religioni, nella ricerca del benessere e del progresso…….la Chiesa del Dio vivente……..scambiata per un’organizzazione benefica….: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo. Ovviamente non si tratta di colpevolizzare o ritenere inutile l’attenzione ai ‘valori’. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale e informale a Cristo e al suo mistero. E anche nel cristiano questi stessi valori possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia. Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene, stempera sostanzialmente il fatto salvifico nell’esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, e consuma a poco a poco il peccato di apostasia. Gesù Cristo, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, unico Salvatore dell’uomo, non è ‘traducibile’ in una serie di buoni progetti e di buone ispirazioni, omologabili con la mentalità mondana dominante.” E’ fin troppo evidente come “questo quadro profetico” corrisponda perfettamente alla situazione presente, nella quale è sempre più accentuata la disponibilità delle masse ad ascoltare discorsi che trattino solo di quei “valori”, universalmente accolti, dimostrando insofferenza, se non vera e propria opposizione, verso altri scomodi argomenti suggeriti dalla fede e morale cattoliche, che si preferisce mettere in secondo piano (ovvero dimenticare del tutto): in tale contesto, si è arrivati ad affermare che la stessa Chiesa, nella sua attività missionaria, dovrebbe privilegiare l’attenzione a quei “valori”, considerando il proselitismo “una solenne sciocchezza che non ha senso”, come se Gesù non avesse detto agli Apostoli : “andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato” (Mt 28, 19-20).

57) La precisazione di padre Lombardi che accresce la confusione

Dopo un mese e mezzo dalla pubblicazione, su di un sito ufficiale del Vaticano, dell’articolo, ripreso dal quotidiano La Repubblica del 1° ottobre 2013, sul colloquio intercorso tra Papa Francesco ed Eugenio Scalfari, è intervenuta, finalmente, una clamorosa precisazione. Padre Federico Lombardi (la notizia risale al 14 novembre scorso), ha, infatti, affermato che in effetti l’articolo conteneva espressioni difficilmente attribuibili a Papa Francesco: la mancanza di riferimenti a specifiche pretese affermazioni del Santo Padre rende ancor più grave la smentita, dato che, così, investe l’intero testo. Cadono, pertanto, nel nulla le trionfalistiche affermazioni, dello stesso Scalfari e di alcuni sedicenti teologi cattolici, sulle clamorose “aperture” del nuovo Pontefice, mentre, d’altra parte, restano coperti di ridicolo tutti i goffi tentativi, basati su di una malintesa infallibilità del Papa, messi in atto da quanti ad ogni costo hanno cercato di “difendere” le presunte affermazioni del Papa, assolutamente indifendibili; quanto, poi, alle assurde ed, a volte, pesantissime critiche indirizzate nei confronti di chi ha avuto il coraggio (il caso dei due conduttori di Radio Maria risulta, davvero, emblematico) di contestare apertamente quelle “espressioni” che, in assenza di smentite, restavano attribuite a Papa Francesco, gli autori delle stesse dovrebbero, quanto meno, ravvedersi. Su quanto accaduto, sembra lecito porsi le seguenti domande: 1.come mai il testo dell'intervista è stato pubblicato integralmente (e mantenuto per un mese e mezzo) su di un sito ufficiale del Vaticano, confermando, implicitamente, l'autenticità del suo contenuto, senza che nessuno si sia accorto delle affermazioni, attribuite a papa Francesco, che apparivano chiaramente in contrasto con quanto, da secoli, sostenuto dal Magistero della Chiesa Cattolica ? Sono in tanti, come il sottoscritto ad essere stati derisi ed ingiustamente accusati, per aver avuto il coraggio di contestare simili affermazioni (v. il mio precedente post n. 56), senza parlare di altri, ai quali è stato riservato un peggiore "trattamento".......... 2.come mai, dopo il suddetto "chiarimento", nessuno si fa carico di chiedere a quel giornale la pubblicazione di un' ufficiale smentita di quanto, a suo tempo, pubblicato, con toni trionfalistici e con titoli a tutta pagina sulle pretese "aperture" di Papa Francesco? 3.come mai, si finge che nulla sia successo, quando, invece, quell'"infortunio" (al quale si è cercato, con troppo ritardo, di porvi rimedio) ha prodotto (e continua a produrre) notevoli danni sulla credibilità degli insegnamenti della Chiesa Cattolica? In ogni caso, la precisazione in oggetto, in assenza di un comunicato ufficiale, non fa altro che accrescere la confusione: infatti, il sostenere che quell’articolo aveva determinato “qualche equivoco”, in quanto “conteneva espressioni difficilmente attribuibili a Papa Francesco”, senza alcuna specifica indicazione delle stesse, con riferimento ad un testo abbastanza articolato, lascia aperta, per chi legge, detta identificazione, secondo le proprie soggettive valutazioni. Il fatto, poi, che, secondo quanto riferito da alcuni organi di informazione, Padre Lombardi avrebbe (il condizionale è d’obbligo) fatto riferimento anche alle “molte polemiche e discussioni provocate da un’affermazione – peraltro compatibile con il Catechismo della Chiesa Cattolica - riguardante il primato della coscienza”, considerato che il tema della coscienza umana costituiva l’oggetto di gran parte del colloquio, il riferirsi genericamente ad “un’affermazione”, anche in questo caso, non meglio precisata, non fa altro che aggiungere un ulteriore elemento di confusione e disorientamento, con il risultato di rendere davvero indecifrabile il pensiero di Papa Francesco sul delicato argomento.

58) Vladimir Sergeevic Solovev: un profeta inascoltato

Nel mio precedente post. n. 56, facevo riferimento ad un intervento di Sua Eminenza Card. Giacomo Biffi, Arcivescovo di Bologna, al convegno: “La passione per l’unità” del 4 marzo 2000 su Vladimir Solovev (1853-1900). Su esplicita richiesta di alcuni visitatori di questo blog, trascrivo di seguito il testo integrale di detto intervento. Vladimir Sergeevic Solovev è morto cento anni fa, il 31 luglio (13 agosto, secondo il nostro calendario gregoriano) dell’anno 1900. E' morto sul limitare del secolo XX: un secolo del quale egli, con singolare acutezza, aveva preannunciato le vicissitudini e i guai; un secolo che avrebbe però tragicamente contraddetto nei fatti e nelle ideologie dominanti i suoi più rilevanti e più originali insegnamenti. E' stato dunque, il suo, un magistero profetico e al tempo stesso un magistero inascoltato. Un magistero profetico Al tempo del grande filosofo russo, la mentalità più diffusa - nell'ottimismo spensierato della “belle époque” - prevedeva per l'umanità del secolo che stava per cominciare un avvenire sereno: sotto la guida e l'ispirazione della nuova religione del progresso e della solidarietà senza motivazioni trascendenti, i popoli avrebbero conosciuto un'epoca di prosperità, di pace, di giustizia, di sicurezza. Nel ballo Excelsior - una coreografia che negli ultimi anni del secolo XIX aveva avuto uno straordinario successo (e avrebbe poi dato il nome a una serie innumerevoli di teatri, di alberghi, di cinema) - questa nuova religione aveva trovato quasi una sua liturgia. Victor Hugo aveva profetizzato: "Questo secolo è stato grande, il prossimo secolo sarà felice”. Solovev invece non si lascia incantare da quel candore laicistico e anzi preannunzia con preveggente lucidità tutti i malanni che poi si sono avverati. Già nel 1882, nel Secondo discorso sopra Dostoevskij, egli parrebbe aver presagito e anticipatamente condannato l'insipienza e l'atrocità del collettivismo tirannico, che qualche decennio dopo avrebbe afflitto la Russia e l'umanità: "Il mondo - afferma - non deve essere salvato col ricorso alla forza... Ci si può figurare che gli uomini collaborino insieme a qualche grande compito, e che a esso riferiscano e sottomettano tutte le loro attività particolari; ma se questo compito è loro imposto, se esso rappresenta per loro qualcosa di fatale e di incombente, ...allora, anche se tale unità abbracciasse tutta l'umanità, non sarà stata raggiunta l'umanità universale, ma si avrà solo un enorme formicaio" (Edizione La Casa di Matriona, pp. 65-66); quel “formicaio” che in effetti sarebbe stato poi attuato dall'ideologia ottusa e impietosa di Lenin e di Stalin. Nell'ultima pubblicazione – “I tre dialoghi” e “il racconto dell'Anticristo”, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 - è impressionante rilevare la chiarezza con cui Solovev prevede che il secolo XX sarà "l'epoca delle ultime grandi guerre, delle discordie intestine e delle rivoluzioni" (Edizione Marietti p.184). Dopo di che - egli dice - tutto sarà pronto perché perda di significato "la vecchia struttura in nazioni separate e quasi ovunque scompaiano gli ultimi resti delle antiche istituzioni monarchiche" (p. 188). Si arriverà così alla "Unione degli Stati Uniti d'Europa" (p. 195). Soprattutto è stupefacente la perspicacia con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento. Egli la raffigura nella icona dell'Anticristo, personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un pò tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l'emblema, quasi l'ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli - dice Solovev - sarà un "convinto spiritualista", un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato e attivo. Sarà, tra l'altro, anche un esperto esegeta: la sua cultura biblica gli propizierà addirittura una laurea honoris causa della facoltà di Tubinga. Soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare "con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza” (p. 211). Nei confronti di Cristo non avrà "un'ostilità di principio" (p. 190); anzi ne apprezzerà l'altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne - e perciò la censurerà - la sua assoluta "unicità" (p. 190); e dunque non si rassegnerà ad ammettere e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo. Si delinea qui, come si vede, e viene criticato, un cristianesimo dei "valori", delle "aperture" e del "dialogo", dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto, e all’evento salvifico. Abbiamo di che riflettere. La militanza di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un'organizzazione di promozione sociale: siamo sicuri che Solovev non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l'insidia più pericolosa per la "nazione santa" redenta dal sangue di Cristo? E' un interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso.

Un magistero inascoltato. Solovev ha capito come nessun altro il secolo ventesimo, ma il secolo ventesimo non ha capito lui. Non è che gli siano mancati i riconoscimenti. La qualifica di massimo filosofo russo non gli viene di solito contestata. Von Balthasar ritiene il suo pensiero "la più universale creazione speculativa dell'epoca moderna" (Gloria III, p. 263) e arriva perfino a collocarlo sullo stesso piano di Tommaso d’Aquino. Ma è innegabile che il secolo ventesimo, nel suo complesso, non gli ha prestato alcuna attenzione e anzi si è puntigliosamente mosso in senso opposto a quello da lui indicato. Sono lontanissimi dalla visione solovievana della realtà gli atteggiamenti mentali oggi prevalenti, anche in molti cristiani ecclesialmente impegnati e acculturati. Tra gli altri, tanto per esemplificare:  ---l'individualismo egoistico, che sta sempre più segnando di sé l'evoluzione del nostro costume e delle nostre leggi;- il soggettivismo morale, che induce a ritenere che sia lecito e perfino lodevole assumere in campo legislativo e politico posizioni differenziati dalla norma di comportamento alla quale personalmente ci si attiene; - il pacifismo e la non-violenza, di matrice tolstoiana, confusi con gli ideali evangelici di pace e di fraternità, così che poi si finisce coll’arrendersi alla prepotenza e si lasciano senza difesa i deboli e gli onesti; - l'estrinsecismo teologico che, per timore di essere tacciato di integrismo, dimentica l'unità del piano di Dio, rinuncia a irradiare la verità divina in tutti i campi, abdica a ogni impegno di coerenza cristiana. In special modo il secolo ventesimo - nei suoi percorsi e nei suoi esiti sociali, politici, culturali - ha contraddetto clamorosamente la grande costruzione morale di Solovev. Egli aveva individuato i postulati etici fondamentali in una triplice primordiale esperienza, nativamente presente in ogni uomo: vale a dire nel pudore, nella pietà verso gli altri, nel sentimento religioso. Ebbene, il Novecento - dopo una rivoluzione sessuale egoistica e senza saggezza - è approdato a traguardi di permissivismo, di ostentata volgarità e di pubblica spudoratezza, che sembra non aver paragoni adeguati nella vicenda umana. E' stato poi il secolo più oppressivo e più insanguinato della storia, privo di rispetto per la vita umana e privo di misericordia. Non possiamo certo dimenticare l'orrore dello sterminio degli ebrei, che non sarà mai esecrato abbastanza. Ma sarà bene ricordare che non è stato il solo: nessuno ricorda il genocidio degli Armeni a cavallo della prima guerra mondiale; nessuno commemora le decine e decine di milioni uccisi sotto il regime sovietico; nessuno si avventura a fare il conto delle vittime sacrificate inutilmente nelle varie parti del mondo all'utopia comunista. Quanto al sentimento religioso, durante il secolo ventesimo in oriente è stato per la prima volta proposto e imposto su una vasta parte di umanità l'ateismo di stato, mentre nell'occidente secolarizzato si è diffuso un ateismo edonistico e libertario, fino ad arrivare all’idea grottesca della “morte di Dio”. In conclusione, Solovev è stato indubbiamente un profeta e un maestro; ma un maestro, per così dire, inattuale. Ed è questa, paradossalmente la ragione della sua grandezza e della sua preziosità per il nostro tempo. Appassionato difensore dell'uomo e allergico a ogni filantropia; apostolo infaticabile della pace e avversario del pacifismo; propugnatore dell'unità tra i cristiani e critico di ogni irenismo; innamorato della natura e lontanissimo dalle odierne infatuazioni ecologiche: in una parola, amico della verità e nemico dell'ideologia. Proprio di guide come lui abbiamo oggi un estremo bisogno. Alcuni segni di sanità teologica e pastorale. La rassegna delle più diffuse "idolatrie" non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all'opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione. E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un'acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall'incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente determinano a una generosa adesione all'Evangelo e a una totale partecipazione all'evento salvifico. Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione. Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano? Dopo l'esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l'attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell'ora presente. La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro - che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore - ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date. La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria. Perciò a lui - e quindi al cristianesimo - è necessario ricorrere perché l'uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l'apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi. La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l'ammirato stupore per questo capolavoro dell'amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l'infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.

 

59) Reincarnazione

Un visitatore di questo blog. mi ha posto la seguente domanda: “Sono un cattolico osservante e credo nella reincarnazione: qualcuno mi ha detto che credere nella reincarnazione è incompatibile con la religione cattolica. Vorrei sapere se è vero ed in caso di risposta affermativa, il perché”. Dopo un necessario approfondimento dell’argomento, soprattutto dal punto di vista scientifico, sono pervenuto alla seguente conclusione. Diversi sono gli autori che sostengono la fondatezza scientifica della reincarnazione: mi riferisco, in particolare, agli studi sull’ipnosi regressiva, condotti da vari autori (Brian Weiss , Raymond Moody ed altri). Allo stato, comunque, sembra che possa sostenersi la tesi, supportata dalla maggioranza di quanti hanno studiato il fenomeno del “ricordo” di vite precedenti, che non sussiste alcuna dimostrazione scientifica sull'identità del soggetto che viene "ricordato" con la persona che "ricorda". Ho letto della testimonianza di una persona che, in stato di ipnosi, ha rivissuto, nella memoria, nei minimi particolari, la passione di Cristo! E evidente che ciò non poteva essere altro che il frutto della propria immaginazione, anche se inconsapevole, salvo a credere, per assurdo, che quella persona fosse la reincarnazione di Cristo…. Del resto gli stessi cultori dell'ipnosi regressiva (usata per fini terapeutici) sostengono l'irrilevanza tra immaginazione e realtà. Molti credono ed hanno creduto nella reincarnazione: Plotino, innanzi tutto, ne ha parlato ampiamente nei suoi scritti e tanti altri ancora, prima e dopo di lui. Come giustamente osservato, anche tra i discepoli di Cristo qualcuno ci credeva (Mc 8, 27-35). In effetti l’idea della reincarnazione sorge, da un lato, dalla naturale consapevolezza che la morte non può determinare la “fine” dell’uomo, dall’altro, dalla sentita necessità, essendo l’uomo peccatore, di una sua “redenzione” che possa conseguirsi solo con vite successive (non bastando una sola vita); ed è proprio qui l’evidente insuperabile contrasto con la fede cristiana: il voler credere che solo con le proprie forze l’uomo possa redimersi dal peccato costituisce, infatti, un principio incompatibile, sotto l’aspetto teologico-cristiano (che io condivido con convinzione) con l’unica possibile Redenzione dell’uomo che è quella operata da Cristo! D’altra parte la reincarnazione, oltre all’assenza di prove scientifiche, non risulta avvalorata da “fonti” degne di fede, ma solo fondata su presunte supposizioni. Quanto ai riferimenti a testi sacri su tale argomento, mi sembrano degni di nota: Giobbe, 14, 7-14: ".....per l'albero c'è speranza: se viene tagliato, ancora ributta...se sotto terra invecchia la sua radice e al suolo muore il suo tronco, al sentore dell'acqua rigermoglia e mette rami come nuova pianta. L'uomo invece, se muore, giace inerte.....l'uomo che giace più non s'alzerà, finché durano i cieli non si sveglierà, né più si desterà dal suo sonno.....Se l'uomo che muore potesse rivivere, aspetterei tutti i giorni.....finché arrivi per me l’ora del cambio”; Qoelet, 12, 1-7: "Ricordati del tuo creatore nei giorni della tua giovinezza...prima che ritorni la polvere alla terra, com’era prima, e lo spirito torni a Dio che lo ha dato”; San Paolo (Eb, 9, 27) è ancora più esplicito: "E' stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta” ed, inoltre: Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48: " Quando è finito l'unico corso della nostra vita terrena, noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. Non c'è reincarnazione dopo la morte". Mi auguro di aver risposto esaurientemente alla domanda iniziale, anche se mi accorgo che tale risposta è essenzialmente frutto di una mia convinzione personale: in ogni caso, come detto in precedenza, mancano validi elementi per poter pervenire ad una diversa soluzione.

60) Lo scandalo della gioia cristiana

. “Non il dolore, ma la gioia degli uomini ha commosso Cristo, alla gioia degli uomini volle cooperare... Chi ama gli uomini, ama anche la loro gioia”; con queste parole ne I fratelli Karamazov, F. M. Dostoevskij riflette sulla beatitudine e Mitja, uno dei protagonisti del romanzo, esclama: “giacché è Dio che dà la gioia, è questo il privilegio Suo, sublime... Signore, si sciolga il gelo dell’uomo nella preghiera... E sempre viva Dio e la Sua gioia! Io sento amore per Lui”. Il grande romanziere russo riecheggia l’annunzio di gioia proprio del Vangelo, dove la consapevolezza della realtà del dolore e della sofferenza non diviene mai supina accettazione di essi, ma fiducia nella capacità divina di trasformare il lutto in danza. L’annuncio: “beati”, “felici” è ripetuto ben 55 volte nel Vangelo: non solo nel discorso della montagna, ma in tanti altri passi. “Beato colui che non si scandalizza di me” (Mt 11,6), “beati i vostri occhi perché vedono ed i vostri orecchi perché sentono” (Mt 13, 16), “beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato” (Mt 16, 17), “beati coloro che ascoltano la Parola di Dio e la osservano” (Lc 11, 28), “quando dai un banchetto, invita poveri, zoppi, ciechi, storpi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti” (Lc 14,13), “sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,17), “beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli” (Lc 12, 37) e così via. Non una prospettiva di mestizia, non una proposta incentrata su doveri, ma l’annuncio della via della gioia contraddistingue il Vangelo; ad esso il Signore contrappone la via della morte, della tristezza, con l’annunzio del “guai” che viene più volte ripetuto (Mt 11, 21; Lc 10, 13; Lc 6, 24; Mt 23; Lc 11, 52; Mc 14, 21; Lc 22, 22). Nella lettura che Papa Benedetto XVI propone delle beatitudini, nel suo Gesù di Nazaret, gli annunzi di gioia del Cristo non sono un’affermazione teorica, ma “descrivono per così dire lo stato effettivo dei discepoli di Gesù: sono poveri, affamati, piangenti, odiati e perseguitati (cfr. Lc 6, 20 ss.)”. In effetti, le beatitudini comprendono l’accoglienza di Gesù e della sua parola, il suo riconoscimento come Cristo e Figlio di Dio, l’appartenere alla nuova comunità che nasce dall’ascolto della sua parola, il vivere nella sobrietà e, talvolta, nell’indigenza che ne consegue, la condivisione dei beni e del vangelo con coloro che ne sono privi. Così prosegue Benedetto XVI, affermando come “i paradossi presentati da Gesù nelle Beatitudini esprimono la vera situazione del credente nel mondo, quale è stata ripetutamente descritta da Paolo alla luce della sua esperienza di vita e di sofferenza da apostolo: “siamo ritenuti impostori, eppure siamo veritieri; sconosciuti, eppure siamo notissimi; moribondi, ed ecco viviamo; puniti, ma non messi a morte; afflitti, ma sempre lieti; poveri, ma facciamo ricchi molti; gente che non ha nulla e invece possediamo tutto!” (2 Cor 6,8-10). “Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati; perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi…” (2 Cor 4,8-10). Quello che nelle Beatitudini del Vangelo di Luca è parola di conforto e promessa, in Paolo è l’esperienza vissuta dall’apostolo”. Da una simile lettura traspare in maniera evidente ed, apparentemente, contraddittoria, se non addirittura scandalosa ed inaccettabile, come la gioia cristiana affondi le sue profonde radici nella sofferenza. Ritorna, così, prepotentemente sul tappeto il problema del male nell’uomo e nel mondo: al riguardo, mi piace riferirmi, in questa sede, al pensiero di uno dei maggiori filosofi italiani del XX secolo, anche se poco conosciuto dal grande pubblico, Luigi Pareyson, nella ricostruzione sintetica operata dallo scrittore Gianmario Lucini. “Il male compare a livello di pura possibilità già nell'autooriginazione divina: scegliendo di esistere Dio sceglie il bene, e scarta il male (non esistere); Dio esclude per sempre la possibilità del male che gli si presenta; Dio vince per sempre il male. Ma questo male possibile è come un'ombra in Dio, nel senso che è una possibilità sopita pronta ad essere ridestata (Pareyson usa l'espressione efficace ma ambigua di "male in Dio", rischiando di far credere in un Dio demonizzato). Sarà l'uomo, liberamente, a cogliere questa possibilità, a ribellarsi a Dio, a realizzare realmente il male, finora solo possibile; e con la caduta dell'uomo fallisce la creazione, subentrano la storia e la morte, il male si insedia nel cuore della realtà. Il male si accumula sempre più, travolgendo il mondo, e l'umanità intera ne è responsabile, è solidale nel peccato. Ma il male può essere vinto. Da parte dell'uomo, l'unica opposizione al male è data dalla sofferenza : che non è solo punizione per il peccato commesso, ma diviene strumento di espiazione, al di là della logica retributiva per cui ogni uomo dovrebbe soffrire solo per le colpe individuali e determinate commesse da lui stesso. Invece nessuno è innocente, e ciascuno deve soffrire per lavare la colpa dell'umanità intera. Ma l'uomo da solo non potrebbe compensare il male commesso ed accumulato con la sofferenza patita; occorre che addirittura Dio si faccia carico del male destato dall'uomo, assuma su di sè il peccato, divenga sofferente, si faccia mortale e patisca sulla croce; e qui, al culmine del sacrificio divino, il Cristo grida, chiede ragione al Padre, e ottiene solo silenzio: Dio abbandonato da Dio , Dio contro Dio. E' qui che la sofferenza, di per sè negativa, viene completamente ribaltata e diventa strumento per fare il bene, per riscattare il male, per tornare all'essere. E' la sofferenza di Dio stesso, è la passione di Cristo a rendere sopportabile la sofferenza umana, altrimenti disperata e vana. Così, il solo modo per dare ragione del male e della tragedia umana (e divina) è nel cristianesimo (altre filosofie negano il male; altre religioni negano non solo il male ma l'intera realtà, che sarebbe illusoria); e il cristianesimo trova una vera risposta positiva al problema del male, e pure un autentico rapporto con Dio, solo attraverso la cristologia , e non tramite una metafisica oggettivante. Il cristianesimo indicato da Pareyson è quello arricchito dalle meditazioni di Pascal e Kierkegaard e dalla sensibilità di Dostoevskij; è un cristianesimo attuale e problematico, che deve capire i problemi dell'uomo moderno per dare loro la risposta più convincente; è un cristianesimo della sofferenza, ma non masochistico o lamentoso, in contrapposizione a certo spiritualismo annacquato; è un cristianesimo consapevole della tragicità dell'esistenza, in contrapposizione a certo facile ed ingenuo ottimismo; è un cristianesimo che si rende conto della scelta sofferta e continua che richiede la testimonianza di fede, in contrapposizione ai molti cristiani nominali per abitudine; è un cristianesimo dialettico, non nel senso hegeliano, per cui ci sarebbe sempre una sintesi pronta a dissolvere lo scontro dei contrari, ma nel senso del dualismo pascaliano, per cui permane la tensione dei contrari, ciascuno dei quali è veritativo solo se accostato al proprio opposto (così la sofferenza e il sacrificio di Cristo sono inseparabili dalla redenzione e dalla resurrezione); è un cristianesimo non fatalistico, e quindi necessitaristico, ma consapevole della libertà di Dio e dell'uomo, e delle conseguenze che derivano dalle libere scelte (Dio ha vinto il male per sempre, l'uomo ha scelto il male); è un cristianesimo che si oppone con forza al tentativo di essere secolarizzato e ridotto ad una morale e ad una espressione storica”. Con estrema chiarezza, anche se con termini assai duri, così Luigi Pareyson individua il vero cristiano: “la concezione cristiana sarà caratterizzata dal più amaro disincanto e da una spiccata sfiducia nell’umanità, oltre che da una spontanea e irresistibile diffidenza nei confronti del sentimentalismo sia doloristico sia consolatorio, ma non può essere tacciato di cupezza e tetraggine. Si può considerare cristiano chi senza enfasi e con impassibile fortezza è capace di sopportare le durissime idee seguenti: l’idea che il cuore della realtà è fatto di male e dolore; l’idea che Dio non cessa d’essere Dio se soffre e si abbassa, perché il male può essere completamente vinto solo con la Kenosis (autosvuotamento) di Dio, che deve dunque essere messa in conto della sua onnipotenza; l’idea che l’uomo non ha alcun diritto alla felicità né alcun permesso di lamentarsi, perché del fallimento del mondo non ha da incolpare che se stesso; l’idea che non si soffre mai abbastanza, a causa dell’economia sbilanciata dell’universo, e che perciò gli innocenti sono chiamati a prestare il loro contributo di sofferenza, del che non Dio ma l’uomo stesso è responsabile; l’idea che segno e misura dell’essere cristiano è la continua disponibilità a soffrire per gli altri, anzi a volerlo fare, anzi a trovarvi soddisfazione, cioè sollievo alla propria colpevolezza e infelicità…..l’idea che proprio la sofferenza, e non un qualsiasi divertissement, è il rimedio contro la noia, il taedium vitae, la scontentezza, l’inquietudine, e anzi proprio il dolore può diventare sede della Gioia”.

61) La sacra Sindone

Su richiesta di alcuni amici, trascrivo qui di seguito gli argomenti da me svolti, sull’argomento in oggetto, in una mia conversazione tenuta presso una sala della mia Parrocchia, in Roma:


1.Che cosa è E' un lenzuolo funerario di lino, (dal greco: “sindon” = ampio tessuto, lenzuolo) tessuto a spina di pesce, delle dimensioni di m. 4,41 x 1,13 e dello spessore di mm. 0,34 di colore giallo ocra, cucito su un telo di supporto nel 1534 e sostituito nel 2002, conservato nel Duomo di Torino, sul quale è visibile l'immagine di un uomo che porta segni di maltrattamenti e torture compatibili con quelli descritti nella Passione di Gesù. Sulla Sindone sono stati trovati pollini di diverse specie vegetali specifiche della Palestina e secondo alcuni botanici il probabile sito di provenienza della Sindone è nei pressi di Gerusalemme. Il telo di cui è cenno nei Vangeli sparì subito dopo la visita al sepolcro vuoto, anche perché, per la religione giudaica ogni cosa che era venuta in contatto con un cadavere doveva essere distrutta, sicché è facile supporre che sia stato per lungo tempo tenuto nascosto.


2.Cenni storici La più antica testimonianza storica certa della Sindone di Torino risale agli anni 1350, quando la Sindone, con modalità che rimangono ignote, comparve nelle mani del cavaliere Goffredo di Charny: nel 1415 Margherita di Charny, discendente di Goffredo, si riappropriò del lenzuolo e nel 1453 lo vendette o cedette ai duchi di Savoia. Questi lo conservarono in un monastero a Chambéry in Savoia, dove il 4 dicembre 1532 sopravvisse ad un incendio. Nel 1578 venne portata a Torino, dove nel frattempo i Savoia avevano trasferito la loro capitale. Umberto II di Savoia, ultimo re d'Italia, alla sua scomparsa (1983) la lasciò in eredità alla Santa Sede che ne delegò la custodia all'Arcivescovo di Torino. La Chiesa cattolica in passato si è espressa ufficialmente sulla questione dell'autenticità, prima in senso negativo: nel 1390 Clemente VII emanò quattro bolle, con le quali permetteva l'ostensione ma ordinava di "dire ad alta voce, per far cessare ogni frode, che la suddetta raffigurazione o rappresentazione non è il vero Sudario del Nostro Signore Gesù Cristo, ma una pittura o tavola fatta a raffigurazione o imitazione del Sudario” e poi, ribaltando il giudizio, in senso positivo nel 1506 Giulio II autorizzò il culto pubblico della Sindone. Attualmente, la Chiesa cattolica non si esprime ufficialmente sulla questione dell'autenticità, lasciando alla scienza il compito di esaminare le prove a favore e contro, ma ne autorizza il culto come icona della Passione di Gesù. Diversi pontefici moderni, da papa Pio XI a papa Giovanni Paolo II, hanno comunque espresso il loro personale convincimento a favore dell'autenticità. Le discussioni sull’autenticità della Sindone ripresero, dopo le foto dell’avv. Secondo Pia nel 1898, quando nel negativo fotografico vennero in evidenza due immagini molto tenui che ritraggono un corpo umano nudo, a grandezza naturale, una di fronte (immagine frontale) e l'altra di schiena (immagine dorsale) allineate testa contro testa. Le discussioni si protrassero per un secolo circa.


3.Dibattito sull’autenticità: a) datazione e b) origine dell’immagine .a)datazione. Esame carbonio 14. In che cosa consiste: finchè il vegetale (lino) vive, l’essere vivente assorbe carbonio attraverso il proprio metabolismo (fotosintesi clorofilliana), ma quando esso muore, cessa ogni metabolismo ed inizia la disintegrazione del carbonio 14 e la sua progressiva perdita. Il periodo di dimezzamento del carbonio è di 5760 anni: conoscendo il numero esatto delle particelle contenute, per ogni grammo, alla morte del vegetale ed essendo la perdita progressiva nel tempo con una accertata regolarità, si può pervenire alla datazione del reperto da analizzare. Il 21 aprile 1988 da una zona marginale della Sindone vennero prelevati tre campioni di tessuto per essere sottoposti alla datazione con il metodo del radiocarbonio. Il successivo 13 ottobre, il card. Anastasio Ballestrero, allora Arcivescovo di Torino e Custode Pontificio della Sacra Sindone, annunciò i risultati ottenuti dai tre laboratori incaricati dell'esame (Oxford, Zurigo e Tucson). Essi assegnano al tessuto della Sindone un'età compresa nell'intervallo 1260-1390 d.C. Gli anni successivi furono caratterizzati da vivaci polemiche e da un ampio e articolato dibattito tra gli studiosi sulla correttezza dell’operazione di datazione e del relativo risultato, sulla sua inconciliabilità con i molteplici risultati ottenuti in altri campi di ricerca e, in particolare, sull’attendibilità dell’uso del metodo del radiocarbonio per datare un oggetto con caratteristiche storiche e chimico-fisiche così peculiari come la Sindone. Il prelievo del campione di Sindone è avvenuto, con scelta improvvisata, da un unico sito che, tra l'altro, è tra i più inquinati del lenzuolo e quindi tra i meno adatti ad essere correttamente datati, anche perché risulta interessato da rammendi effettuati dalle suore, in occasione dell’incendio; inoltre sono risultati presenti diversi microorganismi viventi. Detti risultati sono stati definitivamente sconfessati dal Prof. Kouznetsov di Mosca e da un sindonologo italiano, Mario Moroni. Nel 1994, i due, dopo aver fatto analizzare ( dallo stesso laboratorio americano che aveva effettuato l’analisi sul pezzo della Sindone) un pezzo di tessuto di lino tratto da un telo del primo secolo dopo Cristo (ricevendone conferma di tale data), successivamente inviarono un altro pezzo di tessuto tratto dallo stesso telo, dopo averlo sottoposto ad una bruciatura identica a quella che la Sindone aveva subita nell’incendio del 1532: la datazione riscontrata risultò essere del tredicesimo secolo!! Inoltre tre ricercatori italiani, il prof. Mario Moroni, l'ing. Francesco Barbesino e il dott. Maurizio Bettinelli, hanno condotto importanti esperimenti su tele di una mummia egiziana: tali campioni irraggiati con un flusso neutronico e successivamente trattati termicamente simulando l'incendio di Chambéry, sono risultati alla datazione radiocarbonica più giovani di circa 1100 anni rispetto alla loro vera età, dimostrando scientificamente che un irraggiamento può anche provocare una notevole distorsione sui risultati di una datazione affidata all’analisi del carbonio 14, come quella eseguita sulla Sindone nel 1988. Tale datazione medioevale, inizialmente accettata nel 1988 dalla Chiesa, comportò, comunque, l’inevitabile conseguenza che il telo era un falso medioevale: si moltiplicarono, così, varie ipotesi e supposizioni sull’origine dell’immagine. b) Ipotesi sull’origine dell’immagine: dipinto di Leonardo Da Vinci (nato quasi un secolo dopo la ricomparsa….), Giotto ecc. Vennero effettuati vari tentativi di riproduzione…..:in un documento del 2005, firmato da 24 studiosi del telo, oltre ad essere riportate le diverse informazioni sulla Sindone disponibili, veniva sottolineato come nessuna delle riproduzioni realizzate fosse riuscita a ricreare tutte le caratteristiche del telo: sul punto si è espresso anche Gian Maria Zaccone, direttore del Museo della Sindone di Torino, dichiarando che "per quanto riguarda l'ipotesi che si tratti di un'opera pittorica, bisogna dire che dagli esami del 1978 è stato definitivamente stabilito che non vi siano tracce di pittura". La tesi del falso (e, quindi, anche quella della sua datazione), allo stato, risulta, comunque, inaccettabile, in quanto: -l’immagine è un negativo fotografico, sconosciuto all’epoca dell’eventuale falso; -esame dei pigmenti: per accertare che l’immagine sul tessuto non sia stata creata “ad arte” tramite pittura o altre tecniche di disegno, sono state effettuate delle accurate rilevazioni dei pigmenti di colorante che caratterizzano ogni sorta di manufatto, disegno, quadro artistico o pittura. Ebbene, a seguito dei test, non è stata riscontrata la presenza anche minima di alcun tipo di pigmento. E’ stato possibile, invece, accertare che l’immagine è formata su minuscole fibrille superficiali del tessuto dello spessore di 1/5 di millesimo di millimetro e di minuscoli puntini: per fare ciò sarebbe necessario un laser atomico incredibilmente preciso, ma questa tecnologia, oggi, non esiste; -fori nei polsi e non nel palmo delle mani, come costantemente raffigurato in tutti i dipinti e statue…; il Barbet provò che in un cadavere inchiodato alle mani in una croce i tessuti cedono ed il corèpo cade a terra; -l’immagine è tridimensionale…….diversa intensità dei vari puntini che formano l’immagine, proporzionalmente alla distanza tra corpo e telo: effetto impossibile a riprodursi, anche avvalendosi di tecniche non esistenti nel tredicesimo secolo; -l’immagine è un ologramma (simile a quella parte cangiante presente sulle banconote a garanzia dell’autenticità). Grazie all’ologramma che gli scienziati sono riusciti a decifrare, è stato individuato sul collo del soggetto un collare con iscritte tre lettere leggermente in rilievo : a b a – alfa beta alfa che insieme formano la parola “aba” che significa “padre” ed anche monete romane sugli occhi…Non esiste allo stato attuale una tecnica capace di riprodurre un ologramma su stoffa, ma solo su carta filigrana…; -macchie di sangue. Le impronte sono di 2 generi: quelle del corpo al negativo, quelle del sangue al positivo. Vi appare sangue vivo e sangue cadaverico. “La morfologia del sangue sulla Sindone ci documenta due tipi di sangue: sangue vivo, sgorgato "intra vitam", caratterizzato dal tipico sangue di fibrina ai margini e dalla parte chiara, plasmatica, al centro; e sangue "post-mortem" uscito dopo la morte, come quello della ferita del costato, caratterizzato dalla disposizione inversa: alone plasmatico in periferia, fibrina al centro. Il fenomeno della coagulazione e conseguente decalco su stoffa rispetta perfettamente la morfologia del sangue coagulato (per un processo chimico del sangue in cui il fibrogeno forma un reticolo spugnoso di fibrina che rammenda e ostruisce una ferita, impedendo l'ulteriore perdita di globuli rossi e provvedendo a raccoglierne di nuovi cosí da formare una crosta), uscito intra-vitam e del sangue rappreso o disseccato, all'aria, cioè il sangue dopo la morte. Queste due caratteristiche morfologiche del sangue rivelano che le impronte sindoniche non sono opera di un falsario, il quale non poteva conoscere, secoli fa, questo aspetto della coagulazione, né il processo fibronolitico che ha favorito il decalco della sostanza ematica sul tessuto in circa 36 ore di contatto col corpo “ (Ricci). Le macchie del sangue sono di 4 tipi: di sangue arterioso (piú chiaro), di sangue venoso (piú scuro), di sangue misto (misto), di sangue cadaverico (piú scuro ancora). Da notare che la circolazione del sangue (e quindi la conoscenza di questi 4 tipi di sangue) fu scoperta dal medico italiano Andrea Cisalpino nell'anno 1593: solo dopo di allora si potevano distinguere questi tipi di sangue. Il tipo di sangue corrisponde anatomicamente al tipo di vasi sanguigni feriti corrispondenti alle macchie: piú chiaro dove è ferita un'arteria, piú scuro dove è ferita una vena, misto dove c'è un groviglio di vene e arterie (nella nuca), cadaverico nel cuore. - mancano nella Sindone le impronte dei pollici perché i chiodi ai polsi feriscono il nervo mediano che fa contrarre “1'eminentia tenar” e quindi ripiegano i pollici: ciò che non poteva conoscersi allora. -la rivelazione di impronte invisibili. Esse furono rese visibili da una foto a raggi ultravioletti semplici e con lampada di R. William Wood a gas di tungsteno. Tale foto fa vedere le colature di sangue da ogni colpo di flagello, invisibili a occhio nudo; colature che quindi sono un altro sigillo di autenticità in quanto scendendo dai lombi verso il collo, fanno vedere la posizione del condannato, che, legato con le mani a un basso cippo, era costretto a stare con la testa in giú e a fare un arco col dorso.

4.L’immagine può essere stata prodotta o per contatto o per proiezione -Non può essere stata prodotta per contatto, eccetto quelle relative al sangue, perché la parte posteriore dovrebbe risultare appiattita per il peso contro la pietra tombale (soprattutto all’altezza delle natiche) e la parte anteriore dovrebbe essere deformata per le numerose pieghe se il lenzuolo aderiva al corpo e lo avvolgeva. Il corpo appare sospeso a mezz’aria, in assenza di gravità, tra i due lati del telo e volatilizzato, dato che manca un benché minimo segno di sbavatura delle macchie di sangue che inevitabilmente si sarebbe prodotta in caso di sollevamento del telo a contatto con un corpo. -Non resta che l’unica e più interessante ipotesi possibile, formulata dal mondo scientifico: che cioè l’immagine sia stata prodotta per proiezione, dovuta ad una grande luce. In tale ipotesi, l’unica necessaria fonte di luce molto intensa poteva essere prodotta all’interno del sepolcro solo da un evento soprannaturale, quale quello della resurrezione del corpo coperto da quel telo. In un recente studio, il dott. Giuseppe Baldacchini, fisico e già dirigente presso il Centro di Ricerca ENEA di Frascati, ha riconosciuto, infatti, che l’ipotesi più accreditata chiama in causa un processo energetico radiante compatibile con la Resurrezione. Nell’esplosione della prima bomba atomica ad Hiroshima che produsse una luce accecante, le sagome di alcuni corpi vennero stampate sui muri, con un effetto molto simile a quello presente sulla sindone. Di recente, presso l’ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente) di Frascati (Roma) alcune stoffe di lino sono state irradiate con un laser particolare, un apparecchio che emette una radiazione ultravioletta ad alta intensità. I risultati, confrontati con l’immagine sindonica, mostrano interessanti analogie e confermano la possibilità che l’immagine sia stata provocata da una radiazione ultravioletta direzionale: da notare che l’esperimento è stato effettuato su di una superficie di lino di pochi centimetri quadri; per realizzare lo stesso effetto su di una superficie pari a quella della Sindone, sarebbe stato necessario disporre di un apparecchio di potenza enormemente superiore, non esistente, attualmente, in nessuna parte del mondo. Un altro studio molto importante è stato condotto da un medico statunitense, August Accetta, il quale ha realizzato un esperimento su se stesso iniettandosi una soluzione contenente, un isotopo radioattivo che decade rapidamente. L’obiettivo era quello di realizzare un’immagine provocata da una radiazione emessa da un corpo umano. Secondo il dott. Accetta, infatti, l’immagine sulla Sindone potrebbe essere stata causata dall’energia sprigionatasi all’interno del corpo di Cristo al momento della resurrezione. Le immagini ottenute sono molto simili a quelle che si osservano sulla Sindone e davvero questo esperimento arriva fin sulla soglia del mistero di quell’impronta che richiama il mistero centrale della fede.


5. Quando l’immagine si è impressa sul telo? Scartata la tesi, secondo la quale l'immagine si sarebbe formata per contatto del corpo di Cristo con il telo (che avrebbe comportato una necessaria distorsione dell'immagine), la tesi della "proiezione" non può dimenticarsi del fatto che il telo era disteso sul Suo corpo e, pertanto, non su di una superficie perfettamente piana. D'altra parte la maggior parte degli studiosi ha sempre sostenuto che l'immagine risulta impressa come se il corpo raffigurato galleggiasse tra due teli ben distesi: a tale tesi si è quasi costretti a pervenire per il fatto che sulla parte posteriore dell'immagine, all'altezza delle natiche, non si rinvengono segni di compressione del corpo sul telo. Tale ipotesi non può avere alcun pregio dato che il telo raccoglieva il corpo di Cristo e l'idea di un "galleggiamento" appare, invero, abbastanza fantasiosa. Le perplessità, comunque, aumentano per un'altra considerazione che non mi sembra sia stata mai formulata. Il telo, come sappiamo, è unico e le due immagini (frontale e dorsale) combaciano perfettamente all'altezza della testa: orbene, se l'immagine fosse stata prodotta, con il corpo di Cristo ancora fisicamente presente nel telo, la contiguità tra le due immagini non poteva realizzarsi, dato che quella parte del telo che avvolgeva perpendicolarmente il Suo capo, all'altezza della piega, avrebbe comportato necessariamente, una volta disteso il telo, uno spazio di distacco abbastanza netto tra le due immagini contrapposte. Non resta, allora, che formulare un'altra ipotesi: che, cioè, l'immagine si sarebbe impressa sul telo al momento della smaterializzazione del corpo di Gesù, con la Sua resurrezione. In tale ipotesi, infatti, i due lembi del telo sarebbero ritornati a combaciare perfettamente, in assenza di un corpo al suo interno : inoltre, avrebbe anche il pregio di dare un senso a quello che viene riferito nei Vangeli, sul fatto, cioè, che gli apostoli notarono la presenza del telo ben "piegato".


6. Cosa vide Giovanni. Veniamo, infatti, al giorno della visita del Sepolcro, da parte di Pietro e Giovanni. Il corpo di Gesù non è più nel sepolcro, come constatano i due discepoli, ma lì dentro quella tomba c’è qualcosa che sorprende i due, ma soprattutto sconvolge Giovanni il quale “vide e credette”. Più che qualcosa, è la posizione di alcune cose a suscitare addirittura la fede in Giovanni, dandogli la certezza che il Maestro non poteva che essere risorto. Quindi andiamo con ordine. Sono essenzialmente tre gli elementi che sono rimasti sulla pietra dove era stato deposto il corpo di Gesù: 1) la sindone; 2) le fasce; 3) il sudario esterno. I tre elementi sono perfettamente visibili, in una posizione tale da suscitare la particolare reazione in Giovanni, come detto prima. Ricordiamo che Giovanni fu presente alla sepoltura quel venerdì precedente quando Cristo fu deposto nel sepolcro, e quindi sapeva benissimo come avevano lasciato il corpo sulla pietra avvolto nella sindone e nelle fasce. Bene, agli occhi di Giovanni, questi elementi apparirono esattamente nella stessa posizione lasciati tre giorni prima: il lenzuolo e le fasce non erano aperte e non smosse, ma semplicemente afflosciate su se stesse. In altre parole, il corpo di Gesù, risorgendo, non si era strappato di dosso le scomode fasciature, ma egli ne era uscito senza scomporle, come se il corpo di Gesù fosse svanito dall’interno del lenzuolo (sindone) che l’avvolgeva e quindi la sindone e le fasce, non avendo più cosa avvolgere, si sono semplicemente afflosciate su se stesse. Veniamo al sudario esterno. Il Vangelo di Giovanni ci offre due indicazioni: che “non era per terra, insieme al lenzuolo” e che era “debitamente piegato”. Come, però, è stato fatto notare da studiosi della lingua greca, si è trattato di una traduzione errata. La prima frase, infatti, non recita che “non era insieme al lenzuolo”, ma che “non era disteso come il lenzuolo”; la parola usata nella seconda frase non significa “piegato”, bensì “arrotolato”. Viene, cioè, chiarito che il sudario che prima era stato legato intorno al capo di Gesù non era disteso, liscio, come il lenzuolo: esso continuava ad essere arrotolato e a conservare la sua forma ovale, come se continuasse a circondare ancora il volto di Gesù, che in realtà non c’era più e che sembrava che si fosse smaterializzato.


7. Esame della parte posteriore della Sindone Solo qualche anno fa è stato possibile l’esame della parte posteriore della Sindone, con l’asportazione del telo di supporto sul quale è rimasto per secoli cucito. Da tale esame è emerso che sul lato posteriore è assente l’immagine del corpo del crocifisso: sono visibili soltanto le macchie di sangue. Ciò esclude con certezza che l’immagine presente sul lato anteriore possa essere stata prodotta dalla mano di un falsario: qualsiasi pittura od altro unguento avrebbe, infatti, oltrepassato il telo e ricomparire sul lato opposto (per la sua sottigliezza), come, invece, accaduto con le macchie di sangue prodotte dal contatto del corpo con il telo: l’immagine del corpo presente sul lato anteriore deve, quindi, necessariamente essere stata impressa solo per proiezione.


8. Conclusione Sulla base di quanto si è detto, sembra ragionevole sostenere che: -la Sindone non è un falso del tredicesimo secolo e, quindi, dato che il volto ed il corpo raffigurati sono quelli di un uomo morto crocifisso, quell’uomo non può non essere che Gesù Cristo, tali e tanti sono gli elementi, tutti concordanti con la narrazione della Passione, Morte e Resurrezione di Gesù Cristo, così come emergente dai Vangeli; diversi studiosi nel campo statistico hanno, inoltre, affermato che le possibilità che l’uomo raffigurato nella Sindone possa essere un uomo diverso da Gesù Cristo sono pressoché nulle; -non essendo opera di un falsario e non potendo essere stata prodotta da contatto, ma solo per proiezione dovuta ad una grande luce emanata dal corpo ivi raffigurato, l’immagine della Sindone può costituire addirittura una valida prova della Resurrezione di Gesù Cristo; è singolare il fatto che le prove che lo dimostrano vengano dalla Scienza che ha trovato, in questo caso, positivi riscontri nei Vangeli: non sembra azzardato ritenere che, in un prossimo futuro e sulla base di ulteriori studi, la stessa Chiesa possa pervenire ad avallare una simile straordinaria conclusione; -un ulteriore considerazione conclusiva: se tutto ciò che si è sin qui detto risponde al vero, l’immagine presente sulla Sindone è un “segno” che lo stesso Gesù Cristo ha voluto lasciarci. Al riguardo è il caso di ricordare come Gesù, ai farisei che gli chiedevano un segno, ebbe a rispondere (Mt.12, 39):”una generazione perversa ed adultera pretende un segno! Ma nessun segno le sarà dato, se non il segno di Giona profeta”.



62) Amore e amicizia nel vangelo di Giovanni

Nel Vangelo di Giovanni (15,14-15), Gesù si dichiara nostro amico (“voi siete miei amici, se farete ciò che io vi comando”, “vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi”), dopo aver affermato il suo amore verso di noi (15, 9-12: “come il Padre ha amato me, così anch’io ho amato voi”, “questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri, come io vi ho amati”). Nel capitolo 15 del Vangelo di Giovanni, Gesù parla, quindi, del legame che ci lega a Lui, identificandolo con i termini sia di “amore” che di “amicizia”; può sorgere, allora, spontanea, la domanda: c’è differenza e, se c’è, quale è tra l’amore e l’amicizia che ci lega a Lui? Invero, per poter rispondere meglio a tale domanda bisogna rifarsi al testo greco del Vangelo di Giovanni: è vero che Gesù certamente non parlava in lingua greca, ma gli originali testi, sia del Vangelo di Giovanni, come di tutti gli altri tre, sono scritti in tale lingua, sicché i testi in lingua greca devono correttamente ritenersi più aderenti alle parole effettivamente pronunciate da Gesù. Orbene, nel capitolo n.15 (9-12) del Vangelo di Giovanni, Gesù per esprimere il Suo rapporto nei nostri confronti usa un verbo (“agapao” corrispondente al termine sostantivo “agape”) che risulta tradotto, in italiano, nelle edizioni ufficiali della CEI, in: “io vi ho amati”, (ricorrendo, quindi, al verbo “amare”, corrispondente al termine “amore”), non esistendo, nella lingua italiana, un verbo corrispondente al termine agape. Quanto sia importante, ai fini dell’intelligibilità dei sacri testi, l’esatto uso dei singoli termini, lo ha fatto presente Benedetto XVI nell’enciclica “Deus caritas est”, laddove, nella prima parte, dedica il primo capitolo (intitolato: “Un problema di linguaggio”) proprio al “vasto campo semantico della parola amore”, con riferimento alle differenze tra i termini greci: “eros”, “philia” ed “agape”, corrispondenti alle tre tipologie di significato, attribuite, dai grandi filosofi greci alla parola “amore”. In estrema sintesi può sostenersi che: -“eros” individua l’amore sensuale, erotico che si verifica quando l’attrazione fisica e sessuale porta gli amanti a stare insieme fisicamente; -“philia” si riferisce all’amore fraterno (amicizia) che lega profondamente due persone, condividendo la propria vita; -“agape” è l’amore perfetto ed incondizionato (carità) che diventa totale dono di sé per l’altro fino al sacrificio della propria vita. Ogni tipologia di amore sopra descritta ha ciascuna il proprio posto nel cuore umano, anche se è facile vivere nella dimensione della sensualità, caratterizzata da una egoistica voglia di possesso, più difficile appare la possibilità di istaurare veri rapporti di disinteressata amicizia ed è sempre più raro trovare chi riesce a vivere la carità nella propria vita. Le conseguenze di un non corretto uso di tali termini nella traduzione dei testi evangelici vengono messe in chiara evidenza dalla lettura del capitolo 21, sempre del Vangelo di Giovanni, versetti 15-17. Nel testo italiano (nella richiamata edizione ufficiale della CEI) si legge, infatti: “Gesù disse a Simon Pietro: ‘Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?’ Gli rispose: ‘certo, Signore, tu lo sai che ti amo ’. Gli disse: ‘pasci i miei agnelli’. Gli disse di nuovo: ‘Simone di Giovanni, mi ami?’. Gli rispose: ‘ certo, Signore, tu lo sai che ti amo ’ Gli disse: ‘pasci le mie pecorelle’. Gli disse per la terza volta: ‘Simone di Giovanni, mi ami?’. Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: mi ami?, e gli disse: ‘Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo ’. Gli rispose Gesù: pasci le mie pecorelle”. Vari commentatori del brano su trascritto si sono impegnati alla ricerca di un valido significato da attribuire alla triplice domanda di Gesù, ed alle corrispondenti risposte di Pietro che, apparentemente, non mettono in evidenza alcuna differenza (fatta eccezione, nella seconda domanda di Gesù, per l’espressione: “più di costoro”) per l’uso dello stesso verbo (“amare”) sia nelle domande che nelle relative risposte, laddove, invece, il testo originale greco mostra l’alternarsi di due verbi diversi. Infatti, nella prima domanda, (“mi ami tu più di costoro”) Gesù usa il verbo “agapao” che esprime il massimo dell’amore gratuito ed assoluto; a tale domanda, Pietro risponde con il verbo dell’amicizia (“phileo”) che sarebbe stato più appropriato tradurre con: “tu sai che ti sono amico”. Con la seconda domanda, Gesù ripropone lo stesso verbo (“agapao”) sopprimendo l’espressione “più di costoro” (eliminando, cioè, il confronto con gli altri discepoli), ottenendo da Pietro la stessa risposta (“tu sai che ti sono amico”). Infine, con la terza domanda, Gesù chiede a Pietro, usando, questa volta, lo stesso verbo usato da Pietro “(phileo”): “mi sei amico?”: a tale terza domanda, Pietro risponde riconfermando sempre la stessa risposta (“Signore, tu sai che ti sono amico”). E’ evidente che è proprio l’uso dei diversi verbi nel testo originale (rispetto all’unico verbo usato, invece, nella traduzione italiana su trascritta, sia nelle domande di Gesù che nelle risposte di Pietro) che ci apre al significato profondo del brano in esame: Pietro, infatti, in quel momento è ancora incapace di “agape” (amore profondo per l’altro, fino al dono della propria vita) e Gesù, rendendosi conto di tale limite, nel suo infinito protendersi ad avvicinarsi gradualmente sempre più al suo interlocutore, si accontenta alla fine di quel semplice amore di amicizia che Pietro è disponibile a concedergli. Ritornando all’esame delle tre tipologie di significato attribuiti, nella lingua greca, al termine “amore”, Benedetto XVI, sempre nell’enciclica “Deus caritas est”, mette in evidenza come “l’Antico Testamento greco usa solo due volte la parola ‘eros’, mentre il Nuovo Testamento non la usa mai: delle tre parole greche relative all’amore – eros, philia (amore di amicizia) e agape – gli scritti neotestamentari privilegiano l’ultima, che nel linguaggio greco era piuttosto messa ai margini……..Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, (continua sempre Benedetto XVI) avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa…….non innalza forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?.Ma è veramente così? Il cristianesimo ha davvero distrutto l’eros?........ Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione: l’amore promette infinità, eternità, una realtà più grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere. Ma al contempo è apparso che la via per tale traguardo non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto. Sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano anche attraverso la strada della rinuncia. Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo avvelenamento, ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza…… L’uomo diventa veramente se stesso quando corpo e anima si ritrovano in intima unità; la sfida dell’eros può dirsi veramente superata, quando questa unificazione è riuscita…….In realtà eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro. Quanto più ambedue, pur in dimensioni diverse, trovano la giusta unità nell’unica realtà dell’amore, tanto più si realizza la vera natura dell’amore in genere” Se è vero che “eros e agape non si lasciano mai separare completamente l’uno dall’altro”, altrettanto si può sostenere per quanto riguarda il rapporto intercorrente tra agape e philia (amore di amicizia). All’inizio, infatti, di queste brevi considerazioni, dalla trascrizione del versetto 15 del capitolo 15 del Vangelo di Giovanni emerge che Gesù nel dichiararsi nostro amico subordina tale amicizia (philia) all’adempimento del suo comandamento (“se farete ciò che io vi comando”), dopo aver affermato (al precedente versetto 12) che il suo nuovo comandamento è, appunto, quello dell’amore (agape): “questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi”, dimostrando, così, la stretta interdipendenza tra le suddette tipologie di amore, tra le quali non sussiste rapporto di alternatività e che, quindi, nel vero cristiano, devono entrambe congiuntamente sussistere.…...Da quanto si è detto, si può, pertanto, concludere con Benedetto XVI (enc. cit.: “Deus caritas est”) che “in fondo l’amore è un’unica realtà, seppur con diverse dimensioni; di volta in volta, l’una o l’altra dimensione può emergere maggiormente. Dove però le due dimensioni si distaccano completamente l’una dall’altra, si profila una caricatura o in ogni caso una forma riduttiva dell’amore”.

63) Lo Spirito Santo

Esistono molte idee errate sull’identità dello Spirito Santo. Alcuni considerano lo Spirito Santo come una forza mistica. Altri intendono lo Spirito Santo come la potenza impersonale che Dio mette a disposizione dei seguaci di Cristo. Perché è difficile capirlo ? Perché lo Spirito Santo non si è rivelato con i lineamenti di una persona umana. Leggendo le Scritture, possiamo raffigurarci, in qualche modo, Dio Padre, come un buon papà, Gesù Cristo, come un uomo in carne e ossa e, oltre tutto, bello, intelligente, carismatico, ma non riusciamo a trovare un soggetto visibile che possa richiamarci, sia pure in modo approssimativo, lo Spirito Santo. Secondo il Credo cattolico, lo Spirito Santo è la terza Persona (non certo per importanza) della Santissima Trinità. Il termine “persona” non deve ritenersi, come erroneamente può a volte accadere, riferibile esclusivamente alla persona umana, bensì, nella definizione di San. Tommaso D’Aquino, ad un soggetto che presenti due aspetti essenziali: l’aspetto ontologico (l’esistenza) e l’aspetto psicologico (razionale o intellettuale). Lo Spirito Santo, sulla base dei più approfonditi studi teologici, può definirsi come la Persona che nel Mistero Trinitario costituisce l’Amore sostanziale che procede dal Padre al Figlio e li unisce l’un l’altro in unità di amore e di spirito e, nell’Incarnazione, congiunge una Persona divina a una persona umana. Ci è stato, infatti, rivelato che: “Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui” (1 Gv 4, 16). “Queste parole della Prima Lettera di Giovanni– come indicato da Benedetto XVI nella mirabile enciclica ‘Deus caritas est’- esprimono con singolare chiarezza il centro della fede cristiana: l’immagine cristiana di Dio e anche la conseguente immagine dell’uomo e del suo cammino”. L’amore esprime un concetto di relazione (per la sua realizzazione bisogna, infatti, essere almeno in due): se, quindi, l’amore non è una qualità di Dio in quanto Dio stesso è amore e Dio è perfetto e non ha bisogno di altri soggetti al di fuori di sé stesso, l’amore, in Lui, si realizza per l’esistenza delle due altre Persone (il Padre ed il Figlio), tre le quali l’amore sostanziale (Spirito Santo) si pone come terza Persona che, procedendo tra di loro, ne realizza una perfetta unione, nella Santissima Trinità. La Santissima Trinità ed, in essa, soprattutto la figura dello Spirito Santo, costituisce uno dei più grandi misteri della fede cristiana alla cui completa comprensione la mente umana non potrà mai pervenire. Secondo un’espressione che ha radici molto lontane, “lo Spirito Santo è il divino sconosciuto”. Agli inizi della Chiesa l'apostolo Paolo, giungendo da Corinto a Efeso, incontra alcuni discepoli e chiede loro: "Avete ricevuto lo Spirito Santo quando siete venuti alla fede?". Gli risposero: "Non abbiamo nemmeno sentito dire che ci sia uno Spirito Santo". Ed egli disse: "Quale battesimo avete ricevuto?". "Il Battesimo di Giovanni", risposero. Paolo allora li istruisce, li battezza "nel nome del Signore Gesù" e, nel momento nel quale impose le mani, scese su di loro lo Spirito Santo e parlavano in lingue e profetavano. Paolo non si sorprende di questa mancata conoscenza dello Spirito Santo, perché si era agli inizi e non tutto era ancora chiaro, soprattutto riguardo allo Spirito Santo, che è la Persona divina più difficile da illustrare, da definire, da presentare. Era difficile allora, e lo è altrettanto ora, nonostante le intuizioni e le riflessioni dei pensatori, dei teologi, dei mistici e dell'intero popolo di Dio. Abbiamo ricevuto lo Spirito Santo nel Battesimo e nella Cresima, ma non siamo ancora giunti a inquadrare la sua Persona e a penetrare nella sua intimità più profonda, perché si tratta di un grande mistero! Come conoscerlo, allora ? È lo stesso Gesù a metterci su questa strada, in quel famoso colloquio con Nicodemo, nel quale cerca di illustrare la rinascita nel Battesimo, attraverso l'acqua e lo Spirito Santo. Gesù dice, fra l'altro: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va”. Come per dire: “non cercare come si fa presente lo Spirito Santo, perché l'importante è che tu possa sentirlo presente e verificare gli effetti della sua presenza!” Proprio così: lo Spirito Santo non si vede e non si può raffigurare, ma si manifesta attraverso le "grandi opere" che Egli compie. È come il vento, che non si vede, ma si riconosce dagli effetti che produce. Per rendere meglio questo concetto, trascrivo un racconto letto tempo addietro. “Un giorno, racconta l’autore, si presentò a me un bimbo con un quaderno e una matita in mano. Mi chiese con insistenza di poter fare un disegno. Era un bambino intelligente e bravo. Insisteva nel chiedermi: “che cosa vuoi che io disegni?”.Gli suggerii di disegnare il vento. Il bimbo rimase alquanto perplesso, e mi guardava quasi per rimproverarmi. Poi si chinò sul quaderno e incominciò il suo lavoro. Poco dopo me lo consegnò e mi disse: ‘ecco, guarda!’. Aveva disegnato un filo steso, e sul filo molta biancheria mossa dal vento e rivolta tutta nella stessa direzione. Il bimbo aveva capito! Il vento non si vede e non si può disegnare; tuttavia si avverte la sua presenza, osservandone gli effetti”. Così è per lo Spirito Santo: non vediamo il suo volto, ma ne possiamo avvertire la presenza, prestando attenzione alle sue manifestazioni e aprendoci alle sue meraviglie. La conoscenza dello Spirito Santo è indispensabile perché questa Divina Persona è la sola a rendere perfetta e completa l'opera di Gesù Salvatore. Lo ha detto ripetutamente Gesù: “tutto sarà compiuto solo quando sarà disceso lo Spirito Santo!”. Agli Apostoli, prima di congedarsi visibilmente da questo mondo, ha detto: “è bene che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò”. Ed ancora: “Egli vi guiderà alla verità tutta intera”; “Egli v'insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. L'Opera divina della salvezza fu dunque: - voluta dal Padre, - realizzata storicamente dal Figlio, - completata e perfezionata dallo Spirito Santo, al quale si attribuisce la santificazione di ogni persona e la comunione di tutti i credenti che divengono Corpo di Cristo. La Rivelazione dello Spirito Santo è avvenuta in modo graduale perché l'antico Popolo di Dio non era nelle condizioni adatte per poterla accogliere. Israele era, infatti, culturalmente poco preparato e aveva due difficoltà: 1. essendo monoteista avrebbe fatto fatica ad accettare lo Spirito Santo come Persona diversa e distinta dall'unico Dio gelosamente professato; 2. essendo circondato da popoli che adoravano falsi idoli sarebbe incorso nel pericolo di confondere lo Spirito Santo con qualche divinità vicina. Nell'Antico Testamento si parla molto dello "Spirito di Dio" (113 volte), ma nessun rabbino o dottore della legge vide mai, nei vari testi, una Rivelazione esplicita dello Spirito Santo come Persona divina distinta dal Padre e dal Figlio nell'unità della natura divina. Solo quindi alla luce del Nuovo Testamento possiamo affermare che nelle parole dell'Antico Testamento è contenuta la rivelazione implicita dello Spirito Santo, se è vero ciò che dice S. Agostino: “nell'Antico Testamento è nascosto il Nuovo Testamento, e nel Nuovo si fa manifesto l'Antico!”. Tanto più che lo stesso Gesù e gli altri autori del Nuovo Testamento, per rivelarci la Persona divina dello Spirito Santo, si servirono di nomi, di titoli e di espressioni dell'Antico Testamento, rendendo esplicito, ciò che era implicito, e chiaro, ciò che era confuso: molti testi dell'Antico Testamento dicono che Dio è “Spirito”, altri che Dio è “Santo”. I due termini uniti insieme non dicono nulla dello Spirito Santo come Persona, ma se si leggono alla luce del Nuovo Testamento si comprende che essi si riferiscono propriamente allo Spirito Santo. Il Nuovo Testamento rivela, infatti, che le tante espressioni che sono attribuite allo Spirito di Dio nell'Antico Testamento si riferiscono proprio allo Spirito Santo inteso come Persona divina distinta dal Padre e dal Figlio. I testi che parlano espressamente dello Spirito Santo nel Nuovo Testamento, sono 171. In essi Egli è rivelato come: - la terza Persona della SS. Trinità; - vero Dio come il Padre e come il Figlio; - Persona procedente dal Padre e dal Figlio, ma da essi distinta; - Operatore essenziale, col Padre e col Figlio, della salvezza universale, con un'azione molteplice e diretta: su Maria, su Gesù Cristo, sulla Chiesa, sul mondo, su ogni battezzato e cresimato. Matteo, Marco e Luca, nei loro Vangeli, parlano dello Spirito Santo come di una Persona che opera e parla con le caratteristiche proprie di ogni persona. Due i testi fondamentali: 1. il Battesimo di Gesù, ove sono presenti le tre divine Persone: il Padre, che parla; il Figlio, che riceve il Battesimo; lo Spirito Santo, che appare sotto forma di colomba. Sono tre realtà divine, uguali nella natura, distinte come persone. 2. il mandato conferito agli Apostoli, col quale Gesù ordina di andare in tutto il mondo a predicare il vangelo a ogni creatura e a conferire il Battesimo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”. Con queste parole, Gesù ricorda distintamente le tre Persone e dà ad esse uguale dignità e autorità. Negli Atti degli Apostoli, le citazioni dello Spirito Santo sono 41. Gli "Atti degli Apostoli" è lo scritto che documenta la nascita e i primi passi della Chiesa; gli Atti degli Apostoli ci presentano lo Spirito Santo come Persona divina autonoma ed efficiente, e non come una vaga forza che scaturisce dall'alto senza contorni ben definiti e personali. Lo Spirito Santo è la guida della Chiesa nascente, il suo sostegno, la sua luce che segna e illumina il cammino. Nelle lettere dell'apostolo Paolo, lo Spirito Santo è citato ben 65 volte. Per Paolo lo Spirito Santo è persona vera e completa, e dimostra di essere tale, perché come ogni persona: conosce, opera in molti modi e come persona divina, è autore di effetti divini, è onnipotente come il Padre. Nel Vangelo di Giovanni vi sono molti passi nei quali egli parla dello Spirito Santo usando le immagini comuni agli altri Evangelisti. Vi sono però quattro passi particolarmente importanti che riportano i discorsi che Gesù pronunciò nel Cenacolo, in un clima di addio e quindi di grande emozione.

Sono quattro promesse: 1. Prima promessa: sarò sempre con voi: “Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli dimora presso di voi e sarà in voi”. 2. Seconda promessa: vi insegnerà ogni cosa: “Queste cose vi ho detto quando ero ancora tra voi. Ma il Consolatore, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, egli v'insegnerà ogni cosa, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto”. 3. Terza promessa: vi renderò forti: “Quando verrà il Consolatore che io vi manderò dal Padre, lo Spirito di Verità che procede dal Padre, egli mi renderà testimonianza; e voi pure mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio”. 4. Quarta promessa: vi darò ogni bene. “E’ bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma quando me ne sarò andato, ve lo manderò... Tutto quello che il Padre possiede è mio”. Lo Spirito Santo viene dato dal Padre a tutti quelli che glielo domandano: per mezzo di Lui diventiamo partecipi della natura divina; è Lui il “dolce ospite dell’anima” e quanto più questa cresce in grazia e amore, tanto più lo Spirito Santo si compiace di abitare in lei e in lei agisce per operare la sua santificazione. Ma per ottenere questo dono è pur sempre necessaria la disponibilità a riceverlo; lo Spirito Santo è dato volentieri agli umili, ai semplici di cuore, a coloro che diffidano del loro sapere rinnegando sé stessi. Così, “il mondo non può ricevere lo spirito di verità perché non lo vede e non lo conosce”, in quanto lo spirito non può essere donato a chi non vive nell’amore. “Se mi amate, osservate i miei comandamenti ed io pregherò il Padre ed egli vi manderà un altro Paraclito il quale resti con voi per sempre, lo spirito di verità”. “E’ perché non viviamo più per noi stessi ma per colui che è morto e risorto per noi, hai mandato, o Padre, lo Spirito Santo, primo dono ai credenti, a perfezionare la sua opera nel mondo e compiere ogni santificazione”. Lo Spirito Santo è la Persona che nel Mistero Trinitario costituisce l’Amore sostanziale che procede dal Padre al Figlio e li unisce l’un l’altro in unità di amore e di spirito e, viene dato dal Padre a tutti quelli che sono disposti ad accoglierlo al fine di svelare loro la pienezza della verità predicata da Gesù Cristo. Ma l’uomo può rifiutarlo, avvalendosi della sua libertà: tale deliberato rifiuto costituisce il c.d. “peccato contro lo Spirito Santo” che è un peccato inescusabile. Il Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1864), con riferimento a tale peccato, così afferma: “la misericordia di Dio non conosce limiti, ma chi deliberatamente rifiuta di accoglierla attraverso il pentimento, respinge il perdono dei propri peccati e la salvezza”. In altri termini, il peccato contro lo Spirito Santo consiste nel cosciente, deliberato proposito di un radicale rifiuto della legge divina, così come rivelata da Gesù Cristo: pertanto, mentre qualsiasi peccato può essere perdonato, in presenza della consapevolezza di aver trasgredito ad un comando divino (anche se si avverta la possibilità di una ricaduta), il peccato in questione non può essere perdonato (“né in questa vita, né in quella futura”) proprio perché il colpevole si pone in consapevole contrapposizione e negazione di quella legge che prevede, appunto, per la misericordia di Dio, il perdono “attraverso il pentimento”; in questo caso, quindi, il pentimento che porti al perdono deve essere necessariamente preceduto da un’autentica conversione che escluda ogni ripensamento o ricaduta. Ma quando e come riceviamo lo Spirito Santo? L’apostolo Paolo insegnò chiaramente che riceviamo lo Spirito Santo nel momento in cui crediamo in Gesù Cristo come nostro Salvatore. In 1 Corinzi 12:13 è scritto: "Infatti noi tutti siamo stati battezzati mediante un unico Spirito per formare un unico corpo, Giudei e Greci, schiavi e liberi; e tutti siamo stati abbeverati di un solo Spirito". Romani 8:9 ci dice che se una persona non possiede lo Spirito Santo non appartiene a Cristo: "Voi però non siete nella carne ma nello Spirito, se lo Spirito di Dio abita veramente in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, egli non appartiene a lui". Efesini 1:13-14 ci insegna che lo Spirito Santo è il sigillo della salvezza per tutti quelli che credono: "In lui voi pure, dopo aver ascoltato la parola della verità, il vangelo della vostra salvezza, e avendo creduto in lui, avete ricevuto il sigillo dello Spirito Santo che era stato promesso, il quale è pegno della nostra eredità fino alla piena redenzione di quelli che Dio si è acquistati a lode della sua gloria”. In conclusione, come riceviamo lo Spirito Santo? Lo riceviamo semplicemente credendo in Gesù Cristo come nostro Salvatore (Giovanni 3:5-16). Quando riceviamo lo Spirito Santo? Lo Spirito Santo diventa il nostro possesso permanente nel momento in cui crediamo. La vita intima divina e, in essa, lo Spirito Santo resta, comunque, per noi un mistero insondabile, ma, sulla base della Rivelazione, con un profondo senso di umiltà e usando l'intelligenza, possiamo giungere a comprendere tante cose.... ma non tutte! E questo è infinitamente bello perché guai se il nostro Dio fosse tale da essere da noi "compreso" totalmente! Sarebbe un Dio a misura d'uomo, quindi troppo piccolo! Soprattutto per questo Mistero vale la sapiente indicazione di S. Agostino: “prima di contemplare ciò che non puoi vedere, credi in ciò che non vedi. Ora cammina nella fede, e un giorno giungerai alla visione”. In chiusura, trascrivo una bella preghiera allo Spirito Santo, scritta da Papa Giovanni Paolo II, in occasione dell’ultimo Giubileo. “Spirito Santo, ospite dolcissimo dei cuori, svela a noi il senso profondo del Grande Giubileo e disponi il nostro animo a celebrarlo con fede, nella speranza che non delude, nella carità che non attende contraccambio. Spirito di verità, che scruti le profondità di Dio, memoria e profezia della Chiesa, conduci l'umanità a riconoscere in Gesù di Nazareth il Signore della gloria, il Salvatore del mondo, il supremo compimento della storia. Spirito creatore, arcano artefice del Regno, con la forza dei tuoi santi doni, guida la Chiesa a varcare con coraggio le soglie del nuovo millennio, per portare alle generazioni che verranno la luce della Parola che salva. Spirito di comunione, anima e sostegno della Chiesa, fa che la ricchezza di carismi e ministeri contribuisca all'unità del Corpo di Cristo; fa che laici, consacrati e ministri ordinati concorrano insieme a edificare l'unico Regno di Dio...Spirito di sapienza, orienta il cammino della scienza e della tecnica al servizio della vita, della giustizia e della pace. Rendi fecondo il dialogo con chi appartiene ad altre Religioni, fa che le diverse culture si aprano ai valori del Vangelo... Spirito di vita, per la cui opera il Verbo si è fatto carne nel seno della Vergine...rendici docili ai suggerimenti del tuo amore, e pronti ad accogliere i segni dei tempi che Tu poni sulle vie della storia...”

64) Papa Francesco raccontato da Antonio Socci

Ho letto l’articolo di presentazione del nuovo libro di Antonio Socci “Non è Francesco”, in vendita dal 3 ottobre, con alcuni stralci del testo che evidenziano la pochezza del suo contenuto. Mi limito, soltanto, a mettere in evidenza alcune grossolane inesattezze e malevole affermazioni ed insinuazioni. Socci critica la frase del Papa "chi sono io per giudicare?": basti leggere, sull'argomento, l'intero capitolo 4° (“I cristiani non giudichino”) della seconda lettera ai Corinzi di S. Paolo. Socci quasi si scandalizza riferendo la frase del Papa: "se uno non pecca non è uomo". Senza riferirmi a tanti sacri testi, ove è ripetutamente richiamata una simile constatazione, vorrei chiedere a Socci se ha mai recitato l'Ave Maria (......"prega per noi peccatori"), oppure se si ritiene l'unica persona esente da peccato (come Gesù Cristo). Socci afferma che il Papa ha "erroneamente" attribuito a S. Paolo la frase : "mi vanto dei miei peccati". La frase (che, comunque, non è elogio del peccato, come vorrebbe far intendere Socci) è, invece, tratta dal capitolo 12 della seconda lettera ai Corinzi di S. Paolo. Secondo Socci, il portavoce dell'ex cardinale Bergoglio avrebbe criticato la conferenza di Benedetto XVI a Ratisbona, senza accennare nemmeno al contenuto delle pretese critiche. Socci arriva ad affermare che Papa Francesco "bastona i buoni cattolici, quelli ortodossi che vivono veramente la povertà, la castità, la preghiera e la carità", senza fare alcun riferimento a frasi e circostanze dalle quali possa trapelare un simile comportamento, gratuitamente e perfidamente attribuito a Papa Francesco. Socci continua nella sua spietata critica, riferendo molte frasi tratte dalla pubblicazione della ormai famosa intervista di Scalfari; a tal proposito voglio ricordare che anche chi scrive queste note ebbe a criticare (anche molto pesantemente) quelle affermazioni: successivamente, però, con un comunicato ufficiale della Santa Sede quelle frasi vennero smentite (in quanto non attribuibili a papa Francesco) ed il testo venne cancellato dal sito ufficiale del Vaticano. Anche lo stesso Scalfari dovette ammettere che tali affermazioni non erano state pronunciate dal Papa, ma erano frutto di una sua personale rielaborazione. Ritornare sull'argomento, ignorando consapevolmente quella rettifica, mi sembra davvero, a dir poco assai scorretto. A proposito dei rapporti dei cattolici con i musulmani, Socci si lamenta per il fatto che il Papa è molto tenero, mentre dovrebbe con più forza spingere per un "impegno umanitario che disarmi anche con la forza i carnefici di tanti cristiani". E' assai strano che uno che si professa o crede di essere un perfetto cristiano e, nello stesso tempo, un nemico dichiarato dei musulmani faccia appello alla "forza" per disarmare gli "infedeli" : per fortuna il tempo delle crociate è, ormai, molto lontano. Come lo stesso Papa Francesco ha più volte fatto presente, nel Corano si dice chiaramente che i musulmani detestano la violenza, anche se l'ammettono, (richiamandosi implicitamente alla legge antica del taglione, superata dal cristianesimo: “occhio per occhio”, “dente per dente”) come legittima reazione nei confronti di chi, per primo, li combatte: cioè, esattamente, come vorrebbe fare il Socci, dimenticandosi del noto precetto cristiano di rispondere all’offesa porgendo l'altra guancia e che lo stesso Gesù ha qualificato "beati" i perseguitati per motivi religiosi, ferma rimanendo una chiara condanna di qualsiasi forma di persecuzione per tali motivi, ancor più se attuati in nome di Dio. Avanzare, infine, dubbi sulla regolarità dell’elezione di papa Francesco, mi sembra quanto meno azzardato. Socci, infatti, annuncia con enfasi dell’esistenza di “un problema di cui nessuno finora sembra essersi accorto” e cioè che “l’elezione di Bergoglio è nulla”. Sulla base delle rivelazioni della giornalista argentina Elisabetta Piquè, la quinta votazione del Conclave sarebbe stata annullata, in quanto i Cardinali scrutatori si sarebbero accorti della presenza di “un foglietto in più”. Socci trascrive quanto testualmente affermato dalla suddetta giornalista: “sembra che, per errore, un porporato abbia deposto due foglietti nell’urna, uno con il nome del suo prescelto e uno in bianco, che era rimasto attaccato al primo”. Da questa rivelazione, (resta, comunque, ignoto l’informatore della suddetta giornalista), formulata solo per mera ipotesi dalla giornalista (…”sembra”), Socci ne deduce, a sostegno della sua tesi sulla nullità dell’elezione di papa Francesco, che: a) l’elezione non è avvenuta alla quinta votazione, come ufficialmente comunicato, bensì alla sesta. A parte l’ovvia considerazione che, qualora fosse stata annullata la quinta votazione, quella successiva sarebbe risultata, appunto, la quinta, non si comprende che influenza possa avere sulla validità dell’elezione un eventuale errore sulla numerazione delle votazioni; b) la quinta votazione non andava annullata, dato che “l’art. 69 della Costituzione apostolica che regola il Conclave recita: qualora nello spoglio dei voti gli Scrutatori trovassero due schede piegate in modo da sembrare compilate da un solo elettore, se esse portano lo stesso nome vanno conteggiate per uno solo, se invece portano due nomi diversi, nessuno dei due voti sarà valido; tuttavia, in nessuno dei due casi viene annullata la votazione” (è evidente, quindi, che i due casi considerati nella norma citata siano - almeno sul piano strettamente formale al quale Socci mostra di attribuire un valore decisivo - diversi da quanto sarebbe successo alla quinta votazione: rinvenimento, cioè, di “un foglietto in più”, rimasto in bianco, anche se, in ipotesi, unito ad un altro, senza considerare che il precedente art. 68 prevede, in via generale, l’annullamento della votazione qualora, in sede di spoglio, dovesse risultare una scheda in più. sicché, costituendo i due casi previsti al successivo art. 69 eccezione alla regola generale, detta norma non può trovare applicazione, per un principio di diritto universalmente accolto, se non nei casi espressamente ivi indicati). Concludendo su questa assurda pretesa rivelazione, è appena il caso di notare che quanto, in ipotesi, accaduto potrebbe avere un qualche rilievo solo se la quinta votazione (quella annullata) avesse evidenziato un risultato diverso da quella ripetuta subito dopo, circostanza che nemmeno la stessa giornalista risulta abbia mai sostenuto e nemmeno ipotizzato. Quest’ultima, con riferimento al libro di Socci, in un successivo articolo, nell’evidente tentativo di avallare la tesi di quest’ultimo, si è limitata, infatti, a dire che tale tesi si “basa sul fatto che Francesco non è stato eletto nella quinta votazione, ma nella sesta, perché la quinta si è dovuta annullare quando nel conteggio è apparso un foglietto in più, che era rimasto per errore piegato insieme ad un altro, secondo quanto ha rivelato “Francesco, vita e rivoluzione”, libro, scritto proprio dalla stessa Elisabetta Piquè! Il “problema” sollevato, con tanto pressapochismo, da Socci appare, pertanto, assolutamente privo di qualsiasi benché minimo fondamento. Sorge, in conclusione, spontanea la domanda: come può un noto e stimato “intellettuale cattolico” commettere tali madornali disattenzioni ? Cosa si nasconde dietro tanta animosità?

65) Il dogma dell'Immacolata Concezione

Il dogma dell’Immacolata Concezione sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale, sin dal suo concepimento. Prima di parlare del contenuto di tale dogma e delle apparizioni di Lourdes, è opportuno premettere alcune brevi considerazioni sulla Madonna, sul dogma e sul peccato originale, limitatamente agli aspetti utili ad una migliore comprensione dell’argomento in oggetto. 1.La Madonna Gesù Cristo venne al mondo per mezzo della Vergine Maria, dopo che lo Spirito Santo ebbe chiesto ed ottenuto il suo consenso: la sua umiltà fu così profonda che Dio si compiacque di occultarla agli sguardi di quasi tutti gli uomini nella sua nascita, nella sua vita, nella sua resurrezione ed assunzione. Gesù Cristo nostro Salvatore, vero Dio e vero uomo, deve, comunque essere sempre il fine ultimo di tutte le nostre devozioni verso Maria: altrimenti esse sarebbero false ed ingannatrici. Gesù Cristo è il nostro avvocato e mediatore di redenzione presso Dio Padre; ma non abbiamo forse bisogno di un altro mediatore presso il Mediatore stesso? Convinciamoci, allora, con S. Bernardo, che abbiamo bisogno di un mediatore presso il Mediatore e che Maria è la più idonea a compiere questo ufficio. Offrendo, così le nostre buone opere al Signore per suo tramite, Ella le purifica di ogni macchia che si insinua insensibilmente nelle migliori azioni. 2. Il dogma Il dogma è così definito dal Catechismo della Chiesa Cattolica: “Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell’autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un’irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella Rivelazione divina, oppure che a quelle sono necessariamente collegate”. Il termine “dogma” è stato usato, per la prima volta, nel XVII secolo; nella Chiesa antica e nel Medioevo di parlava, per indicare lo stesso concetto, di “formulazioni dogmatiche”: il primo dogma proclamato dalla Chiesa risale al Concilio di Nicea, nel 325, e riguardava la natura di Gesù, Figlio di Dio, generato e non creato; l’ultimo, in ordine di tempo, è quello dell’Assunzione di Maria, proclamato da Pio XII il primo novembre del 1950. Per comprendere meglio la definizione sopra riportata, è opportuno rifarsi al concetto di “deposito della fede”. Il " deposito della fede " è un insegnamento comunicato da Dio agli Apostoli e da questi trasmesso alla Chiesa, che comprende verità chiare e immediatamente percepibili, cioè verità esplicitamente rivelate, e verità già presenti nel pensiero divino espresso nella Rivelazione ma non immediatamente percepibili, e destinate ad esser percepite più tardi sotto l'influenza di vari fattori e della grazia: una grazia che dovrà essere diversa da una vera nuova Rivelazione, ma pure necessaria, perché il pensiero divino rivelato possa essere percepito. In altre parole, il " deposito della fede” comprende dei " germi " di verità destinati a svilupparsi, ed è prevista un'azione illuminatrice dello Spirito Santo, cioè della grazia, per farli sviluppare. L'insegnamento della Chiesa non ha mai dato precisazioni al riguardo; né le potrebbe dare, prima che tutte le verità soltanto "germinalmente" rivelate si siano manifestate. Il che non siamo affatto sicuri sia già avvenuto, né la Chiesa potrà mai essere sicura prima della fine della sua storia: lo Spirito Santo, infatti, le è stato dato come illuminatore e guida nella conoscenza della verità rivelata fino alla fine del mondo (cfr. Giov. 14,16); e la Chiesa non può mai sapere a un certo punto della sua storia a quali approfondimenti della parola rivelata lo Spirito Santo potrebbe guidarla in un'epoca successiva. Questo insegnamento del Magistero si appoggia, pertanto, su di un chiaro insegnamento della Rivelazione con riferimento alle stesse parole di Gesù, riferite da Giovanni, relative alla funzione dello Spirito Santo nella Chiesa e dimostrano che la Rivelazione non consta soltanto di un complesso di verità manifeste e facilmente accessibili; ma comprende pure una dottrina non immediatamente e facilmente accessibile, che soltanto a poco a poco sotto l'influsso dello Spirito Santo viene chiaramente conosciuta e insegnata dalla Chiesa. Alla definizione ed alla proclamazione di un dogma la Chiesa perviene solo dopo approfonditi studi e meditazioni: la teologia, pertanto, svolge senz’altro un ruolo indispensabile anche se, a volte (come il caso del dogma dell’Immacolata) il c.d. “sensus fidelium” (senso popolare) può prevalere sulla dotta teologia. 3. Il peccato originale Il contenuto essenziale del dogma dell’Immacolata concezione consiste nel ritenere la Madonna immune da ogni macchia di peccato originale. Nel peccato originale, Adamo ed Eva, tentati dal diavolo, hanno mangiato dell’albero della conoscenza del bene e del male e disobbedendo a Dio, hanno preteso di diventare “come Dio” senza Dio, perdendo, così, immediatamente, per sé e per tutti i loro discendenti, la grazia originale della santità e della giustizia. Il peccato originale, nel quale tutti gli uomini nascono, consiste, quindi, nello stato di privazione della santità e della giustizia originali. È un peccato non “commesso”; è una condizione di nascita, e non un atto personale. A motivo dell'unità di origine di tutti gli uomini, esso si trasmette ai discendenti di Adamo con la natura umana, per propagazione. Questa trasmissione rimane un mistero che non possiamo comprendere appieno. Della trasmissione del peccato di Adamo ed Eva ai loro discendenti nell'Antico Testamento non c'è nessuna affermazione esplicita, ma il concetto di una trasmissione è implicito quando nella Genesi e nei libri successivi si mostra che la disobbedienza dei progenitori non ha causato soltanto gravi danni fisici e materiali ma anche morali e spirituali (odio, vendetta, avidità, invidia, lussuria ecc.). La dottrina del peccato originale è, invece, affermata in maniera esplicita nel Nuovo Testamento. San Paolo scrive ai Romani: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato” (Rm 5,12), e poco prima: “Giudei e Greci, tutti sono sotto il dominio del peccato” (Rm 3,9). La dottrina del peccato originale occupava un posto importante nella catechesi cristiana dei primi tempi. Sant’Agostino fu il primo a provare l'esistenza del peccato originale portando tre argomenti principali: 1) l'insegnamento della Scrittura (Genesi e san Paolo in particolare); 2) la prassi del battesimo dei bambini, prassi certamente basata sul convincimento che essi non vengono al mondo in stato di innocenza ma di peccato; 3) l'esperienza universale del male e del dolore che suppone chiaramente una colpa comune di cui ogni uomo è divenuto corresponsabile. 4. Il dogma dell’Immacolata Concezione Il dogma cattolico dell’Immacolata Concezione, proclamato da papa Pio IX l’8 dicembre 1854 con la bolla Ineffabilis Deus sancisce come la Vergine Maria sia stata preservata immune dal peccato originale fin dal primo istante del suo concepimento: tale dogma non va confuso con il concepimento verginale di Gesù da parte di Maria. Il dogma dell'Immacolata Concezione riguarda il peccato originale: per la chiesa Cattolica infatti ogni essere umano nasce con il peccato originale e solo la Madre di Cristo ne fu esente; in vista della venuta e della missione sulla Terra del Messia, a Dio dunque piacque che la Vergine doveva essere la dimora senza peccato per custodire in grembo in modo degno e perfetto il Figlio divino fattosi uomo. Sul piano delle scienze teologiche la controversia sull'immacolato concepimento di Maria ss., iniziata nel sec. XIII e protrattasi senza tregua da allora lungo sette secoli con alterne vicende, sembrava giunta a un punto fermo insuperabile, dato che l’immacolato concepimento di Maria risultava respinto da personalità rappresentative come sant’Agostino e san Tommaso d’Aquino, i quali non riuscivano a trovare un rapporto, diciamo così, una compatibilità tra il dogma dell’Immacolata Concezione e quello della universalità del peccato originale. Il Cattolicesimo aveva sempre intravisto in alcuni testi biblici non una prova, quanto solo semplici indizi di quanto successivamente proclamato nel dogma. Nell'Antico Testamento, in Genesi 3, 15 si legge: “Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”. Altre suggestioni veterotestamentarie del dogma sarebbero state ravvisate nel Cantico dei Cantici e nei Proverbi: “Quando non esistevano gli abissi, io fui generata: quando ancora non vi erano le sorgenti cariche d’acqua” (Proverbi 8, 24); “Tutta bella tu sei, amica mia, in te nessuna macchia” (Cantico 4, 7). Nel Nuovo Testamento, Maria ponendosi al servizio di Dio, permette l’entrata del Salvatore nel mondo (Luca 1, 38). Maria, quindi, nella lettura tradizionale della Chiesa, partecipa, anche se in forma subordinata, alla vittoria di Cristo sul peccato. Sempre nel Nuovo Testamento, il passo principale considerato dalla tradizione cattolica come indizio dell’Immacolata Concezione della Madonna era stato il saluto rivolto dall’arcangelo Gabriele a Maria: “Rallegrati, piena di grazia” (Luca, 1, 28). Alle difficoltà d’ordine teologico, prevalse, però, la devozione e la determinazione di Pio IX: sembra che la determinazione di porre fine alla secolare controversia teologica definendo l’Immacolata Concezione venne assunta da Pio IX il giorno della sua incoronazione, nel momento che si sentì sulla fronte la tiara pontificia. Scoppiata a Roma la rivoluzione, il 24 novembre del 1848 Pio IX si rifugia a Gaeta ove, il re delle due Sicilie Ferdinando II gli offre ospitalità. Dopo qualche mese, il 2 febbraio 1849, Pio IX pubblica da Gaeta l'enciclica Ubi Primum, nella quale chiede all'episcopato di tutto il mondo di fargli conoscere con lettere il proprio pensiero e quello dei fedeli riguardo all'Immacolata Concezione; il risultato dell'inchiesta è noto: 1'8 dicembre 1854 è proclamato il dogma dell’Immacolata Concezione che, in un certo senso, rappresenta la vittoria del “sensus fidelium”, del senso popolare sulla dotta teologia 5. Le apparizioni della Madonna a Lourdes Parlando del dogma dell’Immacolata Concezione, non si può non parlare, inevitabilmente, delle apparizioni della Madonna a Lourdes che costituiscono il fatto che avvalora, direi, in modo autentico (in quanto proveniente dalla stessa Persona interessata) la fondatezza di tale dogma. La prima apparizione avvenne l’11 febbraio del 1858: la madre di Bernadette le aveva permesso di andare, assieme a sua sorella e ad un’altra amica, lungo il fiume Gave a cercare legna da ardere. Bernadette per la sua fragilità fisica era rimasta indietro e non osò mettere i piedi in acqua perché era molto fredda. Mentre si trovava davanti alla grotta di Massabielle, sentì un forte rumore di vento, simile ad un tuono, ma quando si voltò vide che tutto era calmo e che gli alberi non si erano mossi. Sentì una seconda volta il rumore, allora vide una nube color oro e, all'interno della grotta, una Signora giovane e bella, dell’età di sedici o diciassette anni. La Signora era vestita di bianco, con un velo bianco che le copriva la testa, una fascia azzurra legata in vita che scendeva lungo l’abito, una rosa gialla su ciascun piede e sul braccio destro un rosario con dei grani bianchi uniti da una catenella d’oro. Bernadette all'inizio si spaventò, ma poi prese coraggio e fece il Segno della Croce e cominciò a recitare il Rosario insieme alla Signora. Dopo la preghiera la bella Signora scomparve improvvisamente. Seguirono altre apparizioni e, dopo la decima del 27 febbraio 1858, Bernadette raccontò al parroco la sua prima visione e poi tutte le altre. L’abate Peyramale sapeva già quasi tutto ma non voleva dare l’impressione di credere a fatti così straordinari prima di esserne assolutamente sicuro. Perciò alla fine del racconto disse a Bernadette: "Ma non capisci che questa Signora ha voluto prenderti in giro? Una donna senza nome, che non si sa da dove venga, che abita in una grotta, coi piedi nudi. Ma ti pare degna di essere presa sul serio?". Il sacerdote camminò in su e in giù per la sala, poi concluse: "Risponderai alla tua Signora che il parroco di Lourdes non ha l’abitudine di trattare con gente che non conosce. Egli esige che la Signora dica il suo nome e che poi provi che esso le appartiene”. Alla 16ª apparizione, del 25 marzo 1858, (festa dell’Annunciazione), quando la ragazza arrivò, richiamata irresistibilmente dalla bella Signora, nella valle c’erano 30.000 persone. La veggente levò gli occhi in alto: la Signora era lì, e l’aspettava. Per tre volte le chiese: "Signora, volete avere la bontà di dirmi chi siete?". Dopo la terza volta sorrise, e levando le mani e congiungendole al petto rispose: "Io sono l’Immacolata Concezione". Finita l’estasi, dopo aver raccontato ciò che la Signora le aveva detto, la veggente dichiarò di non sapere il significato di quelle parole e di essere stata capace di riferirle solo perché nel correre a casa le aveva continuamente ripetute tra sé e sé. Bernadette non conosceva, infatti, questa espressione teologica che indica la Santa Vergine, sulla base del dogma che era stato proclamato quattro anni prima da Papa Pio IX. Quella sera Bernadette salì alla canonica, dall’abate Peyramale, per riferirgli le parole che la Signora aveva pronunciato che sconvolsero il Parroco, inducendolo a credere che la Signora apparsa tante volte a Bernadette era proprio la Santa Vergine. Seguirono altre due apparizioni: l’ultima, fu quella del 16 luglio del 1858. La Chiesa, successivamente, riconobbe ufficialmente la veridicità delle apparizioni.

66) I dieci comandamenti secondo Roberto Benigni

Chiunque si accinga a parlare o scrivere sui dieci comandamenti (le famose “dieci parole” da Dio rivelate al suo popolo sulla santa montagna), per la necessaria chiarezza dovuta nei confronti di chi lo sente o lo legge, dovrebbe innanzi tutto precisare se le proprie riflessioni si basano esclusivamente sul testo cosi come scritto nei libri sacri dell’Antico Testamento (Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5,6-21), ovvero sullo stesso testo, alla luce della nuova Legge o Legge evangelica: per i cattolici, infatti, è nella Nuova Alleanza in Gesù Cristo che viene rivelato il loro pieno senso. Sulla base di quanto disse Gesù ai suoi discepoli (“non crediate che io sia venuto ad abolire la legge o i profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento”, Mt 5, 17-19), il “Catechismo della Chiesa Cattolica”, approvato da Papa Giovanni Paolo II e pubblicato nel novembre 1992, afferma che i discorsi del Signore “non aggiungono nuovi precetti esteriori, ma arrivano a riformare la radice delle azioni, il cuore, là dove l’uomo sceglie tra il puro e l’impuro, dove si sviluppano la fede, la speranza e la carità e, con queste, le altre virtù”; la presentazione dei dieci comandamenti, nel catechismo della Chiesa cattolica, costituisce, pertanto, un’esposizione della fede, attestata e illuminata dalla Sacra Scrittura (con particolare riferimento al Nuovo Testamento), dalla Tradizione apostolica e dal Magistero della Chiesa. Una simile precisazione, al fine di evitare ogni possibile fraintendimento da parte degli ascoltatori, non è stata fatta da Roberto Benigni, all’inizio delle due serate dedicate, sul primo canale della RAI, al commento dei dieci comandamenti. Va, inoltre rilevato che un commento di qualsiasi testo presuppone una sua interpretazione e che detta interpretazione (soprattutto se si tratta di un testo di legge, anche se divina) può essere letterale (quando si attiene rigorosamente a quanto è scritto), ovvero estensiva o restrittiva (quando si attribuisce alle parole della legge un significato, rispettivamente, più ampio o più ristretto di quello letterale): invero, Benigni ha fatto ricorso, a suo piacimento e senza darne alcuna giustificazione, a tutti e tre i suddetti criteri interpretativi. Senza nulla togliere alle indubbie qualità di Roberto Benigni, come magistrale professionista dello spettacolo, mi permetto di formulare le seguenti osservazioni sul contenuto del suo intervento, limitatamente al commento di alcuni comandamenti, con riferimento agli ampi ed incondizionati consensi, pervenuti anche da parte di qualificati esponenti del mondo cattolico (pare che abbia ricevuto una telefonata di congratulazioni e ringraziamenti addirittura da Papa Francesco). Questi ultimi, infatti, hanno individuato nell’esposizione di Benigni un modo nuovo di propagazione della fede, riconoscendo in lui un sorprendente e nuovo evangelizzatore, tanto da indicarlo come modello di riferimento per gli stessi sacerdoti, ai quali detto compito è istituzionalmente demandato, evidentemente privilegiando la forma espositiva di quanto veniva affermato, rispetto al suo contenuto che meritava, invece, un’attenta disamina, prima di avallarlo implicitamente con i suddetti incondizionati consensi. Sul quinto comandamento: “non uccidere”, che riguarda la tutela del bene della vita dell’uomo, a parte l’omissione di un benché minimo accenno al suicidio, all’aborto ed all’eutanasia, Benigni cade in una grossolana svista dicendo che tale peccato non è perdonabile neanche da Dio, perché, spiega, il perdono lo può concedere solo la persona offesa che, in questo caso, non c'è più. Sul settimo comandamento: “non rubare”, che tutela il diritto alla proprietà privata dei beni e sull’ottavo: “non pronunciare falsa testimonianza contro il tuo prossimo”, che proibisce di falsificare la verità nelle relazioni con gli altri, Benigni, sulla base di un’interpretazione estensiva di tali precetti, ricomprende, nel settimo, la corruzione, la speculazione, la privazione del lavoro e tante altre fattispecie che contravvengono al principio di giustizia e solidarietà e, nell’ottavo, il giudizio temerario, la calunnia, la maldicenza e quant’altro violi il rispetto della verità. Tutto ciò è perfettamente in linea con quanto la Chiesa cattolica ha sempre sostenuto. Ho voluto fare riferimento al settimo ed ottavo comandamento, prima di passare all’esame di quanto Benigni ha sostenuto sul sesto comandamento, per mettere innanzi tutto in evidenza la difformità del criterio interpretativo da lui usato nel parlare di quest’ultimo comandamento rispetto ai due successivi. Mentre, infatti, le “parole” usate nel settimo ed ottavo comandamento vengono correttamente interpretate sulla base di quello che dette “parole” lasciano intravedere, anche in mancanza di espliciti riferimenti (il concetto di “speculazione”, infatti, difficilmente può rientrare in quello di “furto”, sulla base di un’interpretazione letterale di quest’ultimo termine, come anche quello di “maldicenza” in quello di “non pronunciare falsa testimonianza”), la “parola” del sesto comandamento, secondo Benigni, deve essere interpretata in senso assolutamente letterale, senza alcuna pur doverosa precisazione del perché di tale scelta, con tutte le inevitabili conseguenze sull’intellegibilità di tale precetto. In estrema sintesi, Benigni, sostiene che il comandamento in questione, nel prescrivere di “non commette adulterio” si riferisce esclusivamente all’obbligo di fedeltà imposto ai coniugi: tutto il resto sarebbe, a suo dire, un’indebita “invenzione dei preti” ed un’autentica “manomissione” della Chiesa cattolica che avrebbe sostituito arbitrariamente il “non commette adulterio” con il “non commettere atti impuri”, provocando danni ad “intere generazioni”, tali da rendere possibile (sia pure con istrionica affermazione) una “class action” per ottenerne il risarcimento, deridendo, inoltre, l’esaltazione della virtù della castità (da “praticare con moderazione”), suscitando, così, il divertito applauso del pubblico presente, evidentemente accorso per assistere ad uno spettacolo e non certo per sorbirsi una predica di quasi due ore. Il voler ridurre il comandamento in questione, che è l’unico che riguarda il tema della morale sessuale, all’obbligo di fedeltà coniugale (dimenticandosi che, implicitamente, invece, detto comandamento presuppone ed indica nel matrimonio la sede unica e naturale di detti rapporti), significa lasciare esclusi e, quindi, al di fuori di ogni giudizio, fatti da chiunque condannati, come, per esempio, la prostituzione, la pedofilia, lo stupro, la pornografia, ecc., senza considerare l’aberrante conseguenza cui si perverrebbe con tale letterale interpretazione, secondo cui il matrimonio determinerebbe, di fatto, la condanna del “libero amore” (“fornicazione”, termine incomprensibile per Benigni), che risulterebbe, invece, consentito da parte di chi non abbia vincoli matrimoniali. Quanto, poi, all’accusa rivolta da Benigni alla Chiesa cattolica di aver “manomesso” il sesto comandamento, sostituendo il divieto di “non commettere adulterio” con quello di “non commettere atti impuri”, basta leggere il testo ufficiale del Catechismo della Chiesa cattolica, sopra richiamato, per convincersi del contrario. Al capitolo secondo, pag. 570, Articolo 6, al titolo “Il sesto comandamento” segue l’indicazione del suo contenuto: “Non commettere adulterio (Es 20,14; Dt 5,18)”; nelle numerose pagine di commento che seguono, il termine “atto impuro” non ricorre mai. In dette pagine, il comandamento in questione viene proposto, alla luce della Nuova Legge evangelica che, come detto nella premessa, ne rivela il pieno senso, aggiungendo, pertanto, oltre alle ipotesi di rapporti sopra richiamate, anche le altre che obbiettivamente escludano il fine naturale della procreazione, come la masturbazione e l’omosessualità. Nulla cambia od aggiunge, poi, il fatto che, nella formula catechistica, il complesso di tali atti venga, sinteticamente, qualificato come “atti impuri”. Per completezza, anche perché Benigni dimostra chiaramente di preferire, nel commentare i dieci comandamenti, di riferirsi ai sacri testi dell’Antico Testamento, anziché a quelli del Nuovo, basti richiamarsi a quanto previsto nel Levitico, testo che segue quello dell’Esodo e che viene indicato quale testo esclusivamente legislativo, soprattutto in tema di “purità ed impurità”. Ebbene, in tale libro sacro (15, 19) vengono esplicitamente qualificati “impuri”: “la donna e l’uomo che abbiano avuto un rapporto con dispersione seminale” ed, inoltre, viene stabilito il divieto “a mangiare le cose sante” a chi “abbia avuto una dispersione seminale” (22, 4), con ciò chiaramente condannando gli atti sessuali che non siano obbiettivamente idonei alla procreazione. Da ultimo, per quanto riguarda il nono e decimo comandamento (“non desiderare la donna d’altri” e “non desiderare la roba d’altri”), Benigni, con un’interpretazione, questa volta, restrittiva ed arbitraria, afferma che, in questo caso, sussiste il peccato solo se il “desiderio” è accompagnato da una vera e propria “strategia” (anche se costruita solo mentalmente e, comunque, difficilmente individuabile) diretta all’effettiva realizzazione di quanto desiderato, con ciò, di fatto, cancellando entrambi i precetti, come se Gesù non avesse detto (Mt 5, 27-28) “chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”. Concludendo queste brevi riflessioni, non si riesce a comprendere come mai, nel quasi unanime plauso tributato a Benigni per la sua esibizione nel commento dei dieci comandamenti, non si sia levata alcuna qualificata voce, se non di protesta, almeno di timida critica nei confronti di affermazioni o di silenzi che contraddicono inequivocabilmente taluni punti fermi della dottrina cattolica, così come emergenti dal testo ufficiale del “Catechismo della Chiesa Cattolica”, sempre che non si voglia - per timore di una perdita di consensi da parte della grande schiera di quanti ostinatamente mostrano di non gradire taluni precetti - seguire la via di un’apertura ad inammissibili compromessi (cosa, ovviamente, da escludersi, ma rientrante nelle aspettative di molti, che possono risultare alimentate in presenza di talune evidenti divergenze all’interno della stessa Chiesa Cattolica, su temi così delicati).

67) I poveri di spirito

Nel noto “discorso della montagna” di Gesù, riferito nei Vangeli di Matteo (5, 3-10) e di Luca (6, 20-22), la prima beatitudine è indicata con due diverse espressioni. Mentre, infatti, in Matteo si legge: “beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”, in Luca, invece, si legge: “beati voi poveri, perché vostro è il regno di Dio”. A parte la differenza tra la seconda e terza persona e quella tra l’indicazione del “regno dei cieli” ed il “regno di Dio” che in nulla cambiano il senso della frase, per l’equivalenza dell’espressioni usate, la differenza sostanziale emerge nell’aggiunta del termine “in spirito” presente nel testo di Matteo, rispetto a quello di Luca. Gli studiosi, partendo dalla condivisa constatazione che il termine “in spirito” risulta intraducibile sia in lingua ebraica che aramaica, presumibilmente usate da Gesù, pervengono alla conclusione che tale termine debba considerarsi un’aggiunta operata nel vangelo di Matteo: nello stesso tempo concordano nell’affermare che non si tratti di un aggiunta arbitraria che modifichi il senso della frase, dato che il termine “povero” in lingua greca (ptochòs), usato nel testo originale in tale lingua sia da Matteo che da Luca, non rende bene il senso del discorso di Gesù. Il termine usato da Gesù, nella lingua da Lui parlata dovrebbe, infatti, sempre secondo gli studiosi, essere stato quello di “anawim” che, se pur traducibile in greco nel corrispondente termine di “povero” (ptochòs), indica una particolare specie di povertà, la “povertà di Dio”, la povertà, cioè, di chi, con una particolare spiritualità, riconoscendo la propria fragilità, si fida di Dio ed a Lui si affida. Non si tratta, pertanto, di una povertà, in senso economico, contrapposta al termine ricchezza: nel comune linguaggio greco, si qualificava “povero” la persona che doveva lavorare per vivere, mentre il “ricco” corrispondeva alla persona che, disponendo di un adeguato patrimonio, non aveva bisogno di lavorare. Ecco perché Matteo, proprio per essere aderente al testo originale del discorso pronunciato da Gesù, ha ritenuto di dover aggiungere l’inciso “in spirito” che non significa “poveri di spirito”, cioè che ne hanno poco, che hanno poca intelligenza, poca coscienza, bensì quelli che, avendo la consapevolezza dei propri limiti, della propria debolezza, riconoscono di aver bisogno di un altro. Il concetto di “poveri in spirito” individua, pertanto, non uno stato, ma un atteggiamento di umiltà, di attesa, di ricerca del sostegno divino di chi è consapevole della propria povertà spirituale: i poveri cui Gesù si rivolge sono i poveri che, a differenza dei ricchi, non ripongono fiducia in sé stessi o in ciò che posseggono; sono coloro che non hanno nulla da far valere davanti a Dio e quindi sono disponibili ad accogliere il Suo annuncio. Ai tempi di Gesù, i capi religiosi credevano di essere ricchi spiritualmente. La preghiera del fariseo – “… O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini…” (Luca 18:11) - esprimeva la convinzione della sua casta. A questo proposito un altro testo può, ancora di più, illuminarci: è la lettera a Laodicea, una delle sette Chiese, è il Cristo risorto che si rivolge ad una comunità cristiana: "Conosco le tue opere: tu non sei né freddo né caldo. Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido …. sto per vomitarti dalla mia bocca. Tu dici: ‘Sono ricco, mi sento arricchito; non ho bisogno di nulla’, ma non sai di essere un infelice, un miserabile, un povero, cieco e nudo" (Ap 3, 15-17). E’ qui il problema: “tu dici ‘sono ricco’, ma non sai di essere povero”. I poveri in spirito sono quelli che sanno di essere poveri; il contrario è l’atteggiamento di chi pretende di essere ricco. Chi si sente santo, giusto, buono ed è soddisfatto di sé non prova il desiderio di accettare la grazia e la giustizia del Cristo. L’orgoglioso crede di non avere bisogno di nulla e in questo modo chiude il suo cuore all’influsso e alle benedizioni del Salvatore. Non c’è spazio per Gesù nel cuore di una persona simile: coloro che si sentono ricchi e degni di onore non chiedono e non ricevono le benedizioni di Dio. Essi si sentono a posto, ma in realtà hanno un grande vuoto interiore; dicono di non aver bisogno di niente, ma in realtà non sanno di essere infelici, miserabili, poveri ciechi e, come nella favola del vestito del re, non si accorgono di essere nudi. A loro è rivolto dal Signore un chiaro invito: "Ti consiglio di comperare da me oro purificato dal fuoco per diventare ricco, vesti bianche per coprirti e nascondere la vergognosa tua nudità e collirio per ungerti gli occhi e ricuperare la vista" (Ap 3, 18). Coloro, invece, che si rendono conto di non potersi salvare o compiere buone azioni, scoprendosi in questa situazione di debolezza, sembrano afflitti, tristi, sentendo il proprio limite come elemento negativo che gli schiaccia ed umilia: il Vangelo di Gesù vuole loro evidenziare come proprio questa consapevolezza del proprio limite, della propria debolezza sia la condizione della felicità; essi sono i poveri in spirito che, come dice Gesù, saranno benedetti. Chi è consapevole della propria povertà spirituale, e del fatto che nulla in lui è sufficientemente buono, troverà forza e giustizia rivolgendosi a Gesù. Egli dice: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi…” (Matteo 11, 28). Egli ci invita a scambiare la nostra povertà con le ricchezze della sua grazia. Non meritiamo l’amore di Dio, ma il Cristo, il nostro garante, è in grado di salvare tutti coloro che si rivolgono a lui. Per quanto siano state difficili le nostre esperienze del passato, per quanto scoraggianti quelle presenti, se ci rivolgiamo a Gesù così come siamo, deboli, indifesi e disperati, il nostro Salvatore ci accoglierà. Ci aprirà le braccia affettuosamente e ci accorderà la sua giustizia. Ci presenterà al Padre dicendo: “Ho preso il posto dei peccatori. Non guardare questo figlio ostinato, ma guarda me”. Se, allora, Satana ci reclamerà come sua preda, accusandoci per i nostri peccati, ricordiamoci che il Cristo ci reclamerà con una forza ancora maggiore e sempre vincente.

68) La Sindone di Torino raccontata da Paolo Mieli

In un lungo articolo pubblicato il 15 marzo scorso, a commento di un recente saggio di Andrea Nicoletti, dal titolo “Sindone. Storia e leggende di una reliquia controversa”, Paolo Mieli, partendo dalla constatazione che la Sindone è apparsa ufficialmente la prima volta nel 1357, svolge la sua indagine raccontando tutto quello che è stato detto e scritto per cercare di colmare il lungo lasso di tempo intercorrente tra la morte di Gesù e quella data, per concludere che “tutto ciò che è stato addotto per spiegare quei mille e passa anni di silenzio è nient’altro che frutto di un uso acrobatico della storia”. Sulla base della suddetta constatazione, Mieli dichiara di condividere quanto sostenuto dal biblista tedesco Josef Blinzler, secondo cui “i più di 1000 anni di silenzio rendono del tutto improbabile se non impossibile l’ipotesi che la Sindone di Torino sia stata custodita fin dall’era apostolica e conservata lungo i secoli”; tutto ciò comporta un’inevitabile logica conclusione (anche se Mieli non l’afferma esplicitamente) : “la Sindone non è il telo che ha avvolto il corpo di Gesù, morto in croce, ma è opera di un falsario del XIII-XIV secolo”. Peccato, però, che Mieli non accenna nemmeno ad una valanga non solo di obbiettive considerazioni ma soprattutto di incontestabili risultati di scrupolose indagini scientifiche (intervenute, comunque, dopo il 1970, anno della morte del richiamato biblista tedesco) che escludono la tesi del falso. Basti far cenno alle conclusioni alle quali pervenne, nel 1981, l’associazione americana STURP (appositamente costituita da 30 scienziati per studiare la Sindone) secondo la quale doveva categoricamente escludersi che l’immagine presente sulla Sindone potesse essere un dipinto o, comunque, opera di un falsario: tali conclusioni, d’altra parte fanno sorgere seri dubbi sulla datazione attribuita (nel successivo 1988) con il metodo di ricerca del C 14, la cui attendibilità è stata messa in discussione con una lunga serie di altre argomentazioni scientifiche. Rimandando a quanto ampiamente scritto altrove sull’argomento (cfr. anche il precedente post n. 61) al fine di dimostrare l’inconsistenza della tesi, secondo cui la Sindone sarebbe opera di un falsario è sufficiente qui sinteticamente ricordare, a solo titolo meramente esemplificativo, che: -l’immagine è impressa al negativo e, nel XIII secolo non si conosceva la fotografia, -le macchie di sangue sono di sangue umano ed, in particolare, di sangue di persona in vita quelle delle mani e dei piedi, mentre di sangue di persona morta quella del costato, ed all’epoca (in assenza della possibilità di effettuare un simile esame) non avrebbe avuto alcun senso ricorrere a tale modalità per dipingere tali macchie, -i fori delle mani risultano praticati ai polsi e non ai palmi, a differenza di tutte le raffigurazioni di Gesù crocifisso, -i fili del tessuto della Sindone sono composti di 80-120 fibrille e solo sulle più esterne (10-20 al massimo) è impressa l’immagine per uno spessore accertato di appena 200-300 nanometri (considerando che un nanometro è pari ad un milionesimo di millimetro): attualmente, non si dispone di alcuna sofisticata tecnica che possa realizzare un simile risultato, -l’immagine non è stata prodotta per contatto ma solo per proiezione: un recente studio del dott. Giuseppe Baldacchini, fisico e dirigente del Centro di ricerca Enea di Frascati ha dimostrato che un effetto simile a quello dell’immagine sulla Sindone può prodursi solo con una luce di forte intensità (utilizzando un’apparecchiatura che emette una radiazione ultravioletta ad alta intensità), ricordando che nell’esplosione della prima bomba atomica ad Hiroshima che produsse una luce accecante, le sagome di alcuni corpi vennero stampate sui muri, con un effetto molto simile a quello presente sulla Sindone. Concludendo, l’articolo di Paolo Mieli appare pubblicato con finalità esclusivamente denigratorie nei confronti della sacra reliquia della Sindone, limitandosi, l’autore, a criticare malevolmente “tutto ciò che è stato addotto a spiegare quei mille anni di silenzio”, mentre ha taciuto su argomentazioni e risultanze di indagini scientifiche rigorosamente effettuate e documentalmente accertate: comportamento, quest’ultimo, che certamente non si addice ad un giornalista che sia attento a raccontare la verità obbiettiva dei fatti, anche se, talvolta, questi ultimi appaiano contraddire le tesi che si prefigge di sostenere. Il riferirsi, infatti, a sostegno delle proprie convinzioni, ad un'affermazione di un biblista morto nel 1970 e, pertanto, non a conoscenza di tutte le indagini scientifiche come sopra sinteticamente riferite, svolte tutte successivamente alla sua morte, questo sì che è un fatto da potersi davvero definire "frutto di un uso acrobatico della storia".

69) Cosa vide Giovanni nel Sepolcro vuoto

Al capitolo 20, “Risurrezione di Gesù” del vangelo di Giovanni, ai versetti 4-8, che raccontano la visita al sepolcro da parte di Pietro e Giovanni, si legge: “correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in luogo a parte. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.” Soffermandoci su tale descrizione, emerge, sotto l’aspetto temporale, che è Giovanni ad arrivare per primo al sepolcro: “chinatosi” innanzi all’entrata, senza entrarvi, “vide” solo “le bende per terra”; successivamente entrò Simon Pietro che “vide le bende per terra e il sudario…piegato in luogo a parte”; dopo entrò Giovanni che “vide e credette”. Sorge, allora, spontanea la domanda: ma, nella scena sopra descritta, cosa vide di tanto particolare Giovanni da indurlo a credere (nella risurrezione di Gesù)? Le bende per terra e, soprattutto, il sudario piegato in disparte come potevano suscitare in Giovanni il convincimento dell’avvenuta risurrezione di Gesù? D’altra parte, nel caso di risurrezione di Gesù, chi se non il Risorto avrebbe provveduto a piegare il sudario e metterlo “in un luogo a parte”, con un’operazione obbiettivamente priva di alcun senso, senza considerare che, in tale ipotesi, si sarebbe trattato di un Gesù ritornato, come Lazzaro, nel proprio corpo? C’è, evidentemente, qualcosa che non torna nel racconto, così come riferito ai versetti 4-8, nella traduzione su riportata: altrimenti non sarebbero giustificabili le conclusioni cui perviene Giovanni ed il tutto risulterebbe davvero incomprensibile. Per comprendere meglio il testo in esame, è necessario fare una precisazione preliminare che tornerà utile per quello che si dirà in seguito: nei cinque versetti (4-8) sopra trascritti, per tre volte, ricorre la parola “vide”, sia nella Vulgata latina, sia nell’attuale versione ufficiale italiana della CEI. Senonché, nell’originale testo greco, sono utilizzate, invece, tre voci di tre verbi diversi, che mettono in chiara evidenza la diversa e progressiva intensità nell’osservazione (da parte di Giovanni prima, poi di Pietro e, successivamente, di nuovo di Giovanni) della situazione del luogo, che non trova riscontro nella traduzione (sia latina che italiana) per l’utilizzo, in questi testi, come si è detto, sempre dello stesso verbo (“vedere”): infatti, la prima voce (blépei) usata nel testo greco, riferita a Giovanni che, inizialmente, si è solo fermato all’ingresso del sepolcro senza entrarvi, risulta traducibile con il verbo “accorgersi” (vedere, cioè, solo approssimativamente), la seconda (theòrei), riferita a Pietro che è entrato, dopo, nel sepolcro, è traducibile con il verbo “constatare” o “contemplare” (vedere in modo più attento) e la terza (eìden), riferita a Giovanni, anche lui, questa volta, entrato successivamente nel sepolcro, è traducibile in italiano con un verbo che indica, oltre al semplice “vedere”, anche un’analisi di ciò che si presenta agli occhi (vedere e comprendere). Occorre, inoltre, ricostruire, sempre sulla base dei testi evangelici, le particolari modalità della preparazione del corpo di Gesù per la sepoltura, messe in atto, secondo le leggi ed i costumi ebraici, da Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo: il suo corpo venne adagiato su di una grande tela (la sindone) che, ripiegata sul capo, lo ricopriva totalmente, dopo aver sistemato una parte residua della stessa tela (il sudario), arrotolata su sé stessa, intorno al capo, con funzione di mentoniera, al fine, sia di tener chiusa la bocca, sia di evitare che il capo si piegasse lateralmente. L’uso di una grande tela (che non risulta abbia coperto il corpo di Lazzaro) venne disposto in obbedienza di uno specifico precetto ebraico che prescriveva di non disperdere il sangue di chi fosse morto con ferite sul corpo. Il corpo, così avvolto nella sindone, venne successivamente fasciato all’esterno con fasce, in modo da evitare che si potesse scomporre rispetto alla posizione conferitagli, con le braccia leggermente incrociate a coprire il basso ventre, fatta eccezione per il capo che risultava già fermo per il sudario che lo circondava e, comunque, coperto dalla sindone; tale particolare viene (maliziosamente?) dimenticato da quanti, ad ulteriore sostegno della presunta falsità della sindone, ritengono che tale disposizione delle braccia, così come emerge dall’immagine impressa sul sacro telo, risulta innaturale, dato che le braccia, se disposte in quel modo all’atto della sepoltura, non potevano mantenersi in quella posizione, ma subito dopo, per forza di inerzia, si sarebbero naturalmente distese lateralmente lungo il corpo. Sindone, fasce e sudario avvolgevano, quindi, totalmente il corpo di Gesù, tenendolo ben fermo e chiuso verso l’esterno, fatta eccezione per la parte terminale, in corrispondenza dei piedi. Ritornando, ora, ad esaminare quello che Giovanni “vide” nel sepolcro vuoto, tanto da fargli “credere” nella Risurrezione di Gesù, sulla base di quanto risulta dai versetti su riferiti e sull’evidente loro indecifrabilità (cioè: “le bende per terra ed il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in luogo a parte”), diversi qualificati biblisti e studiosi della lingua greca concordano nel ritenere non corretta tale traduzione (sia latina che, conseguentemente, italiana) dell’originale testo greco. Chi soprattutto ha dedicato molti anni della propria vita ad un approfondito studio dei versetti in questione, è stato un parroco di Tivoli, Don Antonio Persili, morto nel settembre 2011. Cosa aveva visto effettivamente Giovanni? Don Persili partì da questa domanda nella sua approfondita ed appassionata ricerca (“Sulle tracce del Cristo risorto, con Pietro e Giovanni testimoni oculari”, 1988), riesaminando l’originale testo greco, parola per parola, al fine di individuare una corretta traduzione che avesse un senso ragionevole. Le espressioni che, secondo la sua analisi, nella traduzione, non risultavano aderenti al senso espresso nel testo originale greco venivano così identificate: “vide le bende per terra” ed “il sudario che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”. In particolare, l’espressione “bende per terra” (come ad indicare qualcosa gettato per terra) non era corretta, in quanto il testo originale indicava, piuttosto, qualcosa “che è disteso, afflosciato, appiattito”; mentre, l’altra espressione “non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte” (come se il sudario si trovasse piegato in un posto diverso rispetto alle bende) indicava, invece, solo una modalità diversa e, cioè, non “disteso” come le bende, ma “arrotolato nello stesso posto” (in cui si trovava al momento della sepoltura) e non, quindi, un luogo diverso. Secondo Don. Persili, i versetti 5-8 andrebbero, pertanto, così correttamente tradotti: Giovanni “chinatosi, vide le fasce distese, ma non entrò. Giunse intanto Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le fasce distese e il sudario che era sul capo di lui, non disteso come le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica (nel senso, sempre secondo il Persili, di posizione molto particolare). Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette”. “Concludendo, scrive Don Persili, la frase si deve tradurre in modo da rendere l’idea che il sudario per il capo si trovava in una posizione diversa (arrotolato e non disteso) da quella delle fasce per il corpo e non in un luogo diverso. Pietro contempla le fasce distese sulla pietra sepolcrale e, sulla stessa pietra, contempla anche il sudario che, al contrario delle fasce, è in posizione di avvolgimento, anche se non avvolge più nulla”. Sulla correttezza di tale traduzione (e, quindi, sull’errore presente nelle traduzioni ufficialmente riconosciute del testo in questione), concordano numerosi biblisti ed esperti in lingua greca; basti, a solo titolo esemplificativo, far riferimento a: Vittorio Messori: “Dicono che è risorto, un’indagine su un sepolcro vuoto”, 2000; Prof. Renato De Zan, biblista, grecista, conoscitore dell’ebraico ed aramaico e Prof. Roberto Lauria: “Commento alle letture delle domeniche”, 2005; Francesco Spadafora: “La resurrezione di Gesù”, 2010; Hervé Maria Catta: “E’ vivo”, 1978; Prof. Don Claudio Deaglio: “Corso di teologia per laici”, 1997; La Bibbia di Navarra- I quattro Vangeli, 1988. Ricostruita, così, la scena, nei termini su indicati, tutto appare più comprensibile. Agli occhi di Pietro e Giovanni, la Sindone, le fasce ed il sudario apparirono, infatti, nella stessa posizione assunta al momento della sepoltura: il lenzuolo e le fasce non erano aperte, né smosse, ma semplicemente afflosciate su se stesse. Facile e naturale fu, allora, la deduzione di Giovanni: nessuno aveva asportato il corpo di Gesù, né Gesù, risorgendo, si era strappato di dosso le fasciature (analoghe a quelle che avvolgevano il corpo di Lazzaro, tanto che, in quella occasione, Gesù disse ai suoi discepoli: “scioglietelo e lasciatelo andare”, Gv. 11, 44), ma il suo corpo era uscito senza scomporle, come se fosse svanito dall’interno della sindone che l’avvolgeva e, quindi, la sindone e le fasce, non avendo più cosa avvolgere, si erano semplicemente afflosciate su sé stesse. Senonché, il Persili, nella sua minuziosa analisi dei versetti 4-8, sulla base della rielaborazione come sopra da lui stesso operata (che aveva riscosso pressoché unanimi consensi) si sofferma, inoltre, su di un particolare che lo spinge ad un ulteriore interrogativo: se sia Pietro che Giovanni “videro” il sudario, come avrebbero potuto vederlo, dato che era rimasto nella stessa posizione iniziale, cioè coperto dalla Sindone? Per rispondere a tale domanda, il Persili ipotizza, allora, l’esistenza di un secondo sudario, posto all’esterno della sindone, in corrispondenza del volto di Gesù. Tale ipotesi, sempre secondo il Persili, è avvalorata dalla considerazione che, nella narrazione della resurrezione di Lazzaro, il suo volto era “coperto da un sudario” (Gv. 11, 44). La funzione di questo secondo sudario sarebbe stata quella di completamento dell’avvolgimento, a protezione del liquido aromatico versato da Nicodemo; il Persili, infatti, con riferimento ai versetti 6-7 su citati, afferma testualmente: “Giovanni, insomma, precisa che Pietro ha visto il sudario che stava all’esterno, sul capo di Gesù, e non quello che stava all’interno, intorno al capo di Gesù e che perciò era invisibile”. Scomparso il corpo (sempre secondo la ricostruzione operata dal Persili), le fasce che lo aveva avvolto, più pesanti, si abbassarono sulla sindone che esse coprivano e assunsero quella posizione “distesa” che abbiamo visto. Il sudario che ricopriva il capo, più leggero e più piccolo, per così dire “inamidato per l’istantaneo essiccarsi dei profumi liquidi”, restò “al contrario” (rispetto alle fasce) sollevato ed “avvolto”, come se ancora ricoprisse il volto di Gesù, apparendo così ai due apostoli “in una posizione unica” (cioè, sempre secondo il Persili, “molto particolare”, “eccezionale”). Ma è proprio questa seconda parte della ricostruzione operata dal Persili ad apparire molto discutibile, finendo, forse, per screditare anche tutte le altre argomentazioni, come sopra svolte a seguito di un lungo e laborioso lavoro di ricerca: il libro del Persili venne, infatti, rifiutato da diverse case editrici ed, alla fine, l’autore fu costretto a stamparlo a sue spese.

Invero, l’esistenza di un altro sudario non risulta sopportata da alcun specifico riferimento documentale, né può aver rilievo il fatto che un simile sudario ricoprisse il volto di Lazzaro, dato che, come si è detto, il corpo di quest’ultimo non era avvolto da alcun telo (sindone) che, invece, era presente nel caso di Gesù, svolgendo analoga funzione. Non può, comunque, confondersi il sudario che "ricopriva il volto di Lazzaro" con il sudario che, invece, era stato "posto sul capo" di Gesù. D’altra parte, ipotizzando l’esistenza di un altro sudario esterno (per coprire il volto di Gesù), quest’ultimo si sarebbe necessariamente sovrapposto ed aderito perfettamente al sottostante telo della sindone: essendo, entrambi, dello stesso tessuto (in quanto ricavati dall’unico telo acquistato da Giuseppe d’Arimatea) e perfettamente combacianti, il supposto processo di “inamidamento” (ipotizzato dal Persili, con riferimento al secondo sudario esterno) avrebbe, inevitabilmente interessato anche la sottostante sindone. In tal caso, però, la stessa sindone, in corrispondenza del volto, sarebbe rimasta sollevata ed “avvolta” (come il sovrastante sudario) e ciò avrebbe comportato il risultato di un’inevitabile distorsione dell’immagine (assolutamente assente, invece, nella sindone di Torino) nella proiezione (che, come ampiamente dimostrato, costituisce l’unica modalità possibile per la produzione dell’immagine sindonica) su di un telo che fosse rimasto “avvolto” e non disteso. Senza considerare, inoltre, che l’espressione “in posizione unica” (indicata dal Persili) appare, secondo qualificati grecisti, alquanto forzata, in quanto il termine greco “eis”, tradotto dal Persili in posizione “unica” dovrebbe più correttamente tradursi in “identica” o “stessa” (rispetto alla posizione iniziale). La diversa funzione del “sudario” presente nella narrazione della resurrezione di Lazzaro, rispetto a quella della sepoltura di Gesù è, d’altra parte, come già detto, avvalorata dallo stesso Evangelista, il quale, nel primo caso, parla di un sudario che “ricopriva il volto di Lazzaro” (Gv. 11, 44), mentre, nel secondo caso, il sudario “era stato sul capo” di Gesù ( Gv. 20, 7): la considerazione che il sudario presente nel sepolcro di Gesù avesse avuto la funzione di mentoniera è, inoltre, avvalorato dal riscontrato effetto “cornice” lateralmente alle guance, presente nell’immagine sindonica. Scartando, quindi, l’ipotesi di un secondo sudario, la scena che si presentò a Pietro e Giovanni, rispettando fedelmente il testo evangelico (senza ricorrere a fantasiose ipotesi) può così raffigurarsi: fasce e sottostante sindone risultavano afflosciate e distese, non contenendo più il corpo di Gesù, aderendo, pertanto, la parte posteriore sulla quale era stato deposto il corpo di Gesù a quella anteriore che lo ricopriva, mentre, in corrispondenza del volto, la sindone doveva apparire leggermente sollevata, ancorché distesa, per la presenza, “nello stesso posto”, del sudario che, arrotolato su se stesso, avvolgeva il capo di Gesù, dal mento alla sommità della testa. L’obbiettiva evidenza di tale particolare (rigonfiamento della sindone, in corrispondenza del volto di Gesù) risulta indirettamente avvalorata dalla leggerezza del tessuto (dello spessore di circa 0,3 millimetri) che necessariamente doveva lasciar trasparire all’esterno l’esistenza del suddetto sudario che aveva ostacolato, al momento della sparizione del corpo, la perfetta adesione, per forza di inerzia, delle due parti contrapposte del telo, producendo (a riprova di ciò) una leggera piega trasversale, il cui segno risulta ben visibile nell’immagine sindonica, proprio all’altezza del volto. Tutto ciò giustifica il fatto che Giovanni, rimanendo in un primo momento solo all’ingresso del sepolcro, senza entrarvi, non si fosse accorto di tale particolare (esistenza del sudario coperto dalla sindone) che, invece, venne successivamente notato da Pietro e dallo stesso Giovanni, una volta entrato anch’egli nel sepolcro, quandanche il sudario non fosse direttamente visibile. L’attendibilità di tale ricostruzione del testo evangelico è confermata dal fatto (inizialmente messo in evidenza) che, mentre nel testo sia latino che italiano, nel racconto della visita di Pietro e Giovanni al sepolcro, viene riportata, per tre volte, la stessa voce (“vide”) del verbo “vedere”, nel corrispondente testo originale greco, si fa, invece, ricorso a tre verbi diversi, che mettono in chiara evidenza la diversa e progressiva intensità dell’osservazione del luogo, da parte dei due apostoli, nell’entrare, uno dopo l’altro, nel sepolcro. E’, inoltre, lo stesso Persili ad avvalorare inconsapevolmente la versione come sopra ricostruita, laddove suggerisce, come traduzione della parola greca “theòrei” (usata, nel testo originale, con riferimento a quello che “vide” Pietro) di far ricorso, nella traduzione in italiano, al più appropriato verbo “contemplare” che, sia pure in senso figurato, significa, appunto, cogliere il senso nascosto di ciò che appare. Così nuovamente e fedelmente ricostruita la scena del sepolcro vuoto, come apparve a Pietro e Giovanni, risulta quasi scontato, per Giovanni, pervenire al convincimento dell’avvenuta risurrezione di Gesù: infatti, il corpo di Gesù non poteva certo sfilarsi da solo, o con l’intervento di altre persone intenzionate a trafugarlo - ferme rimanendo le bende che lo avvolgevano e, pertanto, dall’unico varco presente ai suoi piedi – senza smuovere e trascinare anche il sudario che, come si è detto, arrotolato su se stesso circondava il capo di Gesù, passando sotto il suo mento. Il fatto che il sudario fosse rimasto, invece, nello stesso posto (all’interno della sindone) dove era stato messo al momento della sepoltura, come se ancora avvolgesse il capo di Gesù, significava una sola cosa: il corpo di Gesù si era smaterializzato all’interno delle fasce e della sindone. Ciò che, davvero, appare quanto meno assai strano, sta nella considerazione che è proprio l’errata traduzione ufficiale della CEI, secondo la quale, il sudario sarebbe stato trovato “piegato, in un luogo a parte”, ad avvalorare inconsapevolmente l’ipotesi di un trafugamento: il corpo, se sfilato da qualcuno attraverso l’apertura in basso all’altezza dei piedi, avrebbe, infatti, portato con sé, al di fuori della sindone e delle fasce che l’avvolgevano, anche il sudario che, comprensibilmente, sarebbe stato lasciato lì, piegato e messo in disparte: non si capisce, pertanto, come, in presenza di approfonditi e qualificati studi che hanno dimostrato l’inesattezza della traduzione dell’espressione come sopra indicata (“piegato, in luogo a parte”), non si è mai provveduto alla necessaria rettifica di un testo che, nella versione ufficiale, appare, comunque, privo di senso. Il convincimento di Giovanni (dell’avvenuta risurrezione di Gesù, scartando la possibilità di un trafugamento, proprio sulla base di quello che aveva effettivamente “visto”) risulta, d’altra parte, comunque, avvalorato dall’analisi (effettuata solo nel 1978) delle innumerevoli macchie di sangue presenti sulla sindone: è stato, infatti, incontestabilmente accertato che tali macchie non presentano alcuna traccia di sbavature, segno evidente che il corpo non è stato trascinato fuori dalla sindone, né ha subito il benché minimo spostamento e, pertanto, il corpo stesso si è come volatizzato, all’interno delle fasce e della sindone. Pertanto, i due fatti: il ragionamento seguito da Giovanni che lo determinò a credere e le analisi effettuate sulle macchie di sangue, si avvalorano reciprocamente ed, uniti ad una serie innumerevole di altri riscontri, validi sotto l’aspetto scientifico (come, ad esempio, che l’immagine si sia potuta produrre solo per proiezione e non per contatto, escludendo, inoltre, che possa essere opera di un abile pittore), conducono al fondato convincimento che la Sindone di Torino, oltre ad essere autentica (che, cioè, oltre a non essere un falso, ha effettivamente avvolto il corpo di Gesù, flagellato e crocifisso), costituisce anche un valido “segno”, muto testimone della Sua risurrezione, quale fatto realmente e storicamente avvenuto. Per quanto, poi, concerne la conclusione (alla quale sono pervenuti valenti scienziati) che l’immagine si possa essere prodotta solo per proiezione, tale effetto (sulla base di altre scrupolose indagini scientifiche) sarebbe riconducibile ad una forte sorgente di luce, all’interno della sindone, compatibile con l’ipotesi della risurrezione e prodotta durante la smaterializzazione del corpo di Gesù (cfr. per tutti, Prof. Giuseppe Baldacchini, Religioni, Cristianesimo e Sindone, marzo 2012): quest’ultima ipotesi, potrebbe anche giustificare la differenza notata nella qualità dell’immagine di tutto il corpo, rispetto a quella del volto. All’atto di tale smaterializzazione, infatti, il lato anteriore della sindone, per forza d’inerzia, sarebbe andato a combaciare con quello posteriore, a differenza della parte corrispondente al volto che sarebbe rimasta necessariamente sollevata, ancorché distesa, per la presenza del sudario che, ravvolto su sé stesso, cingeva il volto di Gesù, e che era rimasto nella stessa iniziale posizione, cioè all’interno della sindone. Con riferimento a quanto, da ultimo, osservato, che, cioè, l’immagine del corpo di Gesù si sia fissata sul telo a seguito della sua smaterializzazione, un attimo prima, comunque, che i due lati contrapposti combaciassero perfettamente (ciò è avvalorato dalla circostanza che l’immagine appare proiettata su di un telo che abbia assunto una posizione distesa), è lecito formulare un’ulteriore considerazione che rafforza tale ipotesi. Osservando, infatti, la sindone di Torino, si rileva che tra le due immagini contrapposte (anteriore e posteriore) intercorre uno spazio privo di immagine, che non corrisponde allo spessore della testa (escludendo, pertanto, che detta proiezione si possa essere prodotta dal corpo fisicamente ancora integro), bensì a quello molto minore del rotolo del sudario, che sarebbe rimasto al suo posto a fare spessore sopra il capo. Ritornando sull’ipotesi di una “esplosione di energia radiante, come causa più probabile della Resurrezione”, secondo il Prof. Giuseppe Baldacchini (v. pag. 17-21 del suo studio su riferito) “questa ipotesi spiega in modo semplice la dissonanza della datazione, effettuata nel 1988 con la tecnica radiometrica del Carbonio 14 e può essere verificata con i normali mezzi a disposizione dei laboratori scientifici”. Infatti, “tra le ipotesi di un certo seguito c’è quella che attribuisce ad un flusso di neutroni il ringiovanimento della Sindone di circa 1300 anni, ponendo fine in questo modo alla diatriba sulla suddetta datazione con il C14. Questo isotopo radioattivo esiste in tracce in atmosfera perché prodotto in continuazione dai neutroni, un sottoprodotto dei raggi cosmici e si trova nella vegetazione nella stessa percentuale atmosferica. Quando un vegetale viene colto, gli atomi di C14 non vengono più rinnovati ed il loro numero decresce esponenzialmente. Allora contando gli isotopi presenti ad un certo momento, si può risalire alla data in cui il vegetale è stato colto e questo è quello che è stato fatto per determinare l’età della Sindone che è tessuta con fibre di lino. Ma il lino contiene naturalmente una piccola quantità di atomi azoto14 che, se irraggiati con neutroni, si trasformano in isotopi di C14 che si sommano a quelli già esistenti, falsando in tal modo la datazione. In breve, è stato provato che se un tessuto di lino simile a quello della Sindone viene irraggiato con un flusso di 10/14 neutroni/cm/2, il tessuto si ringiovanisce di circa 1300 anni”. Ciò premesso, è facile pervenire ad una, apparentemente, davvero paradossale conclusione e cioè che l’analisi effettuata nel 1988 con la tecnica radiometrica del C/14 (senza affannarsi nel ricercare motivi per metterne in discussione la sua attendibilità e chiederne la ripetizione che potrebbe condurre agli stessi risultati) potrebbe essa stessa costituire, per quanto sopra detto, un valido elemento di prova dell’avvenuta Risurrezione di Gesù, in presenza di una lunga serie di indizi che, concordemente, inducono a ritenere che la Sindone di Torino sia davvero il telo che ha raccolto il corpo di Gesù, flagellato e morto in croce. Concludendo, se è vero che, per il cristiano, ogni fatto od argomento oggetto di fede debba essere accettato, a prescindere dalla ricerca di prove concrete che lo dimostrino (Gesù, infatti, ha testualmente affermato: “beati quelli che pur non avendo visto crederanno”, in Gv. 20, 29), è pur vero che, a volte, è Lui stesso a lasciare segni tangibili (come, ad esempio, molti miracoli eucaristici come soprattutto quello di Lanciano) che aiutano, se non anche addirittura determinano, a credere. Nel caso in esame, poi, il “segno” appare anche preannunciato; agli scribi che chiedevano a Gesù: “vorremmo che tu ci facessi vedere un segno” (pretendendo, cioè, una prova concreta da constatare visibilmente da chiunque), Gesù, infatti, rispose: “nessun segno vi sarà dato, se non il segno di Giona il Profeta” (Mt. 12, 38-39), alludendo, evidentemente, non già all’evento della Sua risurrezione (che non ha avuto testimoni oculari), bensì ad un segno tangibile della stessa, offerto, oltre che a Pietro e Giovanni, a tutti quelli che siano disposti a “vedere” e “credere”. E’ pur vero, comunque, che rifacendoci al noto detto di Sant’Anselmo D’Aosta: “non cerco di capire per credere , ma credo per poter capire” e ribaltando, quindi, l’ordine logico seguito in tutta l’esposizione che precede, è proprio l’avvenuta Resurrezione di Gesù, fatto unico ed irripetibile nella storia dell’uomo, che costituisce l’unica valida ed esaustiva risposta a tutti gli interrogativi che possono sorgere, fin dall’iniziale domanda che Pietro e Giovanni si posero, in quel giorno, di fronte a ciò che videro nel sepolcro vuoto.

70) Giustizia e misericordia

Secondo l’umano intendimento il concetto di giustizia contrasta con quello di misericordia: in Dio, invece, questi attributi si identificano al punto da poter asserire che Egli è misericordioso perché giusto ed è giusto perché è misericordioso. A differenza di quella umana, la giustizia di Dio non è né retributiva (come nel caso in cui viene ad ognuno attribuito ciò che ha diritto, sulla base dei propri meriti), né distributiva (come quando si tratta di dividere qualcosa di proprietà comune): nulla, infatti, è nostro ed a nulla abbiamo diritto. All’uomo spettava unicamente lo stato di semplice creatura; Dio, invece, ha voluto elevarlo a condividere la sua eterna felicità. Dopo il peccato, la giustizia divina avrebbe potuto annientare l’uomo, Dio, invece, ha voluto la sua salvezza. Per riparare il peccato e redimere l’uomo, Gesù ha voluto sacrificare la sua vita: è soprattutto nell’opera della redenzione che la giustizia di Dio è stata infinitamente superata dalla sua misericordia. Dio è giusto in quanto tiene conto della debolezza umana; egli conosce esattamente le capacità di ogni creatura e non esige mai niente al di sopra delle sue forze. Se è vero che Cristo è morto per noi, dimostrando uno sconfinato amore per l’uomo, è pur vero che il suo amore va in qualche modo ricambiato: così, se è venuto per salvare l’uomo e non per condannarlo, è pur vero che chi avrà rinnegato la Verità per una sua diversa verità, diretta alla negazione dell’essere ed al nulla eterno, si vedrà attribuita per sempre questa sua amara realtà, esclusivo frutto della sua volontaria scelta. Come in Dio, così nell’uomo, giustizia e misericordia devono congiungersi: la giustizia del cristiano deve superare la semplice giustizia umana, appunto perché promana molto di più dall’adesione a Cristo che dal rispetto del diritto. Sarebbe comunque illusoria una carità che prescindesse dagli obblighi di giustizia derivanti dal rispetto del diritto, onde evitare di offrire a qualcuno come dono di carità quanto gli è già dovuto a titolo di giustizia, ovvero quanto era legittimamente destinato ad altri. A volte, il rispetto dei diritti altrui esige, invero, qualche cosa di scomodo: la via perfetta della giustizia cristiana è quella della carità che non cerca il proprio interesse, non fa nessun male al prossimo ed antepone il bene altrui al proprio. Sulla misericordia divina, Papa Francesco, nella bolla di indizione del Giubileo straordinario della misericordia che inizierà il prossimo dicembre 2015 si è così espresso: “Abbiamo sempre bisogno di contemplare il mistero della misericordia. E’ fonte di gioia, di serenità e di pace. E’ condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato…………La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere…..Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge…Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia……Questa giustizia di Dio è la misericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo.” La misericordia infinita di Dio non è, pertanto, incondizionatamente “concessa a tutti”, ma è da intendersi come una “possibilità” da Lui offerta al peccatore “per ravvedersi, convertirsi e credere”. Ciò impone, al fine di conseguire una vera Riconciliazione con il Signore, oltre al pentimento dei propri peccati, una radicale conversione seguendo, sorretti dalla speranza del Suo amore, una nuova via sul solco tracciato dalla verità del Suo Vangelo.

71) L'incontro di Gesù con il giovane ricco

Il vangelo dell’11 ottobre scorso (XXVIII domenica del Tempo Ordinario: Marco 10, 17-27) narra che “mentre Gesù usciva per mettersi in viaggio, un tale (che, nel corrispondente vangelo di Matteo, viene qualificato “giovane”) gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: “Maestro buono, che cosa devo fare per avere la vita eterna?” Gesù gli disse: “Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non dire falsa testimonianza, non frodare, onora il padre e la madre”. Egli allora gli disse: “Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”. Allora Gesù, fissatolo, lo amò e gli disse: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”. Ma egli, rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, poiché aveva molti beni. Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: “Quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze entreranno nel regno di Dio!” I discepoli rimasero stupefatti a queste sue parole; ma Gesù riprese: “Figlioli, com’è difficile entrare nel regno di Dio! È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio”. Essi, ancora più sbigottiti, dicevano tra loro: “E chi mai si può salvare?” Ma Gesù, guardandoli, disse: “Impossibile presso gli uomini, ma non presso Dio! Perché tutto è possibile presso Dio”. Senza alcuna pretesa di voler fornire un esaustivo commento al brano evangelico su trascritto, mi limito a formulare alcune riflessioni (anche sulla base di alcune ispirate osservazioni apprese da un caro amico sacerdote) su quanto è stato detto e scritto con riferimento alla domanda posta dal giovane ricco a Gesù ed al fatto che Gesù “fissatolo, lo amò”, dopo aver appreso che il giovane “fin dalla (sua) giovinezza” aveva osservato i comandamenti che lo stesso Gesù gli aveva elencati. Innanzi tutto quel “tale” era un “giovane” (Mt 19, 20-22): ciò significa che quelle molte ricchezze che possedeva non erano certamente frutto del suo lavoro, ma presumibilmente gli erano pervenute in eredità. La sua domanda (“maestro buono cosa devo fare per avere la vita eterna?”), la risposta di Gesù (“perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. Tu conosci i comandamenti: non uccidere, ecc…”), seguita dalla successiva risposta del giovane (“Maestro tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza”) ed il fatto che “allora Gesù, fissatolo, lo amò”, così come risultano nel racconto di Marco, secondo una interpretazione unanimemente accolta, identificherebbero il giovane ricco come persona pia, osservante della legge di Dio e che, insoddisfatto del suo stato, è alla ricerca di quello che gli manca per poter vivere in eterno insieme a Dio; ed è per questo, che Gesù, benevolmente colpito da tale lodevole proposito, “fissatolo, lo amò”. Il brano evangelico così come sopra trascritto potrebbe, però, prestarsi anche ad una diversa interpretazione. Alla domanda del giovane (“Maestro buono cosa devo fare per avere la vita eterna?”), la risposta di Gesù (“Perché mi chiami buono, nessuno è buono se non Dio solo”) evidenzia, innanzi tutto, come Gesù non abbia potuto non accorgersi che il giovane non aveva compreso chi avesse difronte, dicendogli che l’appellativo di “buono” compete a “Dio solo”; inoltre, nell’elencazione dei comandamenti, usando una forma non interrogativa, bensì, indicativa presente (“tu conosci i comandamenti….”), Gesù ha, provocatoriamente, indicato solo i comandamenti da Lui ritenuti conosciuti ed osservati dal giovane che aveva davanti, omettendo di citare i primi tre che riguardano il rapporto personale con Dio e che il giovane, di fatto, ha implicitamente ammesso di ignorare del tutto, perché sostituiti, nel suo cuore, dall’attaccamento alle sue notevoli ricchezze. Ed è “solo” (!) questo che manca al giovane che non sembra, invece, essere consapevole che gli manchi qualcosa, anzi, pienamente soddisfatto del suo stato di ricco, sembra avere un solo meschino desiderio: quello di mantenere il suo stato attuale anche in una futura “vita eterna”. L’assenza, nell’animo del giovane, della doverosa rilevanza da attribuire all’osservanza dei comandamenti che parlano dell’amore dovuto dall’uomo a Dio, determina che l’osservanza dei comandamenti di “non uccidere”, “non commettere adulterio”, ecc. non abbia più alcun valore se non fondata su quell’indispensabile presupposto; per questo, Gesù non poteva certamente né lodarlo, né amarlo: “lo amò”, pertanto, per la compassione da Lui riservata per qualsiasi peccatore, pur rilevando l’osservanza, da parte del giovane, dei comandamenti che riguardano i doveri verso il prossimo, e che potevano alimentare una speranza in suo ravvedimento con la conseguente sequela del Maestro (“vendi quello che hai, dallo ai poveri e seguimi”): purtroppo tale aspettativa andò delusa, perché il giovane “rattristatosi per quelle parole se ne andò”, con il pesante fardello delle sue molte ricchezze. Difronte a tale “tristezza”, resta quasi istintivo riferirsi alla ben diversa situazione descritta nella parabola del “Padre misericordioso”: qui, il giovane che aveva preteso dal padre la sua quota di eredità (prima ancora che il padre morisse), dopo aver sperperato i suoi averi, con una condotta peccaminosa (a differenza di quella seguita dal “giovane ricco”) si accorse degli errori commessi proprio quando rimase privo di ogni disponibilità finanziaria e, pentitosi, intraprese il viaggio di ritorno alla casa del padre, disponibile ai più umili servizi e, nel suo animo, si era già predisposto a far presente tale disponibilità al padre che non aveva mai cessato di amarlo e, sempre sperando in un suo ritorno, lo aspettava lì a braccia aperte. Per quanto, poi, concerne la difficoltà di “entrare nel regno di Dio” per “coloro che hanno ricchezze” (Gesù, comunque, non ha mai demonizzato la ricchezza di per sé stessa), mi riporto a quanto già osservato al precedente n. 44 di questo blog. Con riferimento, infine, alla nota affermazione di Gesù: “è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio” che sembra affermare l’obbiettiva impossibilità (sulla base del paragone riferito) che un ricco possa salvarsi, alcuni commentatori, al fine di stemperare un po’ la radicalità insita in tale messaggio, hanno avanzato diverse interpretazioni: una prima interpretazione è quella che Gesù, parlando della “cruna dell’ago” avesse voluto far riferimento ad una porta, all’epoca esistente, per entrare in Gerusalemme, così chiamata per la sua ristrettezza che avrebbe consentito l’ingresso di un cammello con estrema difficoltà e, comunque, in ginocchio e senza alcun carico. Con un’altra interpretazione, si sostiene che il riferimento al cammello sarebbe attribuibile ad un errore di San Girolamo che avrebbe tradotto, dal greco al latino, in “cammello”, il corrispondente termine “kamelos” del testo originale al quale, nella lingua greca, era attribuibile un doppio significato: quello, appunto, di “cammello” e di “gomena” (fune utilizzata per l’attracco delle navi). La sostanza del discorso di Gesù, comunque, non cambierebbe di molto: si tratterebbe sempre di riaffermare il principio che quando le ricchezze ed il desiderio di ricchezze occupano il primo posto nel cuore dell’uomo, ciò significa disattendere l’insegnamento della parola di Dio e non comprendere il senso della vita, precludendosi, così, l’ingresso nel Regno di Dio.

72) Brevi riflessioni sul discorso della montagna

“In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo….” Così viene introdotto, nel vangelo di Matteo (5, 1-12) il discorso di Gesù sulle beatitudini. La salita di Gesù “sul monte” (anche se, in effetti, si trattava solo di una modesta collina) non può non evocare la salita di Mosè sul Sinai, sulla cui vetta “era sceso il Signore” (Es. 19, 18) per dettare la Sua Legge, fissando un limite oltre il quale al popolo era inibito di salire: qui, invece, i discepoli “si avvicinarono” a Gesù che si mise a parlare ed insegnare (non tutti quelli che parlano sono in grado anche di insegnare). La solennità del momento è accentuata dal fatto che Gesù “si pose a sedere”; solo, infatti, in tale posizione Gesù, nei Vangeli, pronuncia discorsi che richiedano una particolare attenzione. Nelle “Beatitudini”, vero e proprio “rovesciamento dei valori”, nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo, “l’Io di Gesù – come magistralmente scrive Benedetto XVI, nel suo “Gesù di Nazaret” – risalta in un grado che nessun maestro della Legge può permettersi. La folla lo percepisce, Matteo ci dice espressamente che il popolo ‘si spaventò’ per il suo modo di insegnare. Non insegnava come i rabbini, ma come uno che ha ‘autorità’ (Mt. 7, 28-29): Con queste espressioni, evidentemente, non ci si riferisce a una qualità retorica dei discorsi di Gesù, ma alla palese rivendicazione di essere all’altezza del Legislatore, all’altezza di Dio. Lo ‘spavento’ (la traduzione della CEI lo addolcisce, purtroppo, usando il vocabolo ‘stupore’) è proprio quello provocato da un uomo che osa parlare con l’autorità di Dio. Così facendo o profana la maestà di Dio, e sarebbe una cosa terribile, o invece, è davvero all’altezza di Dio.” Con la prima beatitudine, Gesù insegna che sono “beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Chi sono i poveri in spirito? Il concetto di “poveri in spirito” individua non uno stato, ma un atteggiamento di umiltà, di attesa, di ricerca del sostegno divino di chi è consapevole della propria povertà spirituale: i poveri cui Gesù si rivolge sono i poveri che, a differenza dei ricchi, non ripongono fiducia in sé stessi o in ciò che posseggono; sono coloro che non hanno nulla da far valere davanti a Dio e quindi sono disponibili ad accogliere il Suo annuncio. Chi si sente santo, giusto, buono ed è soddisfatto di sé non prova il desiderio di accettare la grazia e la giustizia del Cristo. Coloro, invece, che si rendono conto di non potersi salvare o compiere buone azioni, scoprendosi in questa situazione di debolezza, sembrano afflitti, tristi, sentendo il proprio limite come elemento negativo che gli schiaccia ed umilia: il Vangelo di Gesù vuole loro evidenziare come proprio questa consapevolezza del proprio limite, della propria debolezza sia la condizione della felicità; essi sono i poveri in spirito che, come dice Gesù, avranno “il regno dei cieli”. Ed è proprio questa condizione di tristezza che pervade chi è in un atteggiamento di umiltà che induce al pianto: subito, Gesù proseguendo nel Suo insegnamento, avverte (con la seconda beatitudine) che “quelli che sono nel pianto, saranno consolati”. Il “povero in spirito”, come sopra identificato, inoltre, non può non coincidere con chi non ha il male nel cuore: “la mitezza di cui parla la terza beatitudine (riportando l’opinione di un illustre esegeta, padre Jacques Dupont), non è altro che quell’aspetto dell’umiltà che si manifesta nell’affabilità messa in atto nei rapporti con il prossimo”. Ma, mentre la prima beatitudine riguarda il rapporto diretto tra l’uomo e Dio, la terza riguarda il rapporto tra noi ed il nostro prossimo: sicché l’avere “in eredità la terra” non è altro che il riflesso sulla terra (nei rapporti, cioè, con il prossimo) della forza del “regno dei cieli” già presente in noi. Il “mite”, così delineato, è, pertanto, anche colui che ha “fame e sete della giustizia” (quarta beatitudine) e sarà “saziato”: avere fame e sete di giustizia significa, infatti, avere fame e sete di una vita piena nei rapporti personali con gli altri. Riguardo a questa beatitudine, Chiara Lubich in “Parola di vita” del 2006, così scrive: “Il desiderio e la ricerca della giustizia sono da sempre inscritti nella coscienza dell’uomo, glieli ha messi in cuore Dio stesso. Senza amore, rispetto per la persona, attenzione alle sue esigenze, i rapporti personali possono essere corretti, ma possono anche diventare burocratici, incapaci di dare risposte risolutive alle esigenze umane. Senza l’amore non ci sarà mai giustizia vera, condivisione di beni tra ricchi e poveri, attenzione alla singolarità di ogni uomo e donna e alla concreta situazione in cui essi si trovano”. Purtroppo, a fronte di quanti (in netta minoranza) hanno “fame e sete di giustizia”, molti si comportano in modo inverso, calpestando la giustizia e facendo del male agli altri: con la quinta beatitudine, quindi, Gesù ci insegna ad essere misericordiosi con chi ci fa del male. Essere misericordiosi appare così una chiara manifestazione dell’essere a immagine e somiglianza di Dio. Essere misericordiosi, significa, pertanto, essere anche “puri di cuore” riuscire, cioè, a vedere Dio nei fratelli per amarli secondo i sentimenti di Cristo (sesta beatitudine). Chi è disponibile al perdono ed alla misericordia é necessariamente anche, “operatore di pace” (settima beatitudine): che cosa significa, infatti, essere portatore di pace se non offrire la nostra vita per chi ci maltratta, ci calunnia, ci insulta e cerca la nostra distruzione fisica e morale? Ed è proprio in tale offerta che imitiamo Gesù Cristo nostro Signore che offrì per noi la sua vita, dono di pace per la nostra pace. Il vero “operatore di pace” è Dio stesso: per questo quelli che perseguono lo stesso fine “saranno chiamati figli di Dio”, perché somigliano a Lui. Difronte a quanti “hanno fame e sete della giustizia” e, pertanto, sono anche “misericordiosi” ed “operatori di pace”, ci saranno sempre persone che odieranno questo atteggiamento e li perseguiteranno: con l’ottava beatitudine, Gesù insegna che quanti saranno “perseguitati per la giustizia” saranno “beati”, “perché di essi è il regno dei cieli”. Quest’ultima beatitudine, viene, infine, ribadita ed attualizzata nei confronti dei discepoli di Gesù: “beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia” (nona beatitudine). Concludendo, le nove beatitudini (tre per tre), così come sono “insegnate” da Gesù Cristo nel discorso della montagna, non costituiscono un elenco di situazioni ed atteggiamenti distinti tra loro, ciascuno dei quali conduce al conseguimento della “beatitudine”, bensì appaiono tutte reciprocamente connesse ed interdipendenti (in quanto ciascuna presuppone e si completa in tutte le altre) - non è casuale il fatto che la “ricompensa” della prima beatitudine (“il regno dei cieli”) corrisponde anche a quella delle ultime due – indicando, in un’inscindibile unitarietà (similmente al concetto della Trinità Divina), il nuovo modo d’essere dei “figli di Dio” che affonda le sue radici nel ribaltamento del vecchio principio negativo di “non fare agli altri quello che non vorresti che gli altri facciano a te”, con quello nuovo e positivo di “fai agli altri quello che vorresti che gli altri facciano a te”.

73) Giubileo straordinario della Misericordia

L’ 8 dicembre 2015 ha avuto inizio, ufficialmente, il Giubileo straordinario della Misericordia: nel pomeriggio del 29 novembre Papa Francesco ha aperto la prima porta santa della cattedrale della capitale della repubblica Centraficana. Perché un giubileo straordinario? Nella Bolla pontificia di indizione, è Papa Francesco a spiegarcelo. “Abbiamo sempre bisogno, così si legge nelle prime pagine della Bolla, di contemplare il mistero della misericordia. È fonte di gioia, di serenità e di pace. È condizione della nostra salvezza. Misericordia: è la parola che rivela il mistero della SS. Trinità. Misericordia: è l’atto ultimo e supremo con il quale Dio ci viene incontro. Misericordia: è la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato. Ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti” Che cos’è la misericordia? Bisogna, innanzitutto, distinguere la misericordia dalla compassione: compassione è, infatti, quel sentimento che ci fa partecipare intimamente alle sofferenze altrui, mentre la misericordia è quel sentimento di pietà che si concreta in opere verso i nostri fratelli. E’, ancora Papa Francesco ad invitarci a riscoprire “le opere di misericordia corporale: dare da mangiare agli affamati, dare da bere agli assetati, vestire gli ignudi, accogliere i forestieri, assistere gli ammalati, visitare i carcerati, seppellire i morti. E non dimentichiamo le opere di misericordia spirituale: consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti”. Se misericordia è tutto questo, misericordia vuol dire, essenzialmente: Amore. La missione che Gesù ha ricevuto dal Padre è stata quella di rivelare il mistero dell’amore divino nella sua pienezza. “Dio è amore” (1 Gv 4,8.16), afferma per la prima e unica volta in tutta la Sacra Scrittura l’evangelista Giovanni. “Dio ama, ma vuol essere amato”: così scriveva la Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche (nella raccolta dei suoi scritti: “Al servizio del Dio-Amore”) e proseguiva: “l’Amore ha bisogno di corrispondenza, e se, nel seno stesso della Divinità, il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo si ricambiano così perfettamente, che si amano di uno stesso amore che è il loro stesso essere e la loro essenza, così l’Amore Infinito vuol trovare fuori di Sé una reciprocità, relativa senza dubbio e proporzionata alle debolezze dell’essere creato, ma reale. Dio ha deposto, in ogni creatura, con la creazione, un principio di amore, non però in tutte le creature nello stesso grado né sotto la stessa forma. Ne deriva, che ogni creatura debba amare secondo la sua natura. Osserviamo questo modo d’amare mirabilmente esercitato dalle creature inferiori. La terra ha ricevuto da Dio la fecondità e sempre produce per il suo Creatore. Il fiore ha ricevuto lo splendore del suo calice e la dolcezza del profumo; esso si schiude ogni primavera per il suo Dio, offrendogli la sua bellezza ed il soave profumo. L’uccello ha ricevuto l’agilità delle ali, la dolcezza del suo gorgheggio, e vola e canta alla presenza del suo Dio. Gli animali selvaggi che popolano le foreste hanno ricevuto dal loro Creatore, l’agilità della corsa, la forza delle loro difese, la bellezza del loro pelo; crescono alla presenza di Dio, secondo le leggi della loro natura, compiendo la volontà divina e moltiplicandosi come vuole il loro Padrone. Ma Dio ha formato delle creature superiori. Anche in queste ha deposto principi d’amore; e poiché esse hanno ricevuto di più dalla munificenza divina, così devono rendergli di più. Da esse Dio non si aspetta soltanto quell’amore naturale, istintivo, proprio delle creature inferiori. Avendole create ragionevoli, attende da esse un amore ragionevole; avendole dotate d’una volontà libera, attende un amore volontario; avendole create a sua immagine, esige un amore somigliante al suo. E’ questo amore illuminato, quest’amore libero, che l’uomo deve a Dio…….Eppure, pochi uomini amano Dio come vuole essere amato!....” Qual’ è, allora, la conseguenza di questa incapacità, per l’uomo, di corrispondere all’Amore di Dio così come Egli desidera, secondo l’insegnamento di Madre Luisa Margherita Claret de la Touche? Può Dio, non ritenendosi appagato, dimenticarsi, per questo, della Sua creatura e distogliere altrove il Suo sguardo? Ma Dio è Amore misericordioso ed il Suo incommensurabile Amore sa trovare il rimedio anche a questo: l’episodio delle tre domande poste da Gesù a Simon Pietro, narrato al cap. 21 (15-17) del Vangelo di San Giovanni può fornire una rassicurante risposta. In occasione della manifestazione di Gesù ai suoi discepoli (dopo la Sua morte) sul mare di Tiberiade, in detto capitolo si narra che: “quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". Gli disse: "Pasci i miei agnelli". Gli disse di nuovo: "Simone di Giovanni, mi ami?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti amo". Gli disse: "Pasci le mie pecorelle". Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi ami?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi ami? e gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo”. Gli rispose Gesù: “Pasci le mie pecorelle…” Secondo una prevalente interpretazione di questo brano, sembrerebbe come se Gesù volesse ricordare a Pietro, con le sue tre domande, i tre suoi “tradimenti”, avendolo rinnegato per altrettante volte. La traduzione italiana così come sopra riportata dei testi ufficiali del Vangelo di Giovanni tradisce, però, notevolmente la lettera e lo spirito del testo originale greco: invero, Gesù non ripropone a Simon Pietro, per tre volte consecutive, la stessa domanda (“mi ami?”), ma procede ad un progressivo ridimensionamento della prima domanda, sulla base delle insoddisfacenti risposte di Pietro. Con la prima domanda, infatti, Gesù chiede a Pietro se il suo amore è un grande amore (“più degli altri”), usando queste precise parole: “ἀγαπᾷς με πλέον τούτων” ? Ma Pietro non risponde a tono, non usando la parola “agape” (sinonimo di vero amore cristiano fino ad essere disposto all’offerta della propria vita), limitandosi a dire: “φιλῶ σε” (“ti sono amico”). Gesù incalza e, con la seconda domanda, si limita a chiedere se, comunque, l’affetto di Pietro è pur sempre “amore” (anche se privo di quel “più degli altri”), ribadendo la richiesta: “ἀγαπᾷς με”? Ma anche a questa seconda domanda, la risposta di Pietro è deludente e ripetitiva: “φιλῶ σε”. Gesù, allora, quasi prendendo atto dell’incapacità di Pietro a corrispondere al Suo grande Amore e venendo incontro ai suoi limiti, gli chiede, infine: “φιλεῖς με”? (“mi sei amico?”), riproponendo, cioè, la domanda nei ridotti termini delle precedenti risposte. Da questo episodio emerge in tutta evidenza che la richiesta di amore da parte di Dio non assume la veste di una richiesta ultimativa e categorica: qui Gesù appare come chi quasi elemosina, da parte della Sua creatura, un po’ di amore, accontentandosi di quanto quest’ultima sarà capace di concedergli, manifestando, così, la Sua infinita misericordia. Con riferimento, poi, alla misericordia che l’uomo deve avere nei confronti del proprio fratello, Gesù, nel discorso della montagna, con la quinta beatitudine insegna che saranno beati “i misericordiosi”, cioè quanti sono disposti a perdonare chi ci ha fatto del male. Essere misericordiosi appare così una chiara manifestazione dell’essere a immagine e somiglianza di Dio. Essere misericordiosi, significa, pertanto, essere anche “puri di cuore” riuscire, cioè, a vedere Dio nei fratelli per amarli secondo i sentimenti di Cristo. La misericordia dell’uomo verso il proprio fratello è, comunque, ben diversa dalla misericordia di Dio verso l’uomo, così come emerge anche dalla parabola del padre misericordioso che è lì in attesa che il figlio scapestrato, pentito, torni a casa: mentre, infatti, nel primo caso il perdono concesso dall’uomo misericordioso verso chi gli ha fatto del male produce i suoi benefici effetti solo nell’animo del soggetto offeso (prescindendo dal pentimento del soggetto autore dell’offesa), la misericordia, invece, concessa da Dio verso chi, con il proprio peccato, Lo ha offeso, rileva nei confronti del peccatore, cancellando la sua colpa. Con riferimento alla cancellazione della colpa del peccatore, determinato dalla Misericordia divina, va tenuto, comunque, ben presente, come del resto testualmente ricordato da Papa Francesco, che “la Misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere…..Se Dio si fermasse alla giustizia cesserebbe di essere Dio, sarebbe come tutti gli uomini che invocano il rispetto della legge…Per questo Dio va oltre la giustizia con la misericordia e il perdono. Ciò non significa svalutare la giustizia o renderla superflua, al contrario. Chi sbaglia dovrà scontare la pena. Solo che questo non è il fine, ma l’inizio della conversione, perché si sperimenta la tenerezza del perdono. Dio non rifiuta la giustizia……Questa giustizia di Dio è la misericordia concessa a tutti come grazia in forza della morte e risurrezione di Gesù Cristo.” La misericordia infinita di Dio non deve, pertanto, ritenersi incondizionatamente “concessa a tutti”, ma è da intendersi come una “possibilità” da Lui offerta al peccatore “per ravvedersi, convertirsi e credere”. Al fine di conseguire una vera Riconciliazione con il Signore, è necessario, pertanto - approfittando dell’occasione offerta dal “Giubileo Straordinario della Misericordia - oltre al pentimento dei propri peccati, la presenza anche di una radicale conversione, seguendo, sorretti dalla speranza del Suo amore, una nuova via sul solco tracciato dalla verità del Suo Vangelo.

74) L'autunno della vita

Come appartenente alla c.d. “terza età”, mi piace ricordare alcune riflessioni di Papa Giovanni Paolo II, trascrivendone il contenuto, tratto dalla Sua “Lettera agli anziani” del 1° ottobre 1999. Che cosa è la vecchiaia? Di essa a volte si parla come dell'autunno della vita - lo faceva già Cicerone - seguendo l'analogia suggerita dalle stagioni e dal susseguirsi delle fasi della natura. Basta guardare il variare del paesaggio, lungo il corso dell'anno, sulle montagne e nelle pianure, nei prati, nelle vallate, nei boschi, sugli alberi e sulle piante. C'è una stretta somiglianza tra i bio-ritmi dell'uomo e i cicli della natura, di cui egli è parte. Allo stesso tempo, però, l'uomo si distingue da ogni altra realtà che lo circonda, perché è persona. Plasmato ad immagine e somiglianza di Dio, egli è soggetto consapevole e responsabile. Anche nella sua dimensione spirituale, tuttavia, egli vive il succedersi di fasi diverse, tutte ugualmente fuggevoli. ……Se, pertanto, l'infanzia e la giovinezza sono il periodo in cui l'essere umano è in formazione, vive proiettato verso il futuro, e, prendendo consapevolezza delle proprie potenzialità, imbastisce progetti per l'età adulta, la vecchiaia non manca dei suoi beni, perché - come osserva san Girolamo - attenuando l'impeto delle passioni, essa “ accresce la sapienza, dà più maturi consigli ”. In un certo senso, è l'epoca privilegiata di quella saggezza che in genere è frutto dell'esperienza, perché “ il tempo è un grande maestro ”. E ben nota, poi la preghiera del Salmista: “ Insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore ” (Sal 90, 12). La vecchiaia, dunque, alla luce dell'insegnamento e nel lessico proprio della Bibbia, si propone come “ tempo favorevole ” per il compimento dell'umana avventura, e rientra nel disegno divino riguardo ad ogni uomo come tempo in cui tutto converge, perché egli possa meglio cogliere il senso della vita e raggiungere la “ sapienza del cuore ”. “ Vecchiaia veneranda - osserva il Libro della Sapienza - non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza; vera longevità è una vita senza macchia ” (4, 8-9). Essa costituisce la tappa definitiva della maturità umana ed è espressione della benedizione divina. Se ci soffermiamo ad analizzare la situazione attuale, constatiamo che presso alcuni popoli la vecchiaia è stimata e valorizzata; presso altri, invece, lo è molto meno a causa di una mentalità che pone al primo posto l'utilità immediata e la produttività dell'uomo. Per via di tale atteggiamento, la cosiddetta terza o quarta età è spesso deprezzata, e gli anziani stessi sono indotti a domandarsi se la loro esistenza sia ancora utile. Urge ricuperare la giusta prospettiva da cui considerare la vita nel suo insieme. E la prospettiva giusta è l'eternità, della quale la vita è preparazione significativa in ogni sua fase. Anche la vecchiaia ha un suo ruolo da svolgere in questo processo di progressiva maturazione dell'essere umano in cammino verso l'eterno. Da questa maturazione non potrà non trarre giovamento lo stesso gruppo sociale di cui l'anziano è parte. E’ naturale che, con il passare degli anni, diventi familiare il pensiero del “tramonto ”. Se non altro, ce lo ricorda il fatto stesso che le file dei nostri parenti, amici e conoscenti vanno assottigliandosi: ce ne rendiamo conto in varie circostanze, ad esempio quando ci ritroviamo per riunioni di famiglia, per incontri con i nostri compagni d'infanzia, di scuola, di università, di servizio militare, con i nostri colleghi di seminario... Il confine tra la vita e la morte attraversa le nostre comunità e si avvicina a ciascuno di noi inesorabilmente. Se la vita è un pellegrinaggio verso la patria celeste, la vecchiaia è il tempo in cui più naturalmente si guarda alla soglia dell'eternità. E tuttavia anche noi anziani facciamo fatica a rassegnarci alla prospettiva di questo passaggio. Esso infatti presenta, nella condizione umana segnata dal peccato, una dimensione di oscurità che necessariamente ci intristisce e ci mette paura. E come potrebbe essere diversamente? L'uomo è stato fatto per la vita, mentre la morte - come la Scrittura ci spiega fin dalle prime pagine (cfr Gn 2-3) - non era nel progetto originario di Dio, ma è subentrata in seguito al peccato, frutto dell'“ invidia del diavolo ” (Sap 2, 24). Si comprende dunque perché, di fronte a questa realtà tenebrosa, l'uomo reagisca e si ribelli. E’ significativo a tal proposito che Gesù stesso, “ provato in ogni cosa come noi, escluso il peccato ” (Eb 4, 15), abbia avuto paura di fronte alla morte: “ Padre, se possibile, passi da me questo calice ” (Mt 26, 39). E come dimenticare le sue lacrime davanti alla tomba dell'amico Lazzaro, nonostante che egli si accingesse a risuscitarlo (cfr Gv 11, 35)? Per quanto la morte sia razionalmente comprensibile sotto il profilo biologico, non è possibile viverla con “ naturalezza ”. Essa contrasta con l'istinto più profondo dell'uomo. Ha detto in proposito il Concilio: “ In faccia alla morte l'enigma della condizione umana diventa sommo. Non solo si affligge, l'uomo, al pensiero dell'avvicinarsi del dolore e della dissoluzione del corpo, ma anche, ed anzi più ancora, per il timore che tutto finisca per sempre ”. Certo, il dolore resterebbe inconsolabile, se la morte fosse la distruzione totale, la fine di tutto. La morte costringe perciò l'uomo a porsi le domande radicali sul senso stesso della vita: che c'è oltre il muro d'ombra della morte? Costituisce essa il termine definitivo della vita o esiste qualcosa che l'oltrepassa? Non mancano, nella cultura dell'umanità, dai tempi più antichi ai nostri giorni, risposte riduttive, che limitano la vita a quella che viviamo su questa terra. Nello stesso Antico Testamento, alcune annotazioni nel Libro di Qoelet fanno pensare alla vecchiaia come ad un edificio in demolizione ed alla morte come alla sua totale e definitiva distruzione (cfr 12, 1-7). Ma, proprio alla luce di queste risposte pessimistiche, acquista maggior rilievo la prospettiva piena di speranza, che emana dall'insieme della Rivelazione, e specialmente dal Vangelo: “ Dio non è Dio dei morti, ma dei vivi ” (Lc 20, 38). Attesta l'apostolo Paolo che il Dio che dà vita ai morti (cfr Rm 4, 17) darà la vita anche ai nostri corpi mortali (cfr ibid., 8, 11). E Gesù afferma di se stesso: “ Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno ” (Gv 11, 25-26). Cristo, avendo varcato i confini della morte, ha rivelato la vita che sta oltre questo limite in quel “ territorio ” inesplorato dall'uomo che è l'eternità. Egli è il primo Testimone della vita immortale; in Lui la speranza umana si rivela piena di immortalità. “ Se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consoli la promessa dell'immortalità futura ”. A queste parole, che la Liturgia offre ai credenti come conforto nell'ora del commiato da una persona cara, segue un annuncio di speranza: “ Ai tuoi fedeli, o Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un'abitazione eterna nel cielo ”. In Cristo la morte, realtà drammatica e sconvolgente, viene riscattata e trasformata, fino a manifestare il volto di una “ sorella ” che ci conduce tra le braccia del Padre. La fede illumina così il mistero della morte e infonde serenità alla vecchiaia, non più considerata e vissuta come attesa passiva di un evento distruttivo, ma come promettente approccio al traguardo della maturità piena. Sono anni da vivere con un senso di fiducioso abbandono nelle mani di Dio, Padre provvidente e misericordioso; un periodo da utilizzare in modo creativo in vista di un approfondimento della vita spirituale, mediante l'intensificazione della preghiera e l'impegno di dedizione ai fratelli nella carità. Sono perciò da lodare tutte quelle iniziative sociali che permettono agli anziani sia di continuare a coltivarsi fisicamente, intellettualmente e nella vita di relazione, sia di rendersi utili, mettendo a disposizione degli altri il proprio tempo, le proprie capacità e la propria esperienza. In questo modo, si conserva ed accresce il gusto della vita, fondamentale dono di Dio. D'altra parte, con tale gusto della vita non contrasta quel desiderio dell'eternità, che matura in quanti fanno un'esperienza spirituale profonda, come ben testimonia la vita dei Santi. Il Vangelo ci ricorda in proposito le parole del vecchio Simeone, che si dichiara pronto a morire, dal momento che ha potuto stringere tra le sue braccia il Messia atteso: “ Ora lascia, o Signore, che il tuo servo vada in pace secondo la tua parola; perché i miei occhi han visto la tua salvezza ” (Lc 2, 29-30). L'apostolo Paolo si sentiva in certo senso combattuto tra il desiderio di continuare a vivere, per annunciare il Vangelo, e il desiderio di “ essere sciolto dal corpo per essere con Cristo ” (Fil 1, 23). Sant'Ignazio di Antiochia, mentre andava gioioso a subire il martirio, testimoniava di sentire nell'animo la voce dello Spirito Santo, quasi “ acqua ” viva che gli sgorgava dentro e gli sussurrava l'invito: “ Vieni al Padre ”. Gli esempi potrebbero continuare. Essi non gettano alcun'ombra sul valore della vita terrena, che è bella, nonostante limiti e sofferenze, e va vissuta fino in fondo. Ci ricordano però che essa non è il valore ultimo, sicché il tramonto dell'esistenza, nella percezione cristiana, assume i contorni di un “ passaggio ”, di un ponte gettato dalla vita alla vita, tra la gioia fragile e insicura di questa terra e la gioia piena che il Signore riserva ai suoi servi fedeli: “ Entra nella gioia del tuo Signore! ” (Mt 25, 21). In questo spirito, mentre vi auguro, cari fratelli e sorelle anziani, di vivere serenamente gli anni che il Signore ha disposto per ciascuno, mi viene spontaneo parteciparvi fino in fondo i sentimenti che mi animano in questo scorcio della mia vita, dopo più di vent'anni di ministero sul soglio di Pietro, e nell'attesa del terzo millennio ormai alle porte. Nonostante le limitazioni sopraggiunte con l'età, conservo il gusto della vita. Ne ringrazio il Signore. E’ bello potersi spendere fino alla fine per la causa del Regno di Dio. Al tempo stesso, trovo una grande pace nel pensare al momento in cui il Signore mi chiamerà: di vita in vita! Per questo mi sale spesso alle labbra, senza alcuna vena di tristezza, una preghiera che il sacerdote recita dopo la celebrazione eucaristica: In hora mortis meae voca me, et iube me venire ad te - nell'ora della morte chiamami, e comanda che io venga a te. E la preghiera della speranza cristiana, che nulla toglie alla letizia dell'ora presente, mentre consegna il futuro alla custodia della divina bontà. “ Iube me venire ad te! ”: è questo l'anelito più profondo del cuore umano, anche in chi non ne è consapevole. Dacci, o Signore della vita, di prenderne lucida coscienza e di assaporare come un dono, ricco di ulteriori promesse, ogni stagione della nostra vita. Fa' che accogliamo con amore la tua volontà, ponendoci ogni giorno nelle tue mani misericordiose. E quando verrà il momento del definitivo “passaggio”, concedici di affrontarlo con animo sereno, senza nulla rimpiangere di quanto lasceremo. Incontrando Te, dopo averti a lungo cercato, ritroveremo infatti ogni valore autentico sperimentato qui sulla terra, insieme con quanti ci hanno preceduto nel segno della fede e della speranza. E tu, Maria, Madre dell'umanità pellegrina, prega per noi “adesso e nell'ora della nostra morte”. Tienici sempre stretti a Gesù, Figlio tuo diletto e nostro fratello, Signore della vita e della gloria.

75) "Virus, il contagio delle idee" : migranti e Vangelo

Nella trasmissione televisiva “Virus-Il contagio delle idee” di Rai 2, andata in onda nella serata del 1° giugno, lo scrittore Camillo Langoni, intervenendo sul tema sempre attuale dell’immigrazione, dallo stesso definita una vera e propria “invasione” sul nostro territorio, ha sostenuto di non rinvenire nel Vangelo l’indicazione di un principio cristiano che preveda un’accoglienza indiscriminata e senza condizionamenti dello straniero sul proprio territorio: a sostegno di tale tesi il Langoni ha fatto riferimento all’episodio narrato al capitolo 15 del Vangelo di Matteo. Nel brano su riferito, l’evangelista riferisce del rifiuto di Gesù opposto ad una donna cananea (pagana) che gli chiedeva di operare un miracolo a favore della propria figlia, posseduta da un demonio, in quanto “infedele”: da tale episodio emerge, secondo il Langoni, che, nel Vangelo, la possibilità di ottenere un miracolo venga subordinata ad una preventiva conversione del richiedente. Ora, invece, in Italia si ritiene di poter attribuire il “miracolo dell’accoglienza”, senza che gli immigrati si convertano al cristianesimo! Il Langoni omette, però, di riferire che, nell’episodio raccontato da Matteo, a seguito delle insistenze della donna, Gesù concesse il miracolo richiesto, accogliendola come figlia (“ti sia fatto come tu vuoi”), mentre l’iniziale Suo rifiuto era da interpretarsi come un invito rivolto alla donna a riflettere sulla Persona che aveva difronte, sapendo che era pagana e si rivolgeva a Lui per ottenere il miracolo, avendolo scambiato per un semplice guaritore; se, infatti, Gesù avesse esaudito subito la sua preghiera, la figlia sarebbe stata guarita, ma lei avrebbe continuato a credere nel suo dio pagano che non esiste. Limitandoci, in questa sede, alla pretesa inesistenza nel Vangelo di chiari riferimenti ad un principio cristiano di accoglienza dello straniero, come sopra sostenuto dal Langoni, basti richiamare l’attenzione di quest’ultimo su quanto detto da Gesù sul “giudizio finale” al capitolo 25, 31-46 del Vangelo di Matteo che non richiede alcun ulteriore commento: “…….poi dirà a quelli posti alla sua sinistra: via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché……ero forestiero e non mi avete ospitato…….allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto……..forestiero….e non ti abbiamo ospitato? Ma egli risponderà: in verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non lo avete fatto a me. E se ne andranno….al supplizio eterno”.

76) Madonna delle grazie: racconto di una disavventura personale a lieto fine

All'inizio del mese di agosto ero a Sabaudia, quando venni colpito da una forte bronchite, con una tosse stizzosa che non mi abbandonava mai, anche di notte. Mi recai alla locale guardia medica ed il medico di turno mi prescrisse una cura a base di antibiotici per una settimana che diligentemente osservai; in effetti la bronchite cesso' e la tosse si calmò'. Sennonché cominciai ad avvertire una debolezza per tutto il corpo che, col passare dei giorni, anzicche' diminuire, aumentava sempre di più tanto da indurmi a ritornare dal medico, intuendo che mi stesse capitando qualcosa di anomalo: la risposta, convalidata da altri tre medici da me interpellati, fu negativa, nel senso che non ero afflitto da alcun male; il tutto era da ricondursi ad uno stato di astenia determinato dalla cura di antibiotici cui ero stato sottoposto. Mi vennero, pertanto, prescritti solo complessi vitaminici. I giorni passavano, ma il mio stato di malessere generalizzato andava sempre più peggiorando, tanto che passavo le mie notti insonni, afflitto da dolori che colpivano alternativamente varie parti del mio corpo, senza che alcun antidolorifico producesse effetto. In quello stato, mi convinsi di essere stato colpito da un oscuro male che mi stava conducendo alla fine dei miei giorni: tale convincimento veniva avallato dal ricordo di aver recitato svariate volte un testo di preghiere di Santa Brigida, dalla stessa formulate perché direttamente suggerite da Gesù, in occasione di una Sua apparizione. Nelle "promesse" preannunciate da Gesù era anche contenuta la promessa, per chi avesse recitalo dette preghiere, di essere preavvertito in occasione della propria morte. Più volte avevo fatto presente a mia moglie tale mio convincimento che puntualmente veniva respinto al mittente, quale solo un brutto pensiero da scacciare dalla mia mente. Nella nottata del 28 agosto (data del cinquantunesimo del nostro matrimonio), perdurando il mio stato di malessere ed il mio sempre più convinto convincimento sulla mia fine imminente, rivolgendo il mio pensiero a nostro Signore, rimettendomi alla Sua volontà, contestualmente, però, chiedevo con decisione l'intercessione di Sant'Antonio perché, almeno, mi venisse in qualche modo chiarito quale fosse il male che mi stava conducendo a chiudere la mia esperienza terrena. Mi venne, così, in mente che avrei dovuto sottopormi ad un ecocolordoppler alle gambe, accertamento che nessuno dei medici da me interpellati mi aveva indicato. Subito, l'indomani mattina, con l'aiuto di mia moglie, ci mettemmo alla ricerca di un laboratorio di analisi per effettuare detto accertamento, possibilmente nella stessa giornata: la ricerca risulto' vana. Mia moglie si rivolse, allora, ad una sua amica per chiederle di potermi rivolgere ad una clinica privata di Velletri di conoscenza di quest'ultima: riuscì, così, ad ottenere un appuntamento, nella stessa giornata del 29 agosto, per eseguire l'accertamento richiesto presso l'angiologo della casa di cura "Madonna delle grazie", nome che ho indicato come significativo titolo a questo racconto. L'angiologo (dott. Luig Nappi), dopo aver effettuato l'ecocolordoppler, mi riferi' subito di non aver rilevato nulla a carico del sistema circolatorio, bensì marcate parestesie bilaterali ai piedi ed alle mani con sospetta neuropatia degli arti, chiari sintomi di una patologia di natura neurologica, invitandomi a recarmi immediatamente da un neurologo. Nella stessa serata, mia moglie interpello' telefonicamente il suo neurologo (dott. Andrea Romigi) che, dopo aver sentito ciò che il dott. Nappi aveva evidenziato, mi chiese di recarmi con la massima urgenza presso il reparto neurologico dell'ospedale San Giovanni di Roma. L'indomani, dopo avermi visitato, il dott. Romigi (che già conosceva il dott. Nappi) mi accompagnò al pronto soccorso per un immediato ricovero: in serata, dopo una lunga serie di accertamenti, svolti con incredibile celerità culminati con una puntura lobare, mi venne diagnosticata la sindrome Guillain-Barre', una patologia assai grave e rara che investe il sistema nervoso, provocando una progressiva paralisi, fino al decesso del paziente. Per mia fortuna, detta patologia era stata precocemente individuata e, come mi venne assicurato, esisteva un'efficace terapia di contrasto da svolgersi per cinque giorni; l'unico aspetto negativo era costituito dal fatto che gli effetti positivi si sarebbero manifestati solo a partire dal terzo giorno, sicche' dovevo aspettarmi un'iniziale peggioramento della situazione. Il giorno dopo, infatti, avevo perso qualsiasi sensibilità ai piedi: la stessa cosa stava avvenendo alle mani. Di quanto mi stava accadendo, mia moglie informo' il mio parroco e altri parenti ed amici, chiedendo il loro aiuto con preghiere in mio favore: parti', così, una vera e propria invisibile catena di persone che pregavano per me. Puntualmente, alla conclusione del previsto ciclo di terapia, la grave patologia che mi aveva colpito poteva ritenersi debellata, restando da accertarsi i residui danni prodotti, identificati nella riscontrata insensibilità dei piedi ed, in modo molto più leggero, anche delle mani, danni, comunque, reversibili entro pochi mesi, dopo un periodo di adeguata terapia fisioterapica alla quale venivo sottoposto. Durante il ciclo di terapia, il Dott. Romigi mi aveva fatto presente di dovermi ritenere fortunato, dato che se mi fossi presentato all'ospedale San Giovanni tre o quattro giorni dopo, non sarei qui a scrivere questo racconto........ Ho ritenuto di dover scrivere quanto mi è accaduto, senza nulla togliere od aggiungere ai fatti realmente accaduti, in quanto ritengo che, in relazione al loro susseguirsi ed al mio relativo stato d'animo, non possono certamente essersi verificati in modo casuale........Mia moglie Mirella ed io ringraziamo, pertanto, nostro Signore Gesù Cristo, unitamente alla Sua Santissima Madre, per aver rivolto il Suo sguardo benevolo verso di me, ed aver rinviato ad altra data la mia dipartita che avevo percepito come evento ormai imminente, sempre più convinti che la potenza infinita di Dio trova un limite difronte alla forza invincibile della preghiera dell'uomo. Un affettuoso e sentito ringraziamento rivolgo, infine, oltre che ai dott.ri Nappi e Romigi, a tutti i medici, infermieri e terapista che mi hanno assistito con la loro indiscussa professionalità e disponibilità ed a tutti quelli che, con le loro preghiere, hanno contribuito in modo determinante alla mia ripresa. (Dall'ospedale San Giovanni di Roma, Settembre 2016)

77) Macchie di sangue anomale sulla Sindone: prova della sua falsità?

Nello scorso mese di luglio, su alcuni quotidiani ed anche in un programma televisivo su RAI 1 è stata diffusa la notizia che, di recente, era stata effettuata una ricerca condotta dai Prof. Garlaschelli e Matteo Borrini dell'Università di Liverpool al fine di verificare la compatibilità tra le tracce ematiche presenti sulla Sindone e la posizione del corpo della persona ivi raffigurata, al momento della produzione delle ferite dalle quali ne era scaturito il sangue. Il risultato di tale indagine metteva in evidenza l'anomalia del percorso dei rivoli di sangue riscontrata su metà delle macchie di sangue presenti sulla Sindone, inducendo, pertanto, i due suddetti ricercatori a concludere sulla sua falsità. Gli autori di questo esperimento ( non nuovi a tali iniziative) usando dei manichini avevano simulato la fuoriuscita di sangue da alcuni punti (corrispondenti alle ferite presenti nell'immagine sindonica) per osservare come si fossero formati i successivi rivoli di sangue, considerando due diverse posture dei manichini: una verticale, corrispondente alla postura di un uomo crocifisso e, l'altra, orizzontale corrispondente alla postura di un uomo morto ed adagiato nel sepolcro. Veniva, con molta enfasi, svelata la....sconvolgente scoperta! Mentre alcuni rivoli (circa la metà) risultavano, nella Sindone, compatibili con la posizione di un uomo crocifisso, tutti gli altri avevano un percorso diverso, manifestando un andamento anomalo ed innaturale e "non trovavano giustificazione con nessuna posizione del corpo, nè sulla croce, nè nel sepolcro" (con riferimento, in particolare, alla macchia che forma una cintura nella regione lombare e ad altri rivoli con percorso dal dorso verso il collo, non compatibili con nessuna delle due posizioni considerate); pertanto, detti rivoli dovevano ritenersi, secondo i due ricercatori, opera di un falsario con la conclusione, inevitabile, della prova della falsità della Sindone. Tale conclusione risulta,però, assolutamente priva di qualsiasi fondamento: basti osservare - particolare che non mi sembra sia stato preso in considerazione da parte di chi ha cercato di contestare l'asserita falsità della Sindone - che le ferite subite dal corpo di Gesù (dalle quali è fuoriuscito sangue, quando era ancora in vita) non sono state solo quelle inferte per la sua crocifissione (oltre a quella della lancia nel costato) ma anche quelle, molto più numerose, relative alla sua flagellazione, subita in una popstura ben diversa da quelle sopra ricordate: come è noto, per tale supplizio, il condannato veniva legato ad un ceppo molto basso, sicchè il suo corpo si presentava in posizione molto arcuata, con il capo all'ingiù, per mettere bene a nudo la schiena difronte ai flagellatori. In tale posizione (del tutto ignorata dai predetti sperimentatori), pertanto, le ferite inferte sulla schiena producevano sangue che risaliva verso il collo e, quindi, in direzione opposta a quella che sarebbe stata seguita qualora il condannato fosse stato in posizione eretta, mentre il sangue fuoriuscito dalle ferite inferte in una zona centrale e più in basso della schiena necessariamente seguiva percorsi laterali verso la parte anteriore del corpo e, quindi, in direzione innaturale a quella che sarebbe stata seguita qualora il sangue fosse scaturito da un corpo disteso in posizione supina (come erroneamente ipotizzato dai due citati sperimentatori). Ma c'è di più: infatti, l'osservazione secondo la quale le impronte di alcuni rivoli di sangue presenti nella Sindone presentano un andamento apparentemente anomalo, era già stata formulata alcuni decenni addietro! Padre Ildebrando Santangelo, infatti, nel suo libro "Certezze su Gesù", ultima edizione del 2014 (la prima è del 1992) aveva riferito che tale anomalia era stata rilevata da un illustre ematologo ricavandone, invece, una delle tante prove dell'autenticità della Sindone (per le motivazioni sopra ricordate circa la particolare postura del flagellato), dato che nessun falsario avrebbe mai commesso un tale apparente errore; lo stesso Padre Santangelo aveva rilevato, inoltre, che molte impronte di sangue erano visibili solo con l'ausilio di una lampada a gas tungsteno (peraltro inesistente all'epoca del presunto confezionamento del falso) e, pertanto, così concludeva: "è assolutamente impensabile che mano umana avesse dipinto ciò che non si vede e con tanta precisione. Conclusione: la sperimentazione sopra descritta che tanto clamore ha infondatamente suscitato altro non è che un'inconcludente e clamorosa bufala estiva, da annoverarsi tra i molti vani ed, a volte, come il caso in esame, grotteschi tentativi posti in essere al fine di sostenere la falsità della sacra Sindone.

78) Perchè saranno cambiate le parole del Padre nostro e del Gloria?

L’assemblea generale della Cei ha, di recente, approvato la traduzione italiana della terza edizione del Messale Romano, nella quale sono contenute alcune modifiche al Padre nostro ed al Gloria: in particolare, nel Padre nostro, la frase: “non ci indurre in tentazione” viene modificata in: “non abbandonarci alla tentazione” e, nel Gloria, la frase: “pace in terra agli uomini di buona volontà” è sostituita da: “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”. La modifica della frase del Padre nostro (”non ci indurre in tentazione”) è stata giustificata dalla necessità di renderla più chiara e comprensibile dato che la stessa si presterebbe ad un’errata interpretazione, attribuendo a Dio la possibilità di “indurci in tentazione”: lo stesso Papa Francesco, riferendosi a tale frase, ebbe a dichiarare (nel dicembre 2017) che: ”la traduzione è sbagliata, perché Dio non ci può indurre in tentazione”. Invero una simile interpretazione non risulta mai da qualcuno avallata; fin dal primo secolo dopo Cristo, infatti, nella lettera di Giacomo (1, 13), è chiaramente affermato che: “nessuno quando è tentato dica ‘Sono tentato da Dio’; perché Dio non può essere tentato dal male ed egli non tenta nessuno”. Individuando il problema da risolvere nel verbo “indurre”, la Cei ha, comunque, ritenuto di poterlo sostituire, nella versione italiana, con il verbo “abbandonare”: tale operazione appare, però, assolutamente arbitraria, dato che il verbo eisfero (nell’originaria lingua greca, nella quale ci sono pervenuti i Vangeli), con una corretta e letterale traduzione risulta tradotto, dapprima, in latino con il verbo induco e, quindi, in italiano con il verbo “indurre”: inappropriata risulta, pertanto, l’introduzione, nella frase come sopra modificata, del verbo “abbandonare”. Il problema da risolvere potrebbe, invece, essere ricercato più semplicemente nel termine “tentazione”, se inteso nel solo senso di istigazione a compiere il male, laddove la tentazione può ricorrere anche nel caso in cui il male lo si subisce: ciò può accadere in presenza di gravissime disavventure che, per incapacità di sopportazione, può spingere chi le subisce ad abbandonare la fede in Dio. D’altra parte il termine greco peirasmòn (tradotto in italiano: tentazione) è correttamente traducibile anche in “prova” e tale termine darebbe un chiaro senso alla frase in questione, dato che, se è vero che Dio non ci tenta come farebbe il demonio, può metterci sicuramente alla prova per rafforzare la nostra fede e permetterci di scegliere: l’invocazione a Dio Padre di “non indurci in tentazione” assumerebbe, pertanto, il significato di richiesta di non sottoporci a prove che non saremmo capaci di sopportare, similmente all’analoga richiesta dello stesso Gesù Cristo (“Padre, se vuoi, allontana da me questo calice”; Lc. 22, 42). Quanto, poi, all’altra modifica all’inizio del Gloria, con la sostituzione della frase: “pace in terra agli uomini di buona volontà”, con la frase: “pace in terra agli uomini, amati dal Signore”, la stessa appare priva di una valida giustificazione ed, apparentemente, ispirata (per la sola soppressione dell’inciso “di buona volontà”) ad un ulteriore avvicinamento, fortemente voluto da Papa Francesco, alla dottrina luterana della Giustificazione, secondo la quale la salvezza si consegue “Sola Fide”, a nulla rilevando la cooperazione dell’uomo con le sue buone opere. Concludendo, come qualcuno ha autorevolmente affermato, “entrambi i cambiamenti sono un ‘attentato’ ai meriti con cui la creatura può conquistare la vita eterna, nonché sono l’introduzione alla nuova teologia rahneriana, che spiega che non dobbiamo pensare di cercar di meritar qualcosa, tanto Gesù ci ha già salvati tutti e non ci dobbiamo preoccupare più perché ci ama tutti…”

79) Dove andremo?

L’uomo, per sua natura, ha sempre desiderato conoscere, sapere tutto, rendersi conto della realtà che lo circonda, in altre parole è sempre stato alla ricerca della verità: con il progresso scientifico ed il conseguente accrescimento delle proprie conoscenze in tutti i campi, l’uomo ha sempre più ridotto i margini di ciò che gli era ignoto, pervenendo, a poco a poco, alla convinzione che, prima o dopo, riuscirà a scoprire tutto ciò che ancora non è oggetto di conoscenza, ivi compresi i grandi interrogativi sull’inizio del mondo e, quindi, sul significato della propria esistenza. In questo vero e proprio delirio di onnipotenza, dettato da una incondizionata presunzione sui propri mezzi, l’uomo è inevitabilmente portato a rivendicare a sé stesso la propria libertà nella ricerca della verità, in ogni campo e, quindi, anche nel campo della morale, sicché la stessa coscienza che, correttamente va individuata come la facoltà attribuita ad ognuno di noi di verificare se i nostri comportamenti si adeguino, o meno, a principi etici la cui fonte andrebbe cercata al di fuori di noi stessi, diventa, invece, essa stessa la fonte di quei principi. Si perviene, così, all’esaltazione della libertà al punto da farne un assoluto, che diventa la sorgente dei valori: “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l’ imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di accordo con se stessi. Tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale….tale visione fa tutt’uno con un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri”. (dall’enc. Veritatis splendor di Giovanni Paolo II): si è, così, pervenuti all’inaccettabile conclusione, da qualcuno sostenuta, che “ciascuno di noi ha una sua idea del bene e del male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il bene e combattere il male come lui li concepisce”. In questa ottica distorta si inquadra l’affermazione di Putin, il quale, in un recente discorso, ha ritenuto che l’intervento dei militari russi in Ucraina, morti nell’adempimento del loro compito di distruzione e morte del popolo ucraino, costituisca attuazione del principio evangelico: “nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici” !. Proseguendo su questa china, dove andremo a finire?. Per recuperare ciò che appare irrimediabilmente smarrito, occorre, allora, ricercare una cura appropriata dell’anima umana che, preliminarmente, prenda, innanzi tutto, coscienza di alcuni limiti da porre al proprio pensiero. Ciò presuppone, nella necessaria indagine introspettiva (autocoscienza) sul proprio operato, l’accettazione del principio che tale indagine non possa svolgersi correttamente se la propria coscienza si chiuda su se stessa in un’analisi fondata su principi che traggano la loro origine dalla coscienza stessa. E’ evidente che, per operare un corretto giudizio, la coscienza si debba rivolgere fuori di sé stessa, alla ricerca di principi oggettivamente ed universalmente validi, dato che, qualora detti principi fossero il frutto di un ordine morale personalmente costruito, il risultato dell’esame condurrebbe, inevitabilmente, ad una falsa rappresentazione di sé stessi. Non può, infatti, la coscienza dell’uomo essere la fonte della legge morale: non compete all’uomo, quindi, stabilire ciò che è bene e ciò che è male, sulla base delle proprie valutazioni soggettive, con un atto di superbia analogo a quello che spinse Adamo al peccato originale. Nella enciclica sopra richiamata, Giovanni Paolo II avverte, al riguardo, che il “comando” dato da Dio (“tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi magiare”) in Genesi 2, 16-17, attesta inequivocabilmente il principio secondo cui: "il potere di decidere del bene e del male non appartiene all'uomo, ma a Dio solo. L’uomo è certamente libero………ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo”. Purtroppo, appare sempre più evidente il progressivo affievolimento, nelle coscienze, della sacralità della legge morale come sopra identificata. In estrema sintesi, scartando ogni idea di onnipotenza del proprio pensiero in tale campo ed accettando preliminarmente il principio che, nella valutazione morale dei propri atti, la coscienza umana è solo giudice e non legislatore, l’animo umano, che oggi appare quasi irrimediabilmente smarrito, potrà trovare la propria appropriata cura, disponendosi all’incontro personale con l’Autore di tale legge, seguendo il Suo comandamento nuovo: “amatevi gli uni con gli altri come io ho amato voi”, individuando, così, nell’amore il fondamento cardine della legge morale. Le osservazioni che precedono non significano che il bene possa essere messo in pratica solo dal credente; al riguardo, Papa Francesco, in una Sua riflessione su di un brano del Vangelo di Marco (9, 38-40), con riferimento alla lamentela dei discepoli per una persona che faceva del bene ma non era del loro gruppo, osservava testualmente: “i discepoli, senza pensare, volevano chiudersi intorno a un’idea: soltanto noi possiamo fare il bene, perché noi abbiamo la verità. Si tratta, però, di un atteggiamento sbagliato e Gesù li corregge: non glielo impedite, lasciate che lui faccia il bene……i discepoli erano un po’ intolleranti, ma Gesù allarga l’orizzonte e noi possiamo pensare che dica: se questo può fare il bene, tutti possono fare il bene, anche quelli che non sono dei nostri”. Ciò, comunque, nulla toglie al principio che il bene da perseguire ed il male da combattere siano pur sempre quelli universalmente indicati nella legge morale che Dio dà all’uomo e non possono essere sostituiti da quelli ritenuti tali secondo il pensiero soggettivo di ciascun individuo che non si sottrae al rischio dell’errore quando promana da una coscienza che si ritenga autonoma rispetto alla legge divina: il principio secondo cui il bene da compiere debba sempre corrispondere a quello universalmente indicato nella legge divina resta, pertanto, sempre valido, anche se il bene (che risulti oggettivamente corrispondente alla legge divina) sia posto in essere da un non credente con la convinzione che ciò che ha fatto non corrisponda alle prescrizioni di una legge divina, ma solo a quanto suggerito dalla propria autonoma coscienza.

80) A sua immagine

I

A solo titolo esemplificativo, nel programma andato onda il pomeriggio del 25 marzo, quasi mezz’ora è stata dedicata ad un’intervista al noto attore Franco Nero intrattenendosi la presentatrice ad elencare tutte le tappe della prestigiosa carriera dell’illustre ospite. Senza minimamente mettere in dubbio le sue indubbie qualità, mi sembra, comunque, lecita questa domanda: cosa c’entra parlare così diffusamente di Franco Nero in una trasmissione a sfondo dichiaratamente religioso, dedicando, solo alla fine del programma (di circa un ora) davvero pochi secondi ad uno scarno ricordo al contenuto del brano evangelico della successiva domenica che riguardava uno dei più sconvolgenti miracoli di Gesù (la resurrezione di Lazzaro, la cui semplice lettura avrebbe richiesto diversi minuti) che, così, ne risultava, invece, quasi insignificante.

Non è ben chiaro quali motivazioni abbiano portato alla sostanziale modifica del contenuto della suddetta rubrica; senza voler minimamente mettere in dubbio il fatto che le “opere buone” non costituiscano valori esclusivi del credente e, pertanto, possono benissimo, e con la stessa obbiettiva valenza, essere poste in essere anche dal non credente, è indubbio il pericolo che l’offuscamento, da parte dei credenti, del radicamento di quei valori nella persona di Cristo fa perdere la connotazione di “cristiani” a quei valori che rimangono, così, privi di un valido sostegno senza una necessaria e forte motivazione che solo una convinta fede religiosa può fornire, con la conseguenza della perdita della stessa fede per la sua insignificanza.

I suddetti pericoli che insidiano il mondo cristiano risultano ben sintetizzati dal compianto Cardinale Giacomo Biffi, il quale, nella nota pastorale “Christus hodie” del settembre 1995 (che appare anche oggi di estrema attualità) così scriveva:  “ I discepoli di Gesù – stanchi del pesante onere della testimonianza al Crocifisso risorto che viene loro affidata nel battesimo – ridotti a parlare di pace, di solidarietà, di

amore per gli animali, di difesa della natura; il messaggio evangelico identificato nella ricerca del benessere e del progresso; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo. Ovviamente non si tratta di colpevolizzare o ritenere inutile l’attenzione ai “valori”: valori, beninteso, visti non come consecutivi (che sarebbe giusto) ma come sostitutivi dell’adesione alla persona di Cristo e al suo mistero salvifico. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale ed informale a Cristo e al suo mistero: e anche nel cristiano questi stessi valori possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia. Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene, stempera sostanzialmente il fatto salvifico nell’esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, e consuma a poco a poco il peccato di apostasia”.

Sempre nel citato documento, il cardinale Biffi faceva presente che le suddette affermazioni le aveva riprese dal filosofo russo Vladimir Sergeevic Solovèv. A proposito di quest’ultimo riferimento, mi limito a trascrivere alcuni passi tratti dal testo dell’intervento del suddetto Card. Giacomo Biffi al convegno “La passione per l’unità” del 4 marzo 2000 su Vladimir Solovev che sembrano davvero scritti nei nostri giorni. 

“Nell'ultima pubblicazione , “I tre dialoghi” e “il racconto dell'Anticristo”, opera compiuta la domenica di Pasqua del 1900 … è stupefacente la perspicacia con cui descrive la grande crisi che colpirà il cristianesimo negli ultimi decenni del Novecento. 

Egli la raffigura nella icona dell'Anticristo, personaggio affascinante che riuscirà a influenzare e a condizionare un pò tutti. In lui, come qui è presentato, non è difficile ravvisare l'emblema, quasi l'ipostatizzazione, della religiosità confusa e ambigua di questi nostri anni: egli - dice Solovev - sarà un "convinto spiritualista", un ammirevole filantropo, un pacifista impegnato e solerte, un vegetariano osservante, un animalista determinato …………soprattutto, si dimostrerà un eccellente ecumenista, capace di dialogare "con parole piene di dolcezza, saggezza ed eloquenza” (p. 211). 

Nei confronti di Cristo non avrà "un'ostilità di principio" (p. 190); anzi ne apprezzerà l'altissimo insegnamento. Ma non potrà sopportarne - e perciò la censurerà - la sua assoluta "unicità" (p. 190); e dunque non si rassegnerà ad ammettere e a proclamare che egli sia risorto e oggi vivo. 

Si delinea qui, come si vede, e viene criticato, un cristianesimo dei "valori", delle "aperture" e del "dialogo", dove pare che resti poco posto alla persona del Figlio di Dio crocifisso per noi e risorto, e all’evento salvifico. 

Abbiamo di che riflettere. La militanza di fede ridotta ad azione umanitaria e genericamente culturale; il messaggio evangelico identificato nel confronto irenico con tutte le filosofie e con tutte le religioni; la Chiesa di Dio scambiata per un'organizzazione di promozione sociale: siamo sicuri che Solovev non abbia davvero previsto ciò che è effettivamente avvenuto, e che non sia proprio questa oggi l'insidia più pericolosa per la "nazione santa" redenta dal sangue di Cristo? E' un interrogativo inquietante e non dovrebbe essere eluso……………..” 


81) Papa Francesco e l'Islam


Al fine di proseguire il dialogo con l’Islam, secondo Papa Francesco, “Come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo, in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro. La verità è che la violenza non trova base alcuna nelle convinzioni religiose fondamentali, bensì nelle loro deformazioni”. (enc. Fratelli tutti)

I musulmani, da parte loro, persistono nell’irriducibile accanimento nel rinnegare Gesù Cristo come “Figlio di Dio, crocifisso, morto e risorto per la nostra salvezza”, espressione che costituisce, per i cattolici, secondo il nostro Credo, l’elemento essenziale ed imprescindibile fonte della nostra fede.

In tale obbiettivo contesto, risulta molto problematico che cattolici e musulmani possano riunirsi insieme in preghiera, come, invece, avvenuto, dato che, per i cattolici la preghiera è sempre centrata su Gesù Cristo; la chiesa prega infatti “per Cristo, con Cristo ed in Cristo” e lo stesso Gesù disse: “se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome egli ve la darà” (Gv. 16: 23).

Quanto, poi, all’incontro di Papa Francesco con l’imam al-Tayyeb appare inappropriato il riferimento, fatto da Papa Francesco, all’analogo incontro avvenuto 800 anni fa tra San Francesco d’Assisi ed il Sultano d’Egitto (“il mio pellegrinaggio ha seguito le orme di Francesco d’Assisi”……..”vengo a voi per camminare insieme, nello spirito di Francesco d’Assisi”).

L’incontro di Papa Francesco con l’imam al-Tayyeb ha avuto, infatti, come finalità esplicitamente dichiarata, quella di proseguire nel dialogo tra cattolici e musulmani per superare definitivamente le esistenti incomprensioni: finalità perseguita con la ricerca di elementi condivisi da entrambe le parti (“adorazione di Dio e l’amore del prossimo”) escludendo, quindi, dal dialogo, “aspetti della nostra dottrina”, anche se, come sopra, essenziali ed imprescindibili. Non mi sembra che il silenzio possa costituire un idoneo mezzo per superare le esistenti incomprensioni su tali aspetti, almeno che tale silenzio voglia significare la loro rinunzia.

Per San Francesco, invece, scopo del suo viaggio per incontrare il Sultano d’Egitto era quello di convertirlo al cristianesimo, tentativo attuato con amorevole rispetto verso l’interlocutore. Tentativo, comunque, fallito che costrinse San Francesco a rientrare ad Assisi, dopo aver decisamente rifiutato cospicui doni offerti dal Sultano a favore dei poveri di Assisi.


 

82) Evangelizzazione, proselitismo, irenismo


Si è, di recente, riaffermata la necessità di un forte rilancio dell’evangelizzazione (come già a suo tempo auspicato da Papa Giovanni Paolo II) la cui credibilità possa emergere nella sfida finalizzata al raggiungimento di più salde fraternità, amicizia e solidarietà fra i popoli, senza ricorrere, comunque, a qualsiasi forma di condannabile proselitismo; se, in linea di principio, su  quest’ultima  esigenza sussiste un unanime consenso, permangono, comunque, talune notevoli divergenze sul contenuto da attribuire ai termini “evangelizzazione” e “proselitismo” che determinano una deprecabile confusione.

Al fine di pervenire ad un necessario chiarimento di quanto sopra messo in evidenza, è di determinante ausilio il ricorso alla “Nota dottrinale su alcuni aspetti dell’evangelizzazione”, redatta dalla “Congregazione per la dottrina della fede” ed approvata da Papa Benedetto XVI il 6 ottobre 2007.

 Vengono, pertanto, qui riportati alcuni brani che chiariscono o, quantomeno, determinano in via convenzionale nel loro uso, il contenuto attualmente attribuito dalla Chiesa a detti termini.

 “Il termine evangelizzazione ha un significato molto ricco. In senso ampio, esso riassume l'intera missione della Chiesa: tutta la sua vita infatti consiste nel realizzare la traditio Evangelii, l'annuncio e la trasmissione del Vangelo, che è “potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede” (Rm 1, 16) e che in ultima essenza si identifica con Gesù Cristo (cf. 1 Cor 1, 24). Perciò, così intesa, l'evangelizzazione ha come destinataria tutta l'umanità. In ogni caso, evangelizzare significa non soltanto insegnare una dottrina bensì annunciare il Signore Gesù con parole ed azioni, cioè farsi strumento della sua presenza e azione nel mondo.

In ogni caso, va ricordato che nella trasmissione del Vangelo la parola e la testimonianza della vita vanno di pari passo; affinché la luce della verità sia irradiata a tutti gli uomini, è necessaria anzitutto la testimonianza della santità. Se la parola è smentita dalla condotta, difficilmente viene accolta. Ma neppure basta la sola testimonianza, perché “anche la più bella testimonianza si rivelerà a lungo impotente, se non è illuminata, giustificata — ciò che Pietro chiamava “dare le ragioni della propria speranza” (1 Pt 3, 15) — ed esplicitata da un annuncio chiaro e inequivocabile del Signore Gesù.”

Per quanto concerne, poi, il termine “proselitismo”, la suddetta Nota così si esprime: “Originalmente il termine “proselitismo” nasce in ambito ebraico, ove “proselito” indicava colui che, proveniente dalle “genti”, era passato a far parte del “popolo eletto”. Così anche in ambito cristiano il termine proselitismo spesso è stato utilizzato come sinonimo dell’attività missionaria. Recentemente il termine ha preso una connotazione negativa come pubblicità per la propria religione con mezzi e motivi contrari allo spirito del vangelo e che non salvaguardano la libertà e la dignità della persona. In tale senso, il termine “proselitismo” viene compreso nel contesto del movimento ecumenico: cf. The Joint Working Group between the Catholic Church and the World Council of Churches, The Challenge of Proselytism”.

Quanto come sopra riportato, può così, in estrema sintesi, ricapitolarsi. L’ “evangelizzazione” ha bisogno di due essenziali elementi: annuncio  del Vangelo con un chiaro ed inequivocabile riferimento a nostro Signore Gesù Cristo ed una consequenziale testimonianza, finalizzati alla conversione dei non credenti, il tutto svolto con amore e nel rispetto del prossimo, mentre il termine “proselitismo” va inteso solo con riferimento alle inaccettabili ed inopportune modalità,  a volte anche violente, svolte senza alcun rispetto dell’altrui coscienza e libertà religiosa  nella diffusione del suddetto annuncio.

Se, al fine di chiarezza onde evitare possibili confusioni, la “Congregazione per la dottrina della fede” ha ritenuto opportuno precisare nei termini su esposti i contenuti che la Chiesa intende attribuire, nel loro uso, ai termini “evangelizzazione” e “proselitismo”, è evidente che l’unanimità dei consensi nel condannare il “proselitismo”  venga meno qualora vengano modificati i contenuti  dei termini in questione.

Al riguardo la suddetta “Nota” prosegue con le seguenti osservazioni che, oggi, appaiono di estrema attualità.

“Si verifica oggi, tuttavia, una crescente confusione che induce molti a lasciare inascoltato ed inoperante il comando missionario del Signore (cf. Mt 28, 19). Spesso si ritiene che ogni tentativo di convincere altri in questioni religiose sia un limite posto alla libertà. Sarebbe lecito solamente esporre le proprie idee ed invitare le persone ad agire secondo coscienza, senza favorire una loro conversione a Cristo ed alla fede cattolica: si dice che basta aiutare gli uomini a essere più uomini o più fedeli alla propria religione, che basta costruire comunità capaci di operare per la giustizia, la libertà, la pace, la solidarietà. Inoltre, alcuni sostengono che non si dovrebbe annunciare Cristo a chi non lo conosce, né favorire l’adesione alla Chiesa, poiché sarebbe possibile esser salvati anche senza una conoscenza esplicita di Cristo e senza una incorporazione formale alla Chiesa.”

Purtroppo la suddetta confusione risulta ulteriormente accresciuta da affermazioni, provenienti da alta e qualificata sede, secondo le quali l’annuncio del Signore debba essere fatto non con la parola ma solo con la testimonianza del camminare insieme verso la stessa meta, diventare, cioè, tutti fratelli per poter costruire fraternità, amicizia, comunità, con l’ulteriore precisazione che “come credenti ci vediamo provocati a tornare alle nostre fonti per concentrarci sull’essenziale: l’adorazione di Dio e l’amore del prossimo” (aspetti comuni delle religioni monoteiste), “in modo tale che alcuni aspetti della nostra dottrina, fuori dal loro contesto, non finiscano per alimentare forme di disprezzo, di odio, di xenofobia, di negazione dell’altro” (enc. Fratelli tutti, cap. VIII), rimanendo così implicitamente escluso dall’opera di evangelizzazione il fine della conversione dei non credenti a Gesù Cristo, Figlio di Dio, crocifisso, morto e risuscitato per la nostra salvezza, aspetto irrinunciabile per i cattolici che costituisce un insormontabile ostacolo per intraprendere, con i non cattolici, un comune “percorso spirituale”.

E’ evidente che, in una tale visione, il campo dell’Evangelizzazione risulti notevolmente ridotto fino ad escludere “aspetti” fondamentali della fede cattolica che, così, sono destinati a confluire nell’ambito di un condannato “proselitismo”, aprendo la strada verso l’istaurazione di una religiosità universale (“irenismo”, di stampo chiaramene massonico) che, inevitabilmente, conduce sì all’unificazione di tutte le religioni, ma nella comune rovina.

Su tale attuale pericolo appaiono davvero profetiche le argomentazioni svolte nell’enciclica Humani Generis di papa Pio XII che così si esprimeva: “Si nota poi un altro pericolo……molti, deplorando la discordia e la confusione che regna nelle menti umane, abbracciano una specie di irenismo che, omesse le questioni che dividono gli uomini, sembrano ritenere un ostacolo al ristabilimento dell’unità fraterna, quanto si fonda sulle leggi e sui principi stessi dati da Cristo e sulle istituzioni da Lui fondate , o quanto costituisce la difesa e il sostegno dell’integrità della fede, crollate le quali, tutto viene sì unificato, ma soltanto nella comune rovina”. Anche il Sant’Ufficio si pronunciava negli stessi termini il 20 dicembre 1949 affermando che : “si deve evitare che per uno spirito, chiamato irenico, l’insegnamento cattolico venga talmente confutato e accomodato con la dottrina dei dissidenti (per il vano desiderio dell’assimilazione progressiva delle differenti professioni di fede ) che ne abbia a soffrire la purezza della dottrina cattolica”. Altrettanto profetica appare anche l’affermazione contenuta nell’enciclica Humanum Genus di papa Leone XIII del lontano 1884: “l’irenismo d’oggi è proprio questo spirito diabolico condannato dalla Chiesa, prodromo della cosiddetta Religione unica globale, ovvero dell’irreligione totalitaria della Setta del male e dell’errore”.


83) Cristiani, musulmani ed ebrei uniti nella preghiera?


Le perplessità ed i dubbi avanzati nel precedente capitolo “Papa Francesco e l’Islam”, circa la possibilità di un incontro comunitario di preghiera tra cristiani e musulmani sono stati oggetto di diverse critiche in quanto sarebbero stati determinati da un fraintendimento delle parole e delle intenzioni del Papa.

In particolare, il moderatore di un sito cattolico molto seguito ha pubblicato il seguente commento.

“Non vanno fraintese le parole e le intenzioni del Papa, che non sono certamente di finalità sincretista.

Il suo intervento va letto sulla base dei diversi gradi di espressione della fede. Il modo, infatti, in cui l'uomo si è approcciato nel tempo con il Divino ha diversi livelli, e più indietro si va nei livelli più è possibile trovare un punto comune in tutte le religioni.

Nel caso specifico il livello è quello del Monoteismo, la fede nel Dio unico, che è sostanzialmente il Dio che si è rivelato ai Patriarchi e ai Profeti, è ciò che accomuna ebrei, cristiani e musulmani. E' necessario,  quindi,  risalire a questo livello  per trovare un linguaggio comune, anche un linguaggio di preghiera.
I cristiani, come gli ebrei e i musulmani, si rivolgono all'unico Dio (anche per noi cattolici tutte le orazioni della Liturgia, escludendone pochissime, sono rivolte al Padre), è quindi possibile pregare insieme quell'unico Dio”.

Se tutto ciò è fuori discussione, è indubitabile che la preghiera del cristiano, se pure rivolta al Padre, è pur sempre formulata nel nome del suo Figlio, crocifisso, morto e risorto per la nostra salvezza, come lo stesso Gesù Cristo ci ha insegnato (“se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome egli ve la darà”); dato che quest’ultimo aspetto costituisce, per i cristiani, elemento essenziale ed imprescindibile fonte della propria fede, mentre è assolutamente intollerabile per i musulmani e gli ebrei, al fine molto discutibile di trovare “un punto comune” di incontro tra le tre religioni monoteiste i cristiani si vedrebbero costretti a rinunziare a confessare e proclamare apertamente il loro amore e devozione a Gesù Crocifisso.

Il ritornare indietro in tempi ormai remoti al fine di trovare un punto d’incontro tra le tre religioni monoteiste porta, infatti, all’invito, da parte di Papa Francesco, a pregare insieme all’unico Dio Padre celeste, implicitamente invitando i cristiani ad ignorare, in tale sede, l’Avvento di nostro Signore Gesù Cristo.

Le parole ed intenzioni di Papa Francesco nel non aver preso in alcuna considerazione tale aspetto lasciano davvero perplessi, soprattutto se confrontate con quanto, dieci anni or sono, ebbe a dire Lui stesso in un’omelia pronunciata durante una messa celebrata pochi giorni dopo la Sua elezione alla presenza di 114 cardinali e che, qui di seguito, viene fedelmente trascritto (v. testo integrale dell’omelia del  2013 pubblicata nel sito ufficiale del Vaticano).

“Noi possiamo camminare quanto vogliamo, noi possiamo edificare tante cose, ma se non confessiamo Gesù Cristo, la cosa non va. Diventeremo una ONG assistenziale, ma non la Chiesa, Sposa del Signore.…….. Quando non si confessa Gesù Cristo, mi sovviene la frase di Léon Bloy: “Chi non prega il Signore, prega il diavolo”. Quando non si confessa Gesù Cristo, si confessa la mondanità del diavolo, la mondanità del demonio……….. Quando camminiamo senza la Croce, quando edifichiamo senza la Croce e quando confessiamo un Cristo senza Croce, non siamo discepoli del Signore: siamo mondani, siamo Vescovi, Preti, Cardinali, Papi, ma non discepoli del Signore”.

Altro problema, non preso in considerazione, circa la possibilità di incontri comunitari di preghiera tra le tre religioni monoteistiche riguarda, poi, la ricerca dei luoghi ove svolgere tali eventuali incontri, dato che le chiese, le sinagoghe e le moschee presentano differenti aspetti architettonici ed organizzativi, corrispondenti alle singole diverse specificità  difficilmente reciprocamente accettabili.

 


84) Il miracolo della sacra Sindone


           Il 31 luglio 2023, nella Chiesa di San Domenico in Chioggia, è stata aperta al pubblico  la mostra internazionale “The Mystery Man” , dedicata alla Sacra Sindone di Torino che comprende l’esposizione di una scultura, realizzata in lattice e silicone, che riproduce in grandezza naturale il corpo raffigurato nel suddetto sacro telo, sfruttando le sue qualità tridimensionali. Come è noto, infatti, da diversi anni venne scoperto che l’intensità della colorazione degli innumerevoli punti costituenti l’immagine sindonica era strettamente correlata alla distanza tra la tela e l’oggetto dell’immagine, sicché si rendeva possibile, sfruttando tale sorprendente particolarità, ricostruire fedelmente il corpo ivi raffigurato: si era già nel passato cercato di realizzare tale complessa operazione, ma  il risultato raggiunto non era mai pervenuto ad un tale livello di perfezione come evidenziato dal manufatto come sopra oggi esposto al pubblico.  La scultura rappresenta il corpo di un uomo straziato da innumerevoli ferite (tutte corrispondenti a quelle descritte nei Vangeli sulla passione e morte di nostro Signore Gesù Cristo), con il capo leggermente sollevato, le mani piegate  sul davanti ed una gamba flessa che indicano una persona non morta, ma viva che stia per alzarsi.

           Sull’origine dell’immagine sindonica innumerevoli studi vennero svolti nel passato ed ancora oggi non sono pochi quelli (scienziati e non) che cercano invano di trovare una soddisfacente risposta, sicché può tranquillamente affermarsi che sul come quell’immagine tridimensionale sia rimasta impressa sul lenzuolo resta un mistero totale.

           Scartata, innanzi tutto,  la possibilità che si tratti di un falso realizzato da un abile contraffattore, per l’ormai accertata impossibilità di una sua qualsiasi riproduzione, pur disponendo oggi di sofisticatissimi meccanismi e scartata anche l’ipotesi che l’immagine si possa essere prodotta per contatto diretto tra la tela ed il corpo, dato che, in tale ipotesi, il risultato sarebbe stato quello di una inevitabile distorsione dell’immagine, resta ancora in piedi l’ipotesi che tale effetto figurativo possa essere stato prodotto per proiezione: l’immagine sarebbe stata, cioè, impressa sul lenzuolo a seguito dell’istantanea e potentissima emissione di luce che si sarebbe verificata al momento della resurrezione di Gesù Cristo.

            Quest’ultima ipotesi risulta sostenuta anche da qualificati esperti studiosi dell’argomento e la raffigurazione evidenziata con la scultura come sopra realizzata sembrerebbe fornire ulteriori elementi a suo sostegno: l’immagine sindonica sarebbe, quindi, stata prodotta dal lampo di luce emanato dal corpo di Gesù Cristo al momento della Sua resurrezione “fotografando” in maniera indelebile tale straordinario e miracoloso evento: in altri termini, e più semplicemente, l’immagine sindonica sarebbe stata impressa sul telo sindonico come effetto naturale (anche se con modalità che scientificamente  non si è mai riusciti ad identificare) dell’avvenuta miracolosa resurrezione (nel suo interno) di Gesù Cristo.

            Pur riconoscendo di non essere un esperto e qualificato studioso dell’argomento in oggetto, non ritengo di poter aderire all’attendibilità di quest’ultima ipotesi sulla base di alcune mie personali riflessioni che succintamente espongo qui di seguito che, pur nella loro apparente banalità’, mi appaiono, comunque, difficilmente contestabili.

           Innanzitutto l’accostamento dell’impressione dell’immagine presente sul telo sindonico  determinata da una istantanea e potentissima emissione di luce dal corpo risorto di Gesù Cristo all’impressione di una pellicola nell’esecuzione di una normale fotografia è alquanto discutibile, dato che mentre in quest’ultimo caso la fonte di luce (sole od altra fonte artificiale) serve ad illuminare l’oggetto da riprendere, nel caso in esame l’oggetto da riprendere coinciderebbe con la stessa fonte di luce.

           Sussistono, a mio modesto avviso, sufficienti motivazioni che rendono quanto meno molto discutibile quanto come sopra ipotizzato.

           La ricostruzione così come sopra di recente realizzata con la produzione di una statua esattamente corrispondente all’immagine sindonica mette in chiara evidenza quale fosse la posizione del corpo del soggetto raffigurato nel momento dell’avvenuta ipotetica impressione a seguito della violenta emissione di luce emanata dal corpo, all’atto della sua resurrezione.

           Deve, infatti, necessariamente convenirsi che, in presenza di una immagine sia del davanti che del retro del corpo, al momento della suddetta esplosione di luce, il telo sindonico, al fine di evitare qualsiasi distorsione dell’immagine, dovesse trovarsi in posizione perfettamente distesa sia sotto che sopra il corpo e che il quest’ ultimo non dovesse, inoltre, giacere sul telo stesso (dato che, in tale caso, avrebbe comportato un conseguente afflosciamento dei glutei, cosa esplicitamente non riscontrata dai vari esami effettuati): il corpo sarebbe stato, quindi, da ritenersi galleggiante all’interno del telo. Inoltre, in tale veramente surreale posizione del corpo, galleggiante tra le due parti del telo, al fine di realizzare una soddisfacente stesura dello stesso, doveva intercorrere una distanza sempre uniforme tra le suddette due parti del telo e per tutta la sua estensione, almeno pari allo spessore del corpo  e, comunque, avendo anche presente che sia il capo che una gamba appaiono leggermente sollevati, non inferiore a 20-30 centimetri, cosa assolutamente da escludersi. Infatti, essendo l’immagine realizzata su di un unico telo (testa contro testa), si rileva, tra le due immagini contrapposte del capo, l’esistenza di uno spazio privo di immagine di soli 2 o 3 centimetri (comunque assolutamente insufficiente a realizzare il suddetto necessario minimo distacco) attribuibile alla presenza intorno al capo di un sudario che, arrotolato su se stesso, fungeva da mentoniera al fine di mantenere la bocca chiusa (sulle modalità della sepoltura, v. un mio precedente scritto  al n. 69 di questo sito dal titolo “Cosa vide Giovanni nel sepolcro vuoto”).

          Invero, al momento della resurrezione di Gesù, il Suo corpo, al difuori della suddetta veramente “bizzarra”  quanto necessaria ricostruzione  al fine di sostenere l’ipotesi dell’impressione dell’immagine a tale momento, risultava giacere nel sepolcro, avvolto dal lenzuolo sindonico e  dalle sovrastanti fasce che mantenevano ben stretto il suo corpo. Come raccontato dai Vangeli, lenzuolo e fasce vennero trovati da Pietro e Giovanni afflosciati su sé stessi, in quanto privi del corpo di Gesù che contenevano, nella stessa posizione nella quale si trovavano all’atto della sua sepoltura: inoltre, il telo sindonico, come solo successivamente accertato, non presenta la benché minima sbavatura delle macchie di sangue, circostanza che attesta  come il corpo di Gesù si sia smaterializzato e, quindi, scomparso da detti bendaggi, senza che gli stessi siano stati minimamente rimossi da qualcuno (anche su tale argomento v. lo scritto su richiamato).

          Quanto sopra sembra sufficiente ad escludere l’ipotesi che l’immagine sindonica si possa essere prodotta per l’improvvisa emissione di luce in occasione della resurrezione di Gesù: ma c’è di più.

          Come risulta descritto dai Vangeli, il corpo di Gesù, dopo la Sua morte in croce, venne ravvolto da un “candido lenzuolo” (inequivocabilmente identificabile con il telo sindonico) e così trasportato dal Golgota al sepolcro, distante circa 50 metri: è facile presumere che in tale tragitto (anche se abbastanza breve) detto lenzuolo si sia inevitabilmente macchiato di sangue per le innumerevoli ferite e lacerazioni  che ricoprivano tutto il suo corpo e così sia rimasto ed utilizzato per la sua sepoltura, avvenuta in fretta per le note esigenze imposte dalla religione ebraica in quel dato momento.

          In tale incontestabile situazione, l’impressione dell’immagine sindonica, nell’ipotetica modalità sopra descritta si sarebbe prodotta su di un telo non più “candido”,  bensì già ricoperto da macchie di sangue (con conseguenti sbavature determinate dall’inevitabile  sfregamento del corpo in occasione del suddetto tragitto) rendendo, in tal modo, sicuramente indecifrabile l’immagine: l’accurato esame del telo sindonico effettuato per decenni da parte degli innumerevoli studiosi non ha mai constatato, comunque, l’eventuale suddetta sovrapposizione.

         Inoltre la scultura come sopra realizzata, sulla base di quanto risulta impresso sul telo sindonico, in quanto raffigurante un corpo vivo con il capo già sollevato da terra, non risulta corrispondente al momento (infinitesimamente breve) dell’emissione della potentissima luce all’atto della resurrezione di Gesù, ma a qualche attimo successivo.

          In conclusione, le osservazioni che precedono sembrano escludere che l’immagine sindonica si possa essere prodotta o, comunque, ritenersi connessa all’esplosione di luce emanata dal corpo di Gesù in occasione della sua resurrezione.

           In tale situazione sembra che, nell’affannosa ricerca delle cause che hanno generato l’immagine sindonica, non resti altro che un'unica possibile ipotesi: quella del miracolo.

           Sarebbe stato, pertanto, Gesù stesso, nell’intento di lasciare un segno tangibile della sua Passione, Morte e Resurrezione, ad imprimere sul lenzuolo sindonico (dopo averlo reso perfettamente candido) la propria immagine, unitamente ad una lunga serie di ulteriori segni informativi su quanto era accaduto, molti dei quali non immediatamente percepibili e, forse, ancora da scoprire. D’altra parte, a chi gli chiedeva di “vedere un segno” di tutto quello che diceva, Gesù stesso rispose: “una generazione perversa ed adultera pretende un segno. Ma nessun segno sarà dato, se non il segno di Giona profeta” (Mt. 12: 38-41).

         Inoltre, per concludere, l’ipotesi secondo la quale l’immagine non si fosse prodotta a seguito della resurrezione di Gesù, ma per suo volontario miracolo, ridimensione (se non elimina del tutto) anche il problema della discussa data nella quale tale evento si è verificato: nulla cambia, cioè, se tale evento si fosse verificato 2000 anni fa oppure nel 1300………

 

         

           

       85)Gesù Cristo convertito da una pagana ?


       

       Nel Vangelo di Matteo (15, 21-28) così viene descritto l’incontro di Gesù con una donna cananèa: “In quel tempo, partito di là, Gesù si ritirò verso la zona di Tiro e di Sidòne. Ed ecco una donna Cananèa, che veniva da quella regione, si mise a gridare: «Pietà di me, Signore, figlio di Davide! Mia figlia è molto tormentata da un demonio». Ma egli non le rivolse neppure una parola. Allora i suoi discepoli gli si avvicinarono e lo implorarono: «Esaudiscila, perché ci viene dietro gridando!». Egli rispose: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d'Israele». Ma quella si avvicinò e si prostrò dinanzi a lui, dicendo: «Signore, aiutami!». Ed egli rispose: «Non è bene prendere il pane dei figli e gettarlo ai cagnolini». «È vero, Signore – disse la donna –, eppure i cagnolini mangiano le briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni». Allora Gesù le replicò: «Donna, grande è la tua fede! Avvenga per te come desideri». E da quell'istante sua figlia fu guarita”.

       Di recente Padre Antonio Spadaro, Direttore di “Civiltà cattolica” ha pubblicato un suo commento sul passo evangelico su trascritto interpretando il comportamento tenuto da Gesù in tale occasione in modo, quanto meno, assai discutibile.

       Secondo Padre Spadaro, infatti, Gesù, con l’iniziale suo insistente rifiuto ad assecondare la richiesta della povera donna, avrebbe usato nei suoi confronti un comportamento duro ed irriguardoso con una caduta di stile, di umanità e soprattutto senza alcuna misericordia; solo, dopo le ulteriori insistenze della donna, “con poche parole – conclude Padre Spadaro -  ma ben poste e tali da sconvolgere la rigidità di Gesù, da conformarlo, da “convertirlo” a sé…… Gesù appare guarito, e alla fine si mostra libero, dalla rigidità degli elementi teologici, politici e culturali dominanti del suo tempo. Ha guarito la figlia di una donna pagana, disprezzata per essere cananea. Non solo: le dà ragione e ne loda la grande fede. Qui c’è il seme di una rivoluzione”.

       Le conclusioni cui perviene Padre Spadaro, così come sopra sinteticamente riferite, destano, però, alcune perplessità.

       Innanzitutto, la donna incontrata da Gesù era una cananea, appartenente, cioè, ad una comunità, pagana nemica tradizionale contro cui il popolo ebraico aveva dovuto combattere strenuamente per stabilirsi nella terra promessa la cui religione rappresentava una minaccia costante per la purezza della religione israeliana e che rinnegava apertamente Gesù Cristo. E’ ben noto l’atteggiamento di Gesù nei confronti dei pagani ed in genere di chiunque lo avesse rinnegato ("Non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele”:Mt 10, 5-6; “chi  mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli”: Mt 10, 33).

       Per quanto concerne, poi, la misericordia va ricordato che se è vero che la giustizia di Dio è la sua misericordia è pur vero che la stessa presuppone, nel beneficiario, il suo completo ravvedimento (conversione) ed adesione a Cristo Gesù (Rm 10, 3-4). Lo stesso Papa Francesco, nella Bolla di indizione del giubileo della Misericordia ha testualmente affermato che: “La misericordia non è contraria alla giustizia ma esprime il comportamento di Dio verso il peccatore, offrendogli un’ulteriore possibilità per ravvedersi, convertirsi e credere”. Anche le parabole sulla misericordia ribadiscono il principio che il pentimento e la conversione costituiscono sempre i suoi necessari presupposti.

        L’iniziale rifiuto di Gesù verso la richiesta della donna cananea risulta, pertanto, perfettamente in linea con quello che rappresentava un componente di una comunità pagana e miscredente.

       Ma, difronte all’insistenza della donna (“Signore aiutami”) che già si era rivolta a Lui chiamandolo “figlio di Davide”, Gesù le risponde in modo apparentemente provocatorio (“non è bene prendere il pane dei figli e darlo ai cagnolini”) al fine di ottenere una risposta che gli sveli quanto realmente alberghi nelle profondità del suo animo.

       La risposta è davvero illuminante: la cananea, anziché adirarsi per essere stata paragonata, in tono dispregiativo, ad un “cagnolino” non osa contraddire il Signore, non si rattrista e non si abbatte, ma, accettando umilmente il paragone,  mostra le qualità dei cagnolini che si nutrono delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni, implicitamente manifestando il proprio ravvedimento e richiesta di partecipazione ai beni della salvezza messianica, anche se in modo limitato.

        E’ proprio questo atteggiamento di totale fiducia e povertà spirituale che convince Gesù a ritenerla inserita nel piano della salvezza cristiana (“donna davvero grande è la tua fede. Ti sia fatto come desideri”).

       Il miracolo compiuto da Gesù è, pertanto, correttamente da collegarsi all’avvenuta conversione della donna cananea come testualmente attestato dallo stesso Gesù.

       Nell’episodio raccontato nel Vangelo di Matteo non è, pertanto, riscontrabile alcun “seme di una rivoluzione” e “conversione” di Gesù Cristo, come, invece, frettolosamente sostenuto da Padre Antonio Spadaro.


86) Ancora sull'incontro di Gesù con la Cananea


        Nel precedente scritto ho proposto una mia personale lettura delle dure frasi pronunciate da Gesù nei confronti della donna cananea, nel senso di ritenerle rivolte a solo titolo provocatorio e, quindi, non corrispondenti al suo reale pensiero.

      A miglior chiarimento di quanto come sopra sostenuto, ritengo di indicare, sia pure sinteticamente, su quali argomentazioni si basano le suddette mie conclusioni.

     1.Dio Padre ha mandato Suo Figlio nel mondo dando, a tutti quelli che lo avessero accolto e creduto nel suo nome, il potere di diventare figli di Dio, senza  limitazioni di alcun genere: la Sua infinita misericordia risulta, quindi, condizionata solo a chi lo accoglie ed ha fede in Lui.

     2.Gesù Cristo era perfettamente a conoscenza di tale mandato, sin dalla Sua adolescenza: deve, pertanto, ritenersi davvero inverosimile che possa essere caduto in errore, sia pure inizialmente, qualificandosi mandato solo “alle pecore perdute della casa d’Israele”, contravvenendo, comunque, al disegno divino, stravolgendone i contenuti.

    3.L’invito rivolto da Gesù agli apostoli: “non andate fra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani; rivolgetevi piuttosto alle pecore perdute della casa d’Israele” (Mt 10, 5-6), non deve, comunque, essere inteso come un divieto ma “piuttosto” un consiglio a non intrattenersi con i pagani, in quanto “duri di cervice” e, pertanto, refrattari ad accogliere l’annuncio evangelico. Il seme, comunque, va sparso anche sui sassi, anche se con discutibili frutti: d’altra parte lo stesso Gesù, proprio nell’episodio in oggetto, è in viaggio verso i territori di Tiro e Sidòne, notoriamente abitate da pagani.

     4.Ritornando alla supplica della donna cananea – presumibilmente pagana e rinnegatrice di Gesù Cristo come tutti i componenti della sua comunità di appartenenza, ancorché si fosse a Lui rivolta chiamandolo Figlio di Davide -  va notato che se Gesù l’avesse subito accolta sarebbe andato incontro a facili critiche per averle usato misericordia, pur in assenza delle condizioni come sopra ricordate al precedente n. 1.

      5.Ma Gesù, profondo conoscitore dell’animo umano, ben conosceva i veri sentimenti della cananea e la sua fede evidentemente non ancora dichiarata: pertanto, al fine di rendere pubblica tale situazione che gli consentisse, senza facili scandali, di operare il miracolo richiesto, rivolge a lei quelle frasi provocatorie ed offensive alle quali prontamente la donna cananea risponde in termini (che è facile ipotizzare ispirati, come la sua imnsistenza, dallo stesso Gesù) che consentono a Gesù di svelare pubblicamente la sua “grande fede” e, così, assecondare la richiesta di guarigione della di lei figlia; sull’episodio, il vangelo di Marco è più esplicito: alla risposta della cananea, Gesù le rispose: “per questa tua parola va, il demonio è uscito da tua figlia” (Mc. 7, 29).

        6.Così ricostruiti i fatti, il miracolo di Gesù concesso alla cananea rientra, per così dire, nella norma di ogni altro suo intervento miracoloso, né sono, quindi, ravvisabili aspetti particolari (conversione, guarigione di Gesù o semi di rivoluzione) che, tra l’altro, qualora sussistenti, non sarebbero sfuggiti all’attenta osservazione dell’evangelista Giovanni, tanto che, per l’evidente sua irrilevanza, quest’ultimo ha ritenuto di non citare affatto l’episodio in questione.

       

           Ritengo, comunque, chiarire che ciò che mi ha spinto a scrivere sull’argomento è stato il fatto che, come modesto operaio nella vigna del Signore ed innamorato di Gesù, mi ha profondamente ferito che un esponente della Chiesa Cattolica abbia potuto impunemente denigrare la Sua figura qualificandolo, in un recente articolo, “indifferente, duro, senza misericordia”, manifestando una “caduta di stile, umanità, accecato dal nazionalismo e dal rigorismo religioso” per, poi, “guarire” per le parole di una pagana cananea che “sono tali da sconvolgere la rigidità di Gesù, da confonderlo e da convertirlo a sé”. “Gesù – così conclude l’autore dell’articolo – appare libero della rigidità dagli elementi teologici, politici e culturali……qui c’è il seme di una rivoluzione”.

                Per concludere, un’amara riflessione: può risultare comodo, sia pure inconsapevolmente, considerare Gesù sotto l’aspetto di vero uomo e che, pertanto, alla stregua di ogni altro essere umano, possa cadere anche Lui nel peccato o nell’errore, contravvenendo alla volontà del Padre per, poi, ravvedendosi, convertendosi, guarendosi e, con un’interna rivoluzione, tornare sui propri passi verso la casa del Padre, come indicato nella nota parabola. Ma, per nostra fortuna, non è questo il vero Gesù, come potrebbe “apparire” dalle affermazioni espresse nell’articolo su richiamato che, sulla base dell’ipotesi qui avanzata, risulterebbero prive  d’ogni fondamento.

       

         Per concludere, un’amara riflessione: può risultare comodo, sia pure inconsapevolmente, considerare Gesù sotto l’aspetto di vero uomo e che, pertanto, alla stregua di ogni altro essere umano, possa cadere anche Lui nel peccato o nell’errore, contravvenendo alla volontà del Padre per, poi, ravvedendosi, convertendosi, guarendosi e, con un’interna rivoluzione, tornare sui propri passi verso la casa del Padre, come indicato nella nota parabola. Ma, per nostra fortuna, non è questo il vero Gesù che di sé ha detto: “io sono la verità”……..universale ed immutabile.

 

 

 

 87) Dubbia apertura alla benedizione delle coppie "irregolari"

         

Con riferimento alla recente Dichiarazione “Fiducia supplicans” del Dicastero per la dottrina della fede del 23.12.2023, approvata da Papa Francesco, in tema della benedizione delle coppie di omosessuali e di divorziati risposati, è preliminarmente opportuno fare riferimento ai precedenti documenti ufficiali della Chiesa cattolica che hanno trattato di tale argomento.

      Nel testo dell’Esortazione apostolica Sacramentum caritatis del 22.02.2007, sottoscritto da Papa Benedetto XVI, a proposito dei divorziati risposati, dopo aver affermato che , “la Chiesa incoraggia questi fedeli a impegnarsi a vivere la loro relazione secondo le esigenze della legge di Dio, come amici, come fratello e sorella; così potranno riaccostarsi alla mensa eucaristica, con le attenzioni previste dalla provata prassi ecclesiale e che tale cammino, perché sia possibile e porti frutti, deve essere sostenuto dall’aiuto dei pastori e da adeguate iniziative ecclesiali”, questi ultimi  vengono esplicitamente invitati ad “evitare, in ogni caso, di benedire queste relazioni, perché tra i fedeli non sorgano confusioni circa il valore del Matrimonio”.

       Nel “Responsum della Congregazione per la dottrina della fede ad un dubium circa la benedizione delle unioni di persone dello stesso sesso del 15.03.2021” si sostiene, con l’esplicita approvazione di Papa Francesco, che  “quando si invoca una benedizione su alcune relazioni umane occorre – oltre alla retta intenzione di coloro che ne partecipano – che ciò che viene benedetto sia oggettivamente e positivamente ordinato a ricevere e ad esprimere la grazia, in funzione dei disegni di Dio iscritti nella Creazione e pienamente rivelati da Cristo Signore. Sono quindi compatibili con l’essenza della benedizione impartita dalla Chiesa solo quelle realtà che sono di per sé ordinate a servire quei disegni.

        Per i suddetti motivi, la Chiesa non dispone, né può disporre, del potere di benedire unioni di persone dello stesso sesso nel senso sopra inteso”.

        Nello stesso documento su richiamato, viene, anche aggiunta la seguente precisazione: “La risposta al dubium proposto non esclude che vengano impartite benedizioni a singole persone con inclinazione omosessuale, le quali manifestino la volontà di vivere in fedeltà ai disegni rivelati di Dio così come proposti dall’insegnamento ecclesiale, ma dichiara illecita ogni forma di benedizione che tenda a riconoscere le loro unioni. In questo caso, infatti, la benedizione manifesterebbe l’intenzione non di affidare alla protezione e all’aiuto di Dio alcune singole persone, nel senso di cui sopra, ma di approvare e incoraggiare una scelta ed una prassi di vita che non possono essere riconosciute come oggettivamente ordinate ai disegni rivelati di Dio.

        Nel contempo, la Chiesa rammenta che Dio stesso non smette di benedire ciascuno dei suoi figli pellegrinanti in questo mondo, perché per Lui siamo più importanti di tutti i peccati che noi possiamo fare. Ma non benedice né può benedire il peccato: benedice l’uomo peccatore, affinché riconosca di essere parte del suo disegno d’amore e si lasci cambiare da Lui. Egli infatti ci prende come siamo, ma non ci lascia mai come siamo”.

       

Con la recentissima Dichiarazione “Fiducia supplicans” del 18.12.2023, esplicitamente approvata da Papa Francesco, viene preliminarmente  chiarito che lo scopo del documento in questione “è quello di offrire un contributo specifico e innovativo al significato pastorale delle benedizioni, che permette di ampliarne e arricchirne la comprensione classica strettamente legata a una prospettiva liturgica”  che renda, invece, “inammissibili riti e preghiere che possano creare confusione tra ciò che è costitutivo del matrimonio, quale unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta a generare figli,  e ciò che lo contraddice. Questa convinzione è fondata sulla perenne dottrina cattolica del matrimonio. Per questo motivo, a proposito delle benedizioni, la Chiesa ha il diritto e il dovere di evitare qualsiasi tipo di rito che possa contraddire questa convinzione o portare a qualche confusione. Tale è anche il senso del Responsum dell’allora Congregazione per la Dottrina della Fede laddove afferma che la Chiesa non ha il potere di impartire la benedizione ad unioni fra persone dello stesso sesso”.

        Con un ragionamento di obbiettiva  non facile comprensione, la Dichiarazione in questione, suggerendo una visione non più liturgica, ma pastorale della benedizione, testualmente afferma che  “tale riflessione teologica, basata sulla visione pastorale di Papa Francesco, implica un vero sviluppo rispetto a quanto è stato detto sulle benedizioni nel Magistero e nei testi ufficiali della Chiesa” pervenendo, così, alla conclusione che “proprio in tale contesto  si può comprendere la possibilità di benedire le coppie in situazioni irregolari e le coppie dello stesso sesso, senza convalidare ufficialmente il loro status o modificare in alcun modo l’insegnamento perenne della Chiesa sul matrimonio”, in evidente contrasto con le precedenti affermazioni.

       La possibilità di benedire le coppie in situazioni irregolari, così come presentata nella suddetta Dichiarazione, è stata accolta da più parti come autentica rivoluzione, ma un’attenta lettura del testo sembra offrire una contraria conclusione.

       In tale documento si legge, infatti, che “nelle benedizioni di coppie in situazioni irregolari e di coppie dello stesso sesso si impartisce una benedizione che non solo ha valore ascendente ma che è anche l’invocazione di una benedizione discendente da parte di Dio stesso su coloro che, riconoscendosi indigenti e bisognosi del suo aiuto, non rivendicano la legittimazione di un proprio status, ma mendicano che tutto ciò che di vero di buono e di umanamente valido è presente nella loro vita e relazioni, sia investito, sanato ed elevato dalla presenza dello Spirito Santo.Queste forme di benedizione esprimono una supplica a Dio perché conceda quegli aiuti che provengono dagli impulsi del suo Spirito – che la teologia classica chiama “grazie attuali” – affinché le umane relazioni possano maturare e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo, liberarsi dalle loro imperfezioni e fragilità ed esprimersi nella dimensione sempre più grande dell’amore divino……... Nella breve preghiera che può precedere questa benedizione spontanea, il ministro ordinato potrebbe chiedere per costoro la pace, la salute, uno spirito di pazienza, dialogo ed aiuto vicendevole, ma anche la luce e la forza di Dio per poter compiere pienamente la sua volontà”.

       Con tali affermazioni si  dà, infatti, per scontato, nei richiedenti, la sussistenza di un atteggiamento - consapevolezza dell’irregolarità del proprio stato, assoluta assenza di richiesta di legittimazione dello stesso, riconoscimento della propria indigenza e richiesta di aiuto a Dio per liberarsi delle proprie imperfezioni e crescere nella fedeltà al messaggio del Vangelo – tutti elementi che, nel “Responsum” su citato, venivano indicati come  valido atteggiamento per conseguire una benedizione, in deroga al divieto  a carattere generale come sopra fatto presente.

       E’ evidente che presumere la sussistenza della suddetta particolare predisposizione d’animo, da parte dei richiedenti, non fa altro che ribadire implicitamente la sua necessità al fine di ottenere la benedizione richiesta, anche se quanto sopra riportato non ha formato oggetto di particolare attenzione, perché del tutto dimenticato.

       Per concludere, nulla è cambiato sull’argomento in oggetto rispetto alle precedenti determinazioni, tranne l’insorgere di un evidente equivoco che può solo alimentare confusione e dannosi disorientamenti.


Ho sempre seguito in televisione, il sabato pomeriggio, la trasmissione “A sua immagine”, programma religioso a sfondo cattolico nato dalla collaborazione tra la Rai e la Conferenza Episcopale Italiana che contiene, al suo interno, uno spazio di circa mezz’ora, dedicato, sin dall’inizio della sua programmazione, alla lettura e commento del Vangelo della successiva domenica, affidato alle riflessioni sempre molto apprezzate di valenti sacerdoti che si sono, a turno, succeduti: purtroppo, ormai è da molto tempo, che il suddetto spazio risulta di fatto soppresso e sostituito da interviste a sempre diversi personaggi nei campi più vari (dallo sport al cinema, alla musica, al teatro, alla medicina, alle scienze) mettendone in evidenza, se del caso, le loro opere buone a favore dei più bisognosi per un disinteressato spirito di fratellanza verso l’altro, innato o subentrato in un secondo momento ma, comunque, avulso da determinanti motivazioni d’ordine religioso.

Indice

Brevi  note autobiografiche                                         

Introduzione 

Premessa: alla riconquista del paradiso perduto perduto

1).Eclissi dei valori cristiani 

2).La via dell’amore

3).Creazione ed evoluzione(a)

4).L’uomo e gli altri animali: coscienza ed autocoscienza(b)

5).L’esistenza dell’anima e la comparsa dell’uomo sulla terra (c)

6).La verità

7).L’apparenza

8).Un Crocifisso che fa paura

9). Avvento: perché credere  in Gesù Cristo, Figlio di Dio?

10). Una cripta tutta oro e luce

11).Stato e Chiesa: indebita ingerenza della Chiesa nella politica italiana?

12).Il dialogo tra ebrei e cristiani

13).Misticismo: via privilegiata dell’amore di Dio 

14).Il bene ed il male: la sofferenza e l’incontro con il Signore

15).La Passione di Cristo

16).Il diavolo e le sue azioni

17).La Sacra Sindone: prova della Resurrezione di Gesù ?

18).La venuta intermedia di Gesù, annunciata dalla Madonna

19). L’Eucarestia  

20).Fede e Ragione

21). Dio è amore e vuole essere amato

22). La Santissima Trinità 

23). Come si prega

24).La ricchezza iniqua

25).La sofferenza degli animali  e la loro presenza in paradiso

26).La zizzania, ovvero le false dottrine

27).Sessualità

28).Eclissi d’amore

29).Cristiani perseguitati

30).Nicola, il mistico barbone

31).Diritto alla privacy e morale cattolica

32).Gethemani

33). Gesù e il divorzio

34). La Madre di Dio e le Sue apparizioni

35) Resurrezione

36).Il perdono

37). L’umiltà

38).Il sangue di Cristo

39). Ragionevolezza della fede cristiana

40).Crisi finanziaria: schiavi del denaro

41).Il nome di Dio

42).Gesù di Nazaret di Benedetto XVI

43).Speculazione finanziaria e crisi dell’eurozona

44).Blitz a Cortina: demonizzare la ricchezza?


fedepell.it pag.2

45).Il sacerdozio

46).La vita

47).La povertà

48).Il peccato

49). Il Dio creatore nelle tre religioni monoteiste

50). La corruzione

51).La speranza

52). Testimonianza

53). La tolleranza

54). La vita eterna

55). Papa Francesco scrive a Repubblica 

56). Possono il bene ed il male definirsi tali come ciascuno li concepisce?

57). La precisazione di Padre Lombardi che accresce la confusione

58) . Vladimir Sergeevic Solovev: un profeta inascoltato

59). Reincarnazione

60). Lo scandalo della gioia cristiana

61). La sacra Sindone

62). Amore ed amicizia nel Vangelo di Giovanni

63). Lo Spirito Santo

64). Papa Francesco raccontato da Antonio Socci

65). Il dogma dell’Immacolata Concezione

66). I dieci comandamenti secondo Roberto Benigni

67). I poveri in spirito

68). La Sindone raccontata da Paolo Mieli

69). Cosa vide Giovanni nel sepolcro vuoto

70). Giustizia e misericordia

71). L’incontro di Gesù con il giovane ricco

72).Brevi riflessioni sul discorso della montagna

73). Giubileo straordinario della misericordia

74). L’autunno della vita

75). “Virus, il contagio delle idee”: migranti e Vangelo

76) “Madonna delle grazie”: racconto di una disavventura personale a lieto fine

77) Macchie di sangue anomale sulla Sindone: prova della sua falsità? 

78) Perché saranno cambiate le parole del Padre nostro e del Gloria

79) Dove andremo?

80)A sua immagine

81)Papa Francesco e l’Islam

82)Evangelizzazione, proselitismo, irenismo

83)Cristiani, musulmani ed ebrei uniti nella preghiera?   

84)Il miracolo della sacra Sindone           

85)Gesù Cristo convertito da una pagana?

86)Ancora sull'incontro di Gesù con la cananea

87)Dubbia apertura alle benedizioni di coppie "irregolari"


 www.fedepell.it  pag. 3  - solo con modalità cellulare

88)Come proseguirà e come finirà il Sinodo 2024?

89)"Ma io vi dico di non opporvi al malvagio" (Mt.4,39)

90)L'inizio dell'Universo e la Sacra Sindone     

91)Un'ulteriore riflessione sulla formazione dell'immagine sindonica

62) Amore ed amicizia nel vangelo di Giovanni