Introduzione

"Il carro oltre passò d’erba ripieno e ancor ne odora la silvestre via, sii anche tu come quel fieno, lascia di te buona memoria, anima mia". Questi versi non miei – del resto di tutti i pensieri sparsi qui raccolti alla rinfusa, di mio c’è solo lo sforzo di rinverdire il ricordo di quanto ho letto in diversi anni alla ricerca della Verità – vennero da me trascritti in un pomeriggio di maggio del 1962, quando, non ancora trentenne, mi fu rivolto l’invito dalla persona che poi doveva diventare la compagna della mia vita, di riempire una pagina del suo diario: seguiva una riflessione o, meglio, un auspicio che, per fortuna di entrambi, risulta tuttora realizzato. Ritengo che gli stessi versi possano costituire una valida introduzione a questa mia raccolta che ha l’unico scopo di costituire per me stesso un ulteriore motivo di riflessione, nella speranza che il mio “carro” possa lasciare un buon ricordo, sia pure simile all’odore effimero di “quel fieno”, destinato ad essere subito spazzato via dalla prima brezza leggera. A Mirella che mi segue con immutato affetto e paziente comprensione, nonostante il mio procedere tra mille sobbalzi, frenate improvvise, inaspettati mutamenti di rotta, ai quali, negli ultimi anni, si è dovuta abituare, oserei dire, con cristiana rassegnazione, dedico questi miei pensieri con l’amore di sempre, unitamente ad un recondito desiderio di ritrovarci a percorrere insieme lo stesso cammino di speranza, nella Verità.

Note autobiografiche

Sono nato a Bari nel 1934  e qui risiedo, dopo aver trascorso circa 50 anni a Roma: sposato, ho una figlia, anche lei sposata. Avvocato, dal 1963 presso la Banca d’Italia e, successivamente, presso l’Ufficio Italiano dei Cambi fino al 1999: gli ultimi cinque anni di servizio li ho trascorsi, a seguito di divergenze di opinioni con i vertici dell’Istituto, in assoluto isolamento. In tale periodo di forzata inattività, ho cercato di utilizzare il mio tempo libero nell’approfondimento delle Sacre Scritture, formulando, di tanto in tanto, alcuni appunti e riflessioni che, in seguito, ho raccolto ed ora sto pubblicando periodicamente. Ministro straordinario della comunione, ho partecipato, come missionario laico, nel 1999, alla missione cittadina in Roma, indetta da Papa Giovanni Paolo II, visitando diverse centinaia di famiglie della mia Parrocchia.  Non essendo un teologo, non ho alcuna presunzione, di poter insegnare niente a nessuno, ma, come credente e modesto operaio nella vigna del Signore, sento la vocazione di partecipare, a quanti avranno l’occasione di leggermi, i motivi della mia fede, convinto che ogni credente possa e debba rendersi testimone e profeta verso il suo prossimo.

Premessa: alla riconquista del paradiso perduto

Mi piace premettere alle mie riflessioni il ricordo di quanto avvenne una sera di marzo del 1989, in una chiesetta all’Aventino che settimanalmente avevo da poco cominciato a frequentare su indicazione di un amico ove, ogni martedì, si riuniva un gruppo di preghiera condotto da un francescano. Quelle due o tre ore settimanali costituivano per me un piacevole diversivo alla monotonia quotidiana: una predicazione semplice, unita alla recita del S. Rosario ed alla celebrazione della S. Messa, animata da un coro giovanile, infondevano nel mio animo una pace ed una tranquillità che rinverdivano lontani ricordi d’infanzia, quando, in un paesino della provincia di Bari ove risiedevo con la mia famiglia nel periodo bellico, accompagnavo mia madre alla locale chiesa parrocchiale per le celebrazioni vespertine; il tutto, però, si esauriva in una parentesi che rimaneva chiusa in sé stessa e non si rifletteva minimamente sul resto delle mie giornate, tranne gli iniziali sospetti di una moglie gelosa che non accettava la motivazione delle mie assenze serali (sospetti subito fugati da un apposito personale sopralluogo). Ma quella sera doveva accadere qualcosa di nuovo: avevo trascorso una giornata particolarmente agitata in ufficio ove avevo subito le intemperanze verbali del mio diretto superiore, in presenza di altri colleghi e, non avendo alcuna intenzione di accettare e dimenticare quanto accaduto, ero animato, se non da sentimenti di vero odio verso quella persona, da un forte risentimento che alimentava in me desideri di immediata vendetta e ritorsione da realizzarsi fin dal giorno dopo. Prima di entrare in chiesa avevo fatto partecipe il mio amico del mio stato d’animo e dei miei fieri propositi vendicativi, con un linguaggio molto vivace. Quella sera il francescano – che non conoscevo affatto- si soffermò in maniera particolare sul significato del perdono cristiano, ipotizzando, a titolo di esempio, una situazione molto simile a quella che avevo vissuto solo poche ore prima: ma i dettagli che man mano aggiungeva nella descrizione dello stato d’animo del soggetto ipotizzato, con termini e frasi pressoché identici a quelli da me usati poco prima, mi portarono a convincermi che quel discorso era diretto a me in modo del tutto particolare. Il rimedio suggerito non coincideva minimamente con quanto da me progettato: avrei dovuto, infatti, presentarmi l’indomani da quella persona con un bel sorriso sulle labbra e fargli intendere che quanto era successo era stato da me del tutto dimenticato: il resto sarebbe venuto da sé. Rimasi, sul momento, sconcertato ma, dopo una notte insonne, mi decisi a provare. Ancora oggi mi ricordo lo stupore del mio interlocutore – tra noi due i rapporti erano fin troppo tesi, a prescindere dall’episodio del giorno precedente – nel vedermi innanzi a lui sfoderare un ebete sorriso che cercavo di giustificare soprattutto a me stesso adducendo ad esclusivo motivo della mia visita mattutina la circostanza, del tutto fortunosa, del conseguimento della laurea in giurisprudenza da parte di suo figlio maggiore, avvenuta appunto il giorno prima. Tralascio altri particolari che mi convinsero ancora di più della bontà del suggerimento ricevuto la sera precedente: sta di fatto che da quel giorno i rapporti cambiarono radicalmente. Mi resta solo il rammarico di non aver avuto l’occasione, per cause a me non imputabili, di partecipare quanto mi era accaduto al mio interlocutore che era stato l’inconsapevole mezzo della mia interna rivoluzione. Infatti quell’episodio apparentemente irrilevante – il tutto poteva benissimo essere logicamente inquadrato nell’ambito di una mera coincidenza, senza peraltro considerare che la fonte del suggerimento da me seguito poteva facilmente identificarsi in norme di comportamento ispirate da principi non necessariamente cristiani – costituì per me la rivelazione di una Presenza che veniva prepotentemente a complicare la mia vita. Il Signore percorre vie davvero imprevedibili ed imperscrutabili; così, a volte, preferisce rivelarsi con episodi, per i più, oggettivamente insignificanti, piuttosto che con segni clamorosi ed inequivocabili che potrebbero, forse, mettere in dubbio la nostra libertà di scelta, di cui Egli è sempre amorevolmente rispettoso. Venivo da una famiglia molto religiosa e, fino ad allora, ritenevo di aver sempre correttamente osservato i precetti cristiani, sicché la mia vita procedeva, sotto questo aspetto, in maniera tranquilla; ma quell’evento ebbe su di me l’effetto di farmi rendere conto della spaventosa aridità del mio cristianesimo: ero nella carne e vivevo secondo la carne, ero sulla terra e della terra ero cittadino, obbedivo alla legge, ma con la mia vita non superavo la legge, non ero povero e non arricchivo nessuno: capii subito che la mia barca era profondamente incagliata in acque stagnanti, per esser sempre rimasta solidamente ancorata e legata alla terra ferma con funi robuste e che, se anche avevo dato la mia formale adesione a Cristo, costui, nella mia barca, non era niente di più che uno sconosciuto fantasma. Mi resi conto del tempo perduto e – vedendomi avvolto da una fitta nebbia che mi procurava un increscioso disorientamento, nella consapevolezza di essere rimasto fino ad allora privo di qualcosa che non avevo convenientemente approfondito – credetti di risolvere il problema, cercando di colmare le mie lacune nel campo meramente conoscitivo, abbandonandomi alla lettura disordinata degli autori più disparati: S. Agostino, S. Tommaso d’Aquino, Pascal, S. Giovanni della Croce, S. Teresa di Lisieux, Guardini, senza tralasciare autori non cristiani come Seneca, Plotino, unitamente a Karl Barth, Buber e tanti altri che andavano a costituire una sezione specializzata della mia modesta biblioteca. Alla fine di un’affannosa e sterile ricerca doveva, invece, intervenire in maniera del tutto particolare una spontanea, intuitiva ed intima consapevolezza che per la riconquista di quanto sentivo di aver sperso, per fortuna non irreparabilmente, a nulla serviva la ricerca intrapresa, dato che il massimo di conoscenza che l’uomo può raggiungere in tema di cose divine consiste appunto nel capire il perché non le potrà mai capire. “Non cerco di capire per credere, ma credo per poter capire”. E’ in questa prospettiva, razionalmente inaccettabile, che mi piace riconsiderare quanto ho letto, limitatamente agli argomenti che mi vengono alla mente in maniera del tutto estemporanea, senza alcuna pretesa di organicità, completezza ed originalità; resto, comunque, sempre convinto della validità dell’insegnamento di Giovanni Paolo II, secondo cui (Enc:. “Fides et ratio”) “la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”.

1. Eclissi dei valori cristiani

L’uso, sempre più generalizzato, dei telefonini e videotelefonini e, soprattutto, di internet ha indubbiamente prodotto un profondo cambiamento nelle modalità di comunicare tra le persone, soprattutto tra i giovani. Se è vero che un uso appropriato e corretto di tali potenti nuovi mezzi tecnologici può favorire una maggiore e fruttuosa comunicazione tra i soggetti, non va sottaciuto che, a volte, un loro uso abnorme, soprattutto nel campo dei rapporti c.d. “virtuali”, può sortire l’effetto contrario, depersonalizzando e disumanizzando il rapporto interpersonale, creando nuove problematiche anche nel campo della morale: così, con riferimento a prestazioni effettuate con poco scrupolo da parte di ragazze “bene”, consistenti nell’offerta a pagamento di immagini del proprio corpo ad ignoti spettatori, tramite l’intermediazione di soggetti altrettanto privi d’ogni principio morale, al fine di procurarsi i mezzi finanziari per soddisfare i propri sempre crescenti desideri, si è sentito rispondere, in un’intervista televisiva, da parte di una ragazza dedita a tale “attività”, di essere a posto con la propria coscienza, dato che non riteneva di fare alcun male perché, appunto, il “rapporto” con l’ignoto spettatore era solo “virtuale”. Di fronte a tali episodi, sarebbe semplicistico riversare la colpa della caduta verticale dei valori cristiani esclusivamente sull’evoluzione intervenuta nei mezzi di comunicazione: è evidente, infatti, la mancanza di un valido insegnamento e controllo che dovrebbe realizzarsi principalmente nell’ambito di una famiglia che la stessa Costituzione italiana riconosce come “società naturale fondata sul matrimonio”: purtroppo anche tale “valore” attraversa una crisi profonda e costituisce una delle cause di tutti i guai sopra citati. Quale atteggiamento seguire, allora, per recuperare i valori cristiani che vanno sempre più affievolendosi e quali sono, soprattutto, i pericoli maggiori? Per quanto concerne i pericoli che insidiano il mondo cristiano, il Cardinale Giacomo Biffi, nella nota pastorale “Christus hodie” del settembre 1995 (sempre di attualità), ebbe così a sintetizzarli: “ I discepoli di Gesù – stanchi del pesante onere della testimonianza al Crocifisso risorto che viene loro affidata nel battesimo – ridotti a parlare di pace, di solidarietà, di amore per gli animali, di difesa della natura; il messaggio evangelico identificato nella ricerca del benessere e del progresso; la Chiesa del Dio vivente, colonna e fondamento della verità, scambiata per un’organizzazione benefica, estetica, socializzatrice: questa è l’insidia mortale che oggi va profilandosi per la famiglia dei redenti dal sangue di Cristo. Ovviamente non si tratta di colpevolizzare o ritenere inutile l’attenzione ai “valori”: valori, beninteso, visti non come consecutivi (che sarebbe giusto) ma come sostitutivi dell’adesione alla persona di Cristo e al suo mistero salvifico. Solidarietà, pace, natura, dialogo possono diventare nel non cristiano le occasioni concrete di un approccio iniziale ed informale a Cristo e al suo mistero: e anche nel cristiano questi stessi valori possono offrire preziosi impulsi all’inveramento di una totale e appassionata adesione a Gesù, Signore dell’universo e della storia. Ma se il cristiano, per amore di apertura al mondo e di buon vicinato con tutti, quasi senza avvedersene, stempera sostanzialmente il fatto salvifico nell’esaltazione e nel conseguimento di questi traguardi secondari, allora egli si preclude la connessione personale col Figlio di Dio crocifisso e risorto, e consuma a poco a poco il peccato di apostasia”. E’, pertanto, l’offuscamento, da parte anche dei credenti, del radicamento di quei valori nella persona di Cristo che fa perdere la loro connotazione di “cristiani”, tanto da poter parlare di una loro vera e propria eclissi, rimanendo privi di un valido sostegno, senza una necessaria e forte motivazione che solo una convinta fede religiosa può fornire. E’, allora, innanzi tutto, necessaria una “nuova evangelizzazione”: come affermato da Giovanni Paolo II (nell’enc. Veritatis splendor) “l’evangelizzazione è la sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare sin dalla sua origine…..Il momento però che stiamo vivendo è quello di una formidabile provocazione alla nuova evangelizzazione, ossia all’annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità, un’evangelizzazione che dev’essere nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione….La scristianizzazione comporta non solo la perdita della fede o comunque la sua insignificanza per la vita, ma anche, e necessariamente, un declino o un oscuramento del senso morale: e questo sia per il dissolversi della consapevolezza dell’originalità della morale evangelica, sia per l’eclissi degli stessi principi e valori etici fondamentali. La nuova evangelizzazione comporta anche l’annuncio e la proposta morale…..Pietro, con gli altri Apostoli, annunciando la risurrezione di Gesù dai morti, propone una vita nuova da vivere, una via da seguire per essere discepoli del Risorto”. Una nuova evangelizzazione, con la riproposta dei fondamenti e dei contenuti della morale cristiana potrà, però, manifestare la sua autenticità se attuata non solo attraverso la parola annunciata, ma anche e soprattutto da quella vissuta. Di fronte alle gravi forme di ingiustizia sociale ed economica e di corruzione politica, cresce, infatti, l’indignata reazione di moltissime persone calpestate ed umiliate nei loro fondamentali diritti umani e si fa sempre più diffuso e acuto il bisogno di un radicale rinnovamento personale e sociale capace di assicurare giustizia, solidarietà, onestà, trasparenza. Una valida evangelizzazione deve essere, quindi, supportata da una coerente e coraggiosa, anche se a volte difficile, testimonianza da parte dei cristiani: “ se il martirio rappresenta il vertice della testimonianza alla verità morale (enc. Veritatis splendor), a cui relativamente pochi possono essere chiamati, vi è nondimeno una coerente testimonianza che tutti i cristiani devono essere pronti a dare ogni giorno anche a costo di sofferenze e sacrifici. Infatti di fronte alle molteplici difficoltà che anche nelle circostanze più ordinarie la fedeltà all’ordine morale può esigere, il cristiano è chiamato, con la grazia di Dio invocata nella preghiera, ad un impegno talvolta eroico, sostenuto dalla virtù della fortezza, mediante la quale, come insegna san Gregorio Magno, egli può perfino amare le difficoltà di questo mondo in vista del premio eterno”. L’indispensabile recupero dei valori morali cristiani potrà, quindi, realizzarsi con una nuova evangelizzazione coerentemente testimoniata, unitamente ad una ferma condanna di tutte le forme di diffusa immoralità, anche a costo di perdere consensi, senza alcuna paura di diventare “piccolo gregge”; senza dimenticare che lo stesso Gesù ha, con violenza, scacciato i profanatori del Tempio; che lo stesso Gesù ha detto: “ non sono venuto a portare pace, ma una spada”….ed, inoltre, “guai al mondo per gli scandali! E’ inevitabile che avvengano scandali, ma guai all’uomo per colpa del quale avviene lo scandalo!”….”guai a voi ipocriti”…..”guai a voi, ricchi, perché avete già la vostra consolazione”…….”sforzatevi di entrare per la porta stretta (che conduce alla salvezza), perché molti, vi dico, cercheranno di entrarvi, ma non ci riusciranno”. Le verità morali, infatti, non possono né nascondersi né indebolirsi; purtroppo, come efficacemente affermato da Giovanni Paolo II (v. enc. “veritatis splendor”) “la dottrina della Chiesa e in particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi è giudicata non poche volte come il segno di un’intransigenza intollerabile: un’intransigenza che contrasterebbe col senso materno della Chiesa. Questa , si dice, manca di comprensione e di compassione. Ma, in realtà, la maternità della Chiesa non può mai essere separata dalla sua missione di insegnamento, che essa deve compiere sempre come Sposa fedele di Cristo, la Verità in persona: come Maestra, essa non si stanca di proclamare la norma morale….Di tale norma la Chiesa non è affatto né l’autrice né l’arbitra. In obbedienza alla verità, che è Cristo, la cui immagine si riflette nella natura e nella dignità della persona umana, la Chiesa interpreta la norma morale e la propone a tutti gli uomini di buona volontà, senza nascondere le esigenze di radicalità e di perfezione”.

L’uomo , per sua natura, ha sempre desiderato conoscere, sapere tutto, rendersi conto della realtà che lo circonda, in altre parole è sempre stato alla ricerca della verità: con il progresso scientifico ed il conseguente accrescimento delle proprie conoscenze in tutti i campi, l’uomo ha sempre più ridotto i margini di ciò che gli era ignoto, pervenendo, a poco a poco, alla convinzione che, prima o dopo, riuscirà a scoprire tutto ciò che ancora non è oggetto di conoscenza, ivi compresi i grandi interrogativi sull’inizio del mondo e, quindi, sul significato della propria esistenza. In questo vero e proprio delirio di onnipotenza, dettato da una incondizionata presunzione sui propri mezzi, l’uomo è inevitabilmente portato a rivendicare a sé stesso la propria libertà nella ricerca della verità, in ogni campo e, quindi, anche nel campo della morale, sicché la stessa coscienza che, correttamente va individuata come la facoltà attribuita ad ognuno di noi di verificare se i nostri comportamenti si adeguino, o meno, a principi etici la cui fonte va cercata, comunque, al di fuori di noi stessi, diventa, invece, essa stessa la fonte di quei principi. Si perviene, così, all’esaltazione della libertà al punto da farne un assoluto, che diventa la sorgente dei valori: “si sono attribuite alla coscienza individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male. All’affermazione del dovere di seguire la propria coscienza si è indebitamente aggiunta l’affermazione che il giudizio morale è vero per il fatto stesso che proviene dalla coscienza. Ma, in tal modo, l’ imprescindibile esigenza di verità è scomparsa, in favore di un criterio di sincerità, di autenticità, di accordo con se stessi. Tanto che si è giunti ad una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale….tale visione fa tutt’uno con un’etica individualista, per la quale ciascuno si trova confrontato con la sua verità, differente dalla verità degli altri”. (dall’enc. Veritatis splendor di Giovanni Paolo II). “In questa concezione della libertà, la convivenza sociale viene profondamente deformata. Se la promozione del proprio io è intesa in termini di autonomia assoluta, inevitabilmente si giunge alla negazione dell’altro, sentito come un nemico da cui difendersi. In questo modo la società diventa un insieme di individui posti l’uno accanto all’altro, ma senza legami reciproci: ciascuno vuole affermarsi indipendentemente dall’altro, anzi vuol far prevalere i suoi interessi. Tuttavia, di fronte ad analoghi interessi dell’altro, ci si deve arrendere a cercare qualche forma di compromesso, se si vuole che nella società sia garantito a ciascuno il massimo di libertà possibile. Viene meno così ogni riferimento a valori comuni e a una verità assoluta per tutti: la vita sociale si avventura nelle sabbie mobili di un relativismo totale: allora tutto è convenzionabile, tutto è negoziabile…..ma questa è la morte della vera libertà”. Respinta, così, l’idea di una verità assoluta e trascendente, “l’eclissi del senso di Dio conduce inevitabilmente al materialismo pratico, nel quale proliferano l’individualismo, l’utilitarismo e l’edonismo…..l’unico fine che conta è il perseguimento del proprio benessere materiale; la cosiddetta qualità di vita è interpretata in modo prevalente o esclusivo come efficienza economica, consumismo disordinato, bellezza e godibilità della vita fisica, dimenticando le dimensioni più profonde – relazionali, spirituali e religiose – dell’esistenza……il criterio proprio della dignità personale – quello cioè del rispetto, della gratuità e del servizio – viene sostituito dal criterio dell’efficienza, della funzionalità e dell’utilità: l’altro è apprezzato non per quello che è, ma per quello che ha, fa e rende” (Enc. Evangelium vitae, di Giovanni Paolo II). In un simile contesto, si assiste ad un progressivo affievolimento, se non ad un ribaltamento delle virtù cristiane: così, la virtù della temperanza, fondata sulla moderazione nell’attaccamento ai beni di questo mondo, è sostituita da un’affannosa e convulsa corsa all’accaparramento di beni, oltre i bisogni individuali; la virtù della giustizia che dovrebbe spingere quanti sono preposti alla sua attuazione, al rispetto dei diritti del prossimo ed a dargli ciò che gli è dovuto, viene, a volte e sempre più frequentemente, sostituita dall’arroganza o dall’inerzia di larga parte della magistratura, che si trasforma in vera e propria negazione di giustizia; la virtù della solidarietà che dovrebbe ispirarsi alla regola aurea del Signore, il quale “da ricco che era, si è fatto povero” per noi, perché diventassimo “ricchi per mezzo della sua povertà”, è mortificata da una serie di comportamenti e di atti che contrastano la dignità umana, come il furto, la frode in commercio, i salari ingiusti, il rialzo dei prezzi speculando sull’ignoranza e sul bisogno altrui, i lavori eseguiti male, la frode fiscale, le spese eccessive, lo sperpero; la virtù della castità nei rapporti sessuali, ove la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell’amore, ossia del dono di sé e dell’accoglienza dell’altro, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri ed istinti. Nell’ambito politico, non vengono più osservati (venendo, così, meno il fondamento stesso della convivenza politica, compromettendo progressivamente tutta la vita sociale) principi fondamentali che rispondono ad esigenze morali oggettive di un buon funzionamento degli Stati, come: la trasparenza nella pubblica amministrazione, l’imparzialità nel servizio della cosa pubblica, il rispetto dei diritti degli avversari politici, la tutela dei diritti degli accusati contro processi e condanne sommarie, l’uso giusto ed onesto del denaro pubblico, il rifiuto di mezzi equivoci o illeciti per conquistare, mantenere e aumentare ad ogni costo il potere. Sempre nell’ambito politico, si assiste, poi, ad una strumentalizzazione propagandistica, al fine di carpire consensi tra i cattolici, di pubbliche dichiarazioni di aderenza ai valori cristiani da parte di soggetti che, con il loro comportamento, sia nella vita privata che pubblica, contraddicono visibilmente a quei principi.Se è vero che tutto ciò accade essenzialmente perché l’uomo è pervenuto ad un concetto di libertà come di un bene “illimitato” e, pertanto, sente la legge di Dio come un peso, anzi una negazione o comunque una restrizione della propria libertà, è lecito concludere con il Profeta che “non c’è niente di nuovo sotto il sole”. L’uomo, infatti, è stato sempre permanentemente tentato di distogliere il suo sguardo da Dio, offuscando la sua capacità di conoscere la verità, indebolendo, così, la sua volontà di sottomettersi ad essa fin da “quel misterioso peccato d’origine (come lo definisce Giovanni Paolo II, nell’enc. Veritatis splendor), commesso per istigazione di Satana, che è menzognero e padre della menzogna”. “Leggiamo nel libro della Genesi: Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti. Con questa immagine, la Rivelazione insegna che il potere di decidere del bene e del male non appartiene all’uomo, ma a Dio solo. L’uomo è certamente libero, dal momento che può comprendere ed accogliere i comandi di Dio. Ed è in possesso d’una libertà quanto mai ampia, perché può mangiare di tutti gli alberi del giardino. Ma questa libertà non è illimitata: deve arrestarsi di fronte all’albero della conoscenza del bene e del male, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo. Dio, che solo è buono, conosce perfettamente ciò che è buono per l’uomo, e in forza del suo stesso amore glielo propone nei comandamenti” (enc. cit.). Purtroppo l’uomo, oggi come ieri e forse più di ieri, porta in sé questo “misterioso peccato d’origine” che lo spinge a rivendicare a sé stesso il potere di decidere ciò che è bene e ciò che è male, facendo, così, prevalere l’utilitarismo ed edonismo che inevitabilmente sfocia nel peggiore relativismo, anticamera di vero e proprio ateismo. Insieme alla minaccia di un sempre più dilagante ateismo, vanno messi in evidenza altri fenomeni ed atteggiamenti preoccupanti, come il così detto “fondamentalismo religioso”, consistente, in via generale, in un atteggiamento culturale contrario al dialogo, che rivendica principi religiosi “non negoziabili”, sul presupposto apodittico che il proprio punto di vista è l’unico giusto, dando del mondo una lettura basata su un legame inscindibile fra precetti religiosi ed ordinamento della società e dello stato: così è “miscredenza” (in particolare per il credente musulmano) riservare l’espressione della propria fede a una sfera intima della propria coscienza, senza cercare di influenzare e modellare il mondo esterno su di essa, laddove il messaggio religioso, sempre aperto al dialogo, deve avere, invece, solo il valore di proposta, da accogliersi o respingersi, in piena libertà. In senso diametralmente opposto, trovano sempre più spazio dottrine e sette che indicano, come modello da seguire, una forma di misticismo, basato sulla ricerca individualistica ed egoistica dell’incontro con la divinità, facendo astrazione da tutto il mondo che ci circonda, ben diversa da una vita contemplativa cristianamente intesa, ove l’apostolato della preghiera si congiunge all’offerta quotidiana di sé stessi a vantaggio degli altri. Ritornando alla ricerca delle cause di una avvertita maggiore “spinta”, nel momento presente, nell’affermazione del proprio potere decisionale in ordine a ciò che è bene e ciò che è male, con la conseguente caduta verticale dei tradizionali “valori cristiani”, sarebbe opportuno cercare di individuarle, a titolo meramente esemplificativo e, pertanto, senza alcuna pretesa di essere esaustivi, nei settori in cui si è verificata una maggiore e più incisiva evoluzione, tale da determinare significativi mutamenti nei rapporti interpersonali. Negli ultimi anni, abbiamo assistito ad una progressiva e vertiginosa accelerazione nell’innovazione tecnologica che ha investito quasi tutti i settori dell’attività umana, con particolare riferimento a quelli dell’informazione e della comunicazione: altro fenomeno significativo ha accompagnato tale evoluzione, soprattutto nel settore economico, laddove la continua e sempre maggiore interferenza tra le varie economie locali ha prodotto l’effetto della c.d. globalizzazione che, in parole povere, può identificarsi nell’impossibilità che determinati avvenimenti di una certa dimensione possano rimanere localizzati nell’area geografica ove si sono prodotti, senza, invece, produrre effetti nei confronti delle altre economie mondiali, con evidenti conseguenze dannose nei loro confronti, ove ad essere “esportati” sono veri e propri terremoti finanziari. Per quanto concerne il settore dell’informazione, è evidente come gli sviluppi enormi nella tecnologia usata in tale settore (dalla televisione ai mezzi più sofisticati, come internet) abbiano favorito la divulgazione, in tempo reale, e verso un pubblico che oramai copre quasi tutta l’intera popolazione terrestre, di tutto ciò che accade nel mondo: a tale sviluppo tecnologico non ha, però, corrisposto un’adeguata cultura da parte degli operatori di detti mezzi di informazione, sicché, senza cadere in facili generalizzazioni, si assiste quotidianamente ad un vero e proprio bombardamento di tutte le “notizie” che, purtroppo, fanno maggiore presa sull’attenzione, a volte morbosa, dello spettatore. Così, a solo titolo esemplificativo, efferati delitti, in nome di un mal inteso diritto all’informazione, vengono descritti con dovizia di particolari sempre più minuziosi e raccapriccianti, alimentando la crescente curiosità dello spettatore, senza alcuna considerazione che tra i destinatari di tale “informazione” inevitabilmente sono anche presenti soggetti deboli ed indifesi, come i minori ed altri soggetti con particolari stati d’animo di natura psicologica che da tali immagini possono ricevere danni incalcolabili, senza escludere, inoltre, casi di emulazione.          D’altra parte, vengono enfatizzati e, di fatto, indicati come modelli di vita, i vari comportamenti di quella minoranza di persone che detengono, invece, la maggior parte dei beni disponibili: si assiste, così, ad una continua passerella di abitazioni sontuose, di autovetture ed imbarcazioni lussuose, di feste megalattiche, di abiti sfarzosi ed, in genere, di modalità di vita, basate esclusivamente sulla ricerca smodata e senza limiti del godimento fine a se stesso, con l’esaltazione di tutto ciò che è apparentemente bello e, pertanto, va posseduto, facendo prevalere, pertanto, il culto dell’avere su quello dell’essere. Tutto ciò, senza determinare od accentuare quella profonda ingiustizia esistente nella distribuzione delle ricchezze, causa non ultima, come da molti fondatamente sostenuto, del fenomeno del terrorismo (è lecito, infatti, ipotizzare che tale fenomeno non esisterebbe in presenza di una vera giustizia sociale), non fa altro che produrre, da un lato, il desiderio di raggiungere ad ogni costo tali modelli di vita, mentre, dall’altro, sentimenti di odio di classe, alimentati dalla provocazione, se non da vero e proprio scandalo, che quelle “notizie” suscitano in quanti, in varie parti del mondo, non hanno il minimo per sopravvivere. L'altro settore che ha registrato un'enorme evoluzione tecnologica è quello della comunicazione interpersonale.

 

2) La via dell'amore

“Signore cosa devo fare per avere la vita eterna?” E’ la domanda che tutti conosciamo, rivolta a Gesù dal giovane ricco. “Rispetta i comandamenti”; “Quali?”; “non uccidere, non rubare, non commettere adulterio…” Questa risposta non soddisfa, però, il giovane: evidentemente si tratta di una persona che non ha nemici, è ricca ed ha una tranquilla ed appagante situazione coniugale, sicché quei precetti non gli dicono nulla, in quanto prescrivono atteggiamenti naturalmente seguiti, in assenza di situazioni obbiettive che possano spingerlo ad agire diversamente. Il Signore avverte questa insoddisfazione ed aggiunge: “se vuoi essere perfetto, vendi tutto, dà tutto ai poveri e seguimi”. Quest’ultimo richiamo potrebbe, invero, ad un superficiale lettore, far sorgere l’equivoco di una infondata differenza, nell’insegnamento del Signore, tra quelli che sono i veri e propri precetti (comandamenti), da un lato, ed i semplici inviti, dall’altro: nel senso di far apparire la ricerca della perfezione come una semplice opzione che può aggiungersi o meno, a nostra discrezione, a quel minimo indispensabile per ottenere la vita eterna, costituito dall’osservanza dei comandamenti. Invero, quello che Dio esige da tutti indistintamente è che le nostre anime, fatte a sua immagine, giungano ad essere sante in questa vita per godere della beatitudine nell’altra; la nostra vocazione deve, pertanto, tendere sempre alla perfezione per acquistare la santità cui devono mirare tutti gli atti della nostra vita: ogni singolo atto da valutare in sé stesso, a prescindere dal fine per il quale potrebbe essere preordinato. E’ fuori dubbio, comunque, che di fronte a quanto sentiamo di dover corrispondere, svariati possono essere i condizionamenti esterni che determinano una diversità di peso soggettivo nei confronti dello stesso precetto; l’adempimento del precetto: “non commettere adulterio” può, infatti, comportare un impegno molto leggero, come nel caso ipotizzato del “giovane ricco”, fino ad arrivare ad un vero martirio, con riferimento alla particolare situazione della “casta Susanna”, tanto efficacemente richiamata dal Santo Padre, nell’enciclica “Veritatis splendor”. Queste differenze non fanno, comunque, venir meno la validità universale (nel tempo, nello spazio ed a prescindere dalle particolari situazioni) dei principi indicati nella legge divina da rispettarsi da chiunque, sulla base delle individuali virtù che non verranno meno secondo la grazia di Dio che viene data a tutti, a chi più ed a chi meno, senza che a nessuno manchi il sufficiente. “Questo comandamento che oggi ti ordino non è troppo alto per te né troppo lontano da te. Non è nel cielo perché tu dica: chi salirà per noi in cielo per prenderlo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Non è di là dal mare perché tu dica: chi attraverserà per noi il mare per prendercelo e farcelo udire e lo possiamo eseguire? Questa parola è, invece, molto vicina a te, è nella tua bocca e nel tuo cuore perché tu la metta in pratica”; così dice il Signore. A volte, per intraprendere la via giusta, crediamo di metterci alla ricerca di Dio, quando è Lui, invece, che ci cerca: è nota la storiella di chi cercava affannosamente di aprire una porta spingendola con tutta la sua forza: quando, alla fine, esausto, desistette, si accorse che quella porta si apriva nel senso opposto….. “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avrete amore gli uni verso gli altri”. La via del Signore è, dunque, la via dell’amore: amore alimentato dagli imprescindibili valori di fedeltà, sacrificio, temperanza, solidarietà, obbedienza, castità, quest’ultima intesa – nel circoscritto ambito di un consacrato vincolo coniugale – come contrapposizione e negazione di una sessualità depersonalizzata, strumentalizzata, e basata sulla soddisfazione egoistica dei propri istinti e piaceri. Via, nella quale la vita non viene apprezzata come piacere e benessere, cosa che porta a non accettare la sofferenza, bensì come opportunità che la stessa non sia del tutto aliena da mortificazioni, penitenze e digiuni, adeguatamente calibrati secondo le individuali possibilità, tali da renderci pronti e disponibili nei confronti di eventuali future avversità e più comprensivi verso gli altri, incrementando la nostra generosità verso i poveri ed i sofferenti. Disponibilità, quindi, fino a dare la vita per gli altri che si realizza, anche al di fuori di immagini cruente, nell’offerta quotidiana di noi stessi. Tempo addietro un amico mi raccontava un episodio realmente accadutogli, mentre percorreva in automobile un strada di Roma: ad un incrocio gli si avvicinò il solito extracomunitario, il quale si offrì di pulirgli il parabrezza. Durante l’operazione ebbe modo di scambiare quattro chiacchiere con costui; appena mise mano al portafoglio per la consueta mancetta, l’extracomunitario la rifiutò dicendogli di averla già ottenuta. “Ma come – gli disse il mio amico – io non ti ho dato nulla” : “mi hai parlato”, fu la risposta dell’extracomunitario. Il dare la propria vita si realizza, in effetti, con l’offerta di noi stessi (dare ciò che si è e non solo ciò che si ha) che può consistere anche nella semplice disponibilità all’ascolto dell’altro, cosa tanto difficile al giorno d’oggi. Il tutto con spirito di carità non rinchiusa entro alcun limite: se, infatti, Dio è amore, la carità non deve avere confini. Accanto a questa strada spesso raffigurata come via stretta e dolorosa, che porta alla salvezza, ve ne è un’altra, larga e piacevole che porta alla perdizione e che è battuta da quanti non osservano i precetti divini. Vi è però una terza strada: i suoi frequentatori, apparentemente, si comportano come quelli della prima strada; senonché anche questa non porta alla salvezza. I viandanti di questa strada sono gli ipocriti, quanti, cioè, appaiono praticare le stesse cose di quanti percorrono la prima strada, ma solo per ostentazione e vanagloria, ovvero per realizzare una molto improbabile compensazione tra tutto quello che fanno di buono ed una condotta di vita segnata dalla ricerca continua del compromesso faticosamente raggiunto attraverso ambiguità, reticenze, uso fraudolento di mezzi apparentemente leciti, colpevoli silenzi e, pertanto, totale assenza della necessaria trasparenza, il tutto assistito da un deleterio intimo compiacimento per le lodi ed i ringraziamenti della larga schiera dei loro beneficiati anche se, a volte, a danno di altri soggetti sconosciuti ed indifesi. In tale situazione tutte le loro buone azioni (beneficenza, assistenza, preghiera, partecipazione a ritiri spirituali unitamente all’eventuale pratica di penitenze, digiuni e mortificazioni) non producono alcun frutto, in quanto tutto ciò è radicalmente inquinato dalla totale assenza di quella purezza di cuore che deve sempre costituire il necessario fondamento di una vita veramente cristiana. Ritornando alla contrapposizione tra le due strade, devo ammettere che per lunghissimo tempo ho vissuto nel grave equivoco del ritenere la prima strada (quella che porta alla salvezza) frequentata da soggetti tristi, perché colpiti da ogni tipo di sofferenza, con immani croci sulle spalle (più o meno invocate con spirito masochistico), mentre la seconda (quella che porta alla dannazione) frequentata, invece, da soggetti spensierati e gaudenti. Invero, lo stesso Gesù ha affermato: entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione e molti sono coloro che entrano per essa. Quanto angusta è la porta e stretta la via che conduce alla vita. E quanto pochi sono quelli che la trovano”. Ma perché la via che conduce alla vita è “stretta” ed “angusta” la sua porta, mentre quella che conduce alla perdizione è “spaziosa” e “larga” la sua porta? Gesù stesso ha spiegato che chi vuole percorrere la strada della salvezza (cioè seguirlo) deve preventivamente rinnegare sé stesso e prendere la propria croce. “Rinnega te stesso”: ecco la via e la porta “angusta” e “stretta” attraverso cui è necessario passare e ripassare continuamente e quanto è difficile permanervi. “Prendi la tua croce”: il Signore ti invita a prendere la “tua” croce e non già a cercarla ed, eventualmente, scambiarla con una più leggera o più pesante. Una storiella che non ricordo di averla letta o sentita, narra di un tale che, ritenendo di essere afflitto da una croce troppo pesante, chiedeva continuamente al Signore di sostituirgliela con una più leggera: alla fine il Signore acconsente, conducendo la persona in un campo sterminato, ove erano presenti tutte le croci (di varie dimensioni e pesi) assegnate a tutti gli abitanti della terra, dandogli l’opportunità di sceglierla. Dopo lunga ricerca, la persona in questione indica al Signore la croce prescelta e, con somma sua meraviglia, si accorge di aver scelto esattamente la propria. In effetti, a prescindere dalla strada che si sta percorrendo, ognuno ha la “sua” croce: ciò che ci viene richiesto è di accettarla con atteggiamento disponibile ed amorevole. Allora, ci accorgeremo che il “suo peso è leggero” e percorreremo con gioia la via indicata dal Signore: gioia che non dipende dalle cose esteriori, dalla presenza di una persona, o da circostanze favorevoli, ma che è indice di fedeltà ad una Presenza che abita in ognuno di noi. Scopriremo, inoltre, seguendo sempre la stessa via che ciò che è “bene” è anche “bello”, di una bellezza che non coincide con quella che appaga la vista corporea, ma risiede essenzialmente in quell’intimo e profondo compiacimento fondato sul piacere della comunione della propria vita con quella dell’altro che incontriamo. Via del Signore che non è, quindi, via tetra del dolore e della tristezza, bensì via luminosa, perché via dell’Amore, della Bellezza, della Gioia. Via dell’amore che è la via del comandamento nuovo di Gesù Cristo che ci spinge alla continua ricerca del “fare all’altro quello che vorresti l’altro faccia a te”, superando i limiti angusti del precetto di “non fare all’altro quello che non vorresti l’altro faccia a te”, fondato essenzialmente sul rispetto dell’altro che può produrre solo separazione e lontananza dall’altro e, prima o dopo, conduce alla tomba del vero Amore.

3) Creazione ed evoluzione (a)

Il problema delle origini dell’universo ha sempre affascinato la mente dell’uomo alla ricerca di risposte accettabili: di recente si è svolto in Svizzera un esperimento finalizzato a riprodurre in laboratorio le condizioni immediatamente successive all’ipotizzato “big bang” alla ricerca di cosa realmente accadde in quell’occasione; pare che i risultati, però, non siano stati soddisfacenti. Sulle origini dell’universo, due sono, comunque, le tesi, apparentemente contrapposte: evoluzionismo e creazionismo. Senza addentrarci nell’analisi di dette tesi e sulle differenze sostanziali intercorrenti tra tali termini, da un lato, e la coppia dei termini “creazione” ed “evoluzione”, dall’altro (abbondante è, al riguardo, il materiale di ricerca presente, anche in internet, su tale argomento) basti qui ricordare, facendo riferimento alle tesi estreme di dette posizioni, che, a fronte di una interpretazione fondamentalista della Sacra Scrittura, sostenuta da alcune correnti minoritarie di chiese riformate, si contrappone una visione scientifica, di radicalismo filosofico. Per la prima, Dio avrebbe creato dal nulla tutte le cose e tutte le specie animali una per una, per la seconda, che nega l’esistenza di un momento creativo, dato che l’universo è sempre esistito, l'unica chiave per capire il mondo è vederlo come risultato di trasformazioni casuali, senza alcuna finalità, né direzione, né scopo. In realtà, mentre, da un lato, sembra anche scientificamente provato che l’universo abbia avuto un’origine, collocabile nell’ordine di circa 14 miliardi di anni fa, mentre l’ “Homo habilis”(antenato dell’”Homo sapiens”) sia comparso sulla terra circa 2 milioni di anni fa, dall’altro non può negarsi l’evidenza di una continua evoluzione dell’universo, che ha coinvolto tutte le specie animali e che la Chiesa non contesta. La frase del card. von Schönborn , arcivescovo di Vienna, pronunciata qualche tempo fa, a proposito della parentela fra l'uomo e la scimmia, e provocatoriamente ripresa da diversi organi di stampa, secondo cui “l’evoluzione nel senso di un comune progenitore potrebbe essere vera, ma evoluzione nel senso neo-darwinista di un processo non progettuale e afinalistico, basato solo su variazioni casuali e selezione naturale, non potrebbe esserlo”, mette semplicemente in evidenza quanto pacificamente sostenuto dalla fede cristiana e ritenuto inaccettabile dalla scienza, nel senso che la specie biologica umana può tranquillamente derivare da specie biologiche inferiori, ma sostenere che ciò sia il puro risultato del caso non è ammissibile per chi crede nella creazione e ciò per il semplice fatto che il caso e l'assenza di progetto non sono conclusioni scientificamente avvalorate. D’altra parte quando Darwin sosteneva che la selezione naturale e le mutazioni casuali trasmesse ereditariamente fossero meccanismi sufficienti per determinare l'evoluzione delle specie, non intendeva certo affermare che tutto ciò avveniva in totale assenza di finalità, dato che lo stesso Darwin, al termine de “L'origine delle specie” (1859), lodava Dio affermando esservi «qualcosa di grandioso in questa concezione della vita, con i suoi diversi poteri, originariamente impressi dal Creatore in poche forme o in una forma sola». Sul punto potrebbe tranquillamente concludersi con le parole pronunciate da Papa Giovanni Paolo II, nel 1985: “una fede rettamente compresa nella creazione e un’evoluzione rettamente intesa non sono in contraddizione: l’evoluzione suppone la creazione, anzi la creazione alla luce dell’evoluzione produce un arricchimento che si estende nel tempo come creazione continua”.

Condividi questa pagina

4) L'uomo e gli altri animali: coscienza ed autocoscienza (b)

Per cogliere meglio il senso della precedente affermazione e cercando di stabilire il momento storico della comparsa dell’uomo sulla terra, è necessario preliminarmente individuare le caratteristiche peculiari dell’essere umano che lo distinguono da tutte le altre specie di animali. Quanti, scienziati e non, hanno affrontato quest’ultimo argomento, sono concordemente pervenuti alla conclusione che ciò che essenzialmente distingue l’uomo da tutti gli altri esseri viventi è la sua “coscienza”, quando quest’ultima, riflettendosi su sé stessa, coglie il senso della propria identità personale, divenendo coscienza introspettiva ovvero “autocoscienza” e si rivolge all’analisi di quel soggetto misterioso che chiamiamo “Io”. La coscienza, nella sua forma più elementare, si suole definire come quella funzione che rende percepibili oggetti, fatti e situazioni del mondo esterno ad un soggetto vivente: si è, così, coscienti della presenza di una cosa, di una persona, di un suono, di una luce, come di una sensazione sgradevole o piacevole ed anche di provare un’emozione e di far rivivere, nella memoria, fatti ed episodi passati, il tutto al fine di mettere in atto una conseguente risposta allo stimolo od agli stimoli ricevuti. Nella coscienza così definita, vanno ricomprese anche quelle risposte che, apparentemente, sembrano il frutto di un vero e proprio “ragionamento”: è il caso, più volte citato, di uno scimpanzé, il quale, chiuso in una gabbia con un casco di banane legato ad un’altezza irraggiungibile, dopo un po’ di tempo, si decide a prendere uno sgabello posto in un angolo della gabbia ed a spostarlo per salirvi sopra e, così, riuscire a prendere il casco di banane. E’ evidente come una siffatta “coscienza” è patrimonio comune sia degli uomini che di tutti gli altri animali e può facilmente ricondursi nell’ambito di un’attività materiale del cervello, similmente a quanto accade nei comuni computer. D’altra parte, sulla base di approfondite ricerche effettuate sul cervello umano dai più prestigiosi scienziati del nostro secolo, si è potuto stabilire con precisione ove sono materialmente collocate le singole suddette funzioni. Quando, però, la coscienza umana, riflettendosi su sé stessa realizza la consapevolezza della propria esistenza, scopre anche di essere causa della propria attività, in quanto soggetto dotato di ciò che comunemente è definito “libero arbitrio” che gli consente di superare il rigido determinismo “stimolo-risposta”, a differenza di tutte le altre specie di animali, usufruendo di una propria volontà, ovvero della facoltà di operare scelte e decisioni con un certo margine di autonomia e, comunque, al di fuori di qualsiasi meccanismo automatico e determinante. Lo studio della coscienza umana, come sopra delineata, non è pervenuta, dopo secoli di ricerche, a nessuna univoca conclusione, per la complessità dei problemi emergenti, sia nell’ambito della riflessione filosofica che di quello dell’indagine scientifica. L’indagine svolta nei suddetti due campi ha dato origine ad una vasta serie di proposte che sarebbe davvero impossibile riassumerle, sia pure in termini succinti: può solo affermarsi che, a fronte di chi riconduce l’attività della coscienza umana a semplici risultati prodotti dall’attività celebrale, ovvero ne disconosce, addirittura, l’esistenza stessa, altri, invece, affermano l’impossibilità di ricondurre l’attività della coscienza umana nell’ambito degli ordinari fenomeni fisici, cercando di elaborare modelli esplicativi, fino ad arrivare (secondo alcuni) alla conclusione che non potrà mai essere compresa. Invero il problema dell’autocoscienza, ovvero della coscienza che, riflettendosi su sé stessa, analizza il proprio “io”, non è di facile soluzione, dato che, da un lato, sul piano strettamente scientifico, non possono darsi risposte alla domanda : “in quale parte del nostro corpo è l’io?”, non essendo identificabile una sua sede specifica, dall’altro, sul piano logico-filosofico, notevoli sono le perplessità sulla stessa ammissibilità di tale particolare funzione. Così, secondo J. Searle, il “libero arbitrio” è definito come “il credere che noi avremmo potuto agire in modo differente da come ci siamo realmente comportati. Questa convinzione, a sua volta, coincide con le convinzioni sulla responsabilità morale e sulla nostra natura come persone” e, proseguendo, afferma che “allo scopo di avere una libertà radicale, sembra di aver postulato che all’interno di ciascuno di noi esista un io capace di interferire con l’ordine causale della natura”, per concludere, infine, con il rifiuto di una “libertà radicale” dell’individuo, solo perché ciò è in contraddizione con le leggi della fisica. Eppure, nello svolgersi delle nostre azioni, ognuno di noi dovrebbe rendersi conto della libertà delle proprie scelte, al di fuori di un passivo determinismo indotto dalle circostanze oggettive in cui, in quel momento, ci troviamo: si ammette facilmente, di contro, che il nostro comportamento, i ricordi e, di fatto, l’intero contenuto della nostra vita cosciente interiore, siano dipendenti dalle esperienze vissute durante la nostra vita, ma si dimentica di valutare quanto grande sia l’influenza, al momento di una certa decisione, della capacità dell’Io di distogliere la propria attenzione da tali esperienze, fino ad arrivare alla possibilità, rivivendo, nella memoria, azioni e comportamenti già posti precedentemente in essere, di sottoporre ad una nuova valutazione critica quanto è già accaduto, per pervenire ad una conclusione diversa sul comportamento da adottare in quella circostanza, al di fuori di valutazioni su fatti ulteriormente emersi. In tal caso, non può esserci l’eliminazione di un Io e la creazione di un nuovo Io, che risulterebbe in evidente contraddizione con la nostra indiscussa unicità. Quanto, poi, alle richiamate difficoltà che si incontrano su di un piano eminentemente logico-filosofico ad ammettere, se non l’esistenza, la validità di un esame introspettivo da parte della coscienza umana, dette difficoltà si basano essenzialmente sulla considerazione che qualsiasi forma di osservazione presuppone un soggetto che osserva ed un oggetto che viene osservato, mentre nel caso dell’autocoscienza questi due elementi coincidono nello stesso soggetto: la coscienza (soggetto che osserva) coincide, infatti, con la stessa coscienza (oggetto dell’osservazione). Sulla base di queste osservazioni, pur logicamente fondate, si perviene facilmente alla conclusione che l’autocoscienza è un’illusione, dato che non si può rivolgere realmente su sé stessa, bensì verso qualcosa di diverso: questo qualcosa di diverso, in definitiva, finisce per essere solo una falsa rappresentazione di sé stesso, sulla base di immagini costruite dallo stesso soggetto osservato che difficilmente possono corrispondere alla realtà del nostro essere. Invero, tralasciando le pur dotte disquisizioni logico-filosofiche sulle difficoltà di una vera indagine introspettiva sulla base di quanto come sopra riferito, appare di tutta evidenza come detta indagine non possa svolgersi correttamente, se la propria coscienza si chiude su sé stessa in un’analisi fondata su principi che traggano la loro origine dalla coscienza stessa: forse, allora, per superare le suddette difficoltà basterebbe prendere atto che, in un esame introspettivo, possono distinguersi due momenti diversi. Il primo, consistente nella consapevolezza che ogni nostro atto è frutto di una scelta operata con libera e responsabile volontà ed è, pertanto, suscettibile di una valutazione in ordine al suo collocamento tra gli atti “giusti” od “ingiusti”; il secondo riguarda, appunto, l’esame della corrispondenza dell’atto stesso con i principi cui far riferimento per l’attribuzione di detto collocamento. E’ evidente che, in questa seconda fase, per operare un corretto giudizio, la coscienza si debba rivolgere fuori di sé stessa, alla ricerca di principi oggettivamente ed universalmente validi, dato che, qualora detti principi fossero il frutto di un ordine morale personalmente costruito, il risultato dell’esame condurrebbe, inevitabilmente, ad una falsa rappresentazione di sé stessi. Comunque, mentre sul piano logico-filosofico, alcuni pensatori, come si è detto, avanzano riserve e perplessità sulla validità di un esame introspettivo (autocoscienza) da parte dell’uomo, sul piano scientifico, invece, la quasi totalità degli studiosi, prendendo atto dell’esistenza di una simile attività, finiscono per concludere che la stessa non possa ricondursi ad un’attività “materiale” del nostro cervello, bensì a qualcosa di diverso ed esterno al nostro corpo, comunque non riscontrabile in nessun altro essere vivente. A titolo di esempio, mi viene alla mente quanto riferito da un noto neurologo (Oliver Sacks) in una sua raccolta di casi clinici, realmente sottoposti alla sua attenzione: nel caso, raccontato sotto il titolo “Il marinaio perduto”, si parla di un marinaio statunitense (Jimmie) che era affetto da una grave forma di “sindrome di Korsakov” tanto che il Dott. Sacks, sulla base anche di quanto riscontrato dai suoi assistenti, aveva concluso che “nessuno di noi aveva mai incontrato, mai immaginato, un’amnesia di tale entità, la possibilità di un abisso nel quale precipiti insondabilmente ogni cosa, ogni esperienza, ogni avvenimento, un buco senza fondo della memoria che inghiotta il mondo intero……….Veniva istintivo parlare di lui come di una vittima spirituale, di un’anima perduta: ‘Pensate che ce l’abbia, un’anima?’ chiesi una volta alle infermiere. La domanda le indignò: ‘Osservi Jimmie nella cappella’ dissero ‘e giudichi lei stesso’ ”. Sacks osservò il comportamento di Jimmie nella cappella dell'ospedale e notò con quale "piena, intensa e tranquilla disposizione d'animo, con quale calma di una concentrazione e di attenzione assolute, egli si accostò e partecipò alla Santa Comunione. Era totalmente trattenuto, assorbito da un sentimento. In quel momento non c'era smemoratezza, non c'era sindrome di Korsakov, né la loro esistenza pareva possibile o immaginabile". Tale osservazione lo spinse a concludere che "per quanto grandi siano il danno organico e la dissoluzione humeana, rimane intatta la possibilità di una reintegrazione attraverso...il contatto con lo spirito umano; e questo può avvenire anche in presenza di uno stato di devastazione neurologica che in un primo tempo appare senza speranza".

5) L'esistenza dell'anima e la comparsa dell'uomo sulla terra (c)

Sull’esistenza o meno di una parte spirituale dell’uomo, David Lack scriveva: “O l’uomo, come altri animali, non ha una parte spirituale nella sua natura, o, secondo la visione cristiana, un evento sovrannaturale ha agito al momento della comparsa dell’uomo, prima della quale i nostri antenati erano mammiferi protoumani e, dopo la quale, attraverso il dono divino dell’anima, essi diventavano realmente degli uomini”. Si deve a Kant una delle più belle e suggestive raffigurazioni dell’esistenza, sia dell’io invisibile, che della legge morale che è in ognuno di noi: val la pena trascrivere, al riguardo, un brano tratto dalla sua “Critica della ragion pratica”. “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. Queste due cose io non ho bisogno di cercarle e semplicemente supporle come se fossero avvolte nell'oscurità, o fossero nel trascendente, fuori del mio orizzonte; io le vedo davanti a me e le connetto immediatamente con la coscienza della mia esistenza. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo, a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata. La seconda comincia dal mio io invisibile, dalla mia personalità, e mi rappresenta in un mondo che ha la vera infinitezza, ma che solo l'intelletto può penetrare, e con cui (ma perciò anche in pari tempo con tutti quei mondi visibili) io mi riconosco in una connessione non, come là, semplicemente accidentale, ma universale e necessaria. Il primo spettacolo di una quantità innumerevole di mondi annulla affatto la mia importanza di natura animale che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista per breve tempo (e non si sa come) della forza vitale. Il secondo, invece, eleva infinitamente il mio valore, come [valore] di una intelligenza, mediante la mia personalità in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante questa legge: la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito”. Sempre in tema del misterioso rapporto tra corpo ed anima, John Eccles, uno dei più prestigiosi scienziati del nostro secolo nel campo della neurofisiologia e premio Nobel per la medicina nel 1963, nel suo libro “Evoluzione del cervello e creazione dell’io”, suggerì una suggestiva analogia (“ma niente più che una analogia”, secondo le sue stesse parole), considerando “l’insieme del corpo e del cervello come un superbo calcolatore costruito secondo un codice genetico, scaturito da un meraviglioso processo di evoluzione biologica. Analogamente, l’Anima o la Psiche, è il programmatore del calcolatore. Ciascuno di noi, come un programmatore, è nato con il suo calcolatore allo stato embrionale. Noi lo sviluppiamo durante la vita. Esso è il compagno intimo in ogni evento della nostra vita ed interagisce con gli altri io. I grandi misteri consistono nella nostra creazione come programmatori o come esseri autocoscienti e nella associazione di ciascuno di noi durante tutta la vita con il proprio calcolatore personale.” Dopo aver analizzato, forse come nessun altro scienziato della materia, ogni parte del cervello umano, senza trovarvi (del resto similmente a tutti gli altri ricercatori) un punto ove localizzare questa particolare attività spirituale (a differenza di qualsiasi altra attività del cervello) e dovendo necessariamente ammettere l’unicità dell’io, John Eccles concludeva che “poiché la soluzione materialistica fallisce nel dare una spiegazione della nostra unicità, sono costretto ad attribuire l’unicità dell’Io o dell’Anima ad una creazione sovrannaturale. Una spiegazione in termini teologici potrebbe essere la seguente: ogni anima è una nuova creazione Divina assegnata al feto durante il suo sviluppo in qualche momento compreso tra la fecondazione e la nascita…….Ammetto che non ci sia nessun’altra spiegazione valida. Questa conclusione è di un inestimabile significato teologico: essa rinforza notevolmente la nostra fede nell’Anima umana e nella sua miracolosa origine per opera di una creazione Divina. Bisogna ammettere l’esistenza non solo del Dio Trascendente, il Creatore del Cosmo, il Dio nel quale Einstein credeva, ma anche del Dio al quale dobbiamo la nostra esistenza.” Ma, allora, quando l’uomo, come soggetto inscindibile formato di anima e corpo, è comparso sulla scena del creato? E’ sempre John Eccles a fornire una valida risposta che può sintetizzarsi così: l’uomo è comparso quando l’evoluzione del suo cervello (calcolatore), negli esseri protoumani che lo hanno preceduto, ha raggiunto un livello tale da percepire un misterioso soffio di vita nuova (l’anima) ed entrare, così, in rapporto con essa (programmatore) e da questa farsi condurre, né più né meno di quello che accade, nei primi anni di vita di ognuno di noi. Questo momento storico (volendo attribuire senso e valore al racconto della creazione dell’uomo, così come descritta nella Genesi) potrebbe, poi, identificarsi nel momento in cui il Signore Dio, dopo aver plasmato l’uomo “con polvere del suolo” (il verbo “plasmare” evoca molto efficacemente l’idea di un progressivo affinamento evolutivo), gli “soffiò un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente” (Gn. 2, 7). A questo punto è lecito e doveroso tirare le fila di questa forse un po’ lunga esposizione. Posto che l’uomo, come creatura vivente costituita di anima e corpo, è comparso sulla terra in epoca abbastanza recente e, comunque, diversi miliardi di anni dopo l’origine dell’universo, irrilevante appare la sua derivazione dall’evoluzione nel tempo di una specie proto-umana diversa (scimmia?), dovendo far coincidere la sua “creazione” col momento d’incontro tra anima e corpo: ciò, d’altra parte, comporta il perpetuarsi, nel tempo, dell’intervento creativo divino e la conseguente presa d’atto, per l’uomo, dell’alto valore da attribuire alla procreazione di altri esseri viventi, quale indispensabile partecipazione a tale atto creativo. Per finire, “si può concludere – con le parole di J. Eccles, poste alla fine del suo libro – affermando che l’evoluzione biologica trascende se stessa fornendo il supporto materiale, il cervello umano, a individui autocoscienti la cui vera natura è di cercare le speranze e di indagare sul significato della ricerca dell’amore, della verità e della bellezza.”

6) La verità

Secondo un’antica definizione, la verità è la conformità della cosa al suo principio informatore, ovvero l’esatta corrispondenza tra la cosa e l’idea della cosa stessa. Una cosa, quindi, potrà dirsi vera se si perverrà a constatare che la stessa realizzi concretamente la suddetta corrispondenza. Le vie di tale indagine possono ricondursi essenzialmente a due: l’una, ontologica, parte dall’idea per pervenire alla cosa; l’altra, logica, procede in senso inverso e cioè dalla cosa all’idea. A dimostrazione della relatività del risultato, quando è l’uomo a percorrere da solo queste due vie, mi sovviene l’esempio molto efficacemente indicato da S. Tommaso d’Aquino. Un pittore decide di raffigurare su di una tela l’immagine di un cavallo; il suo sforzo artistico è, cioè, teso a realizzare concretamente l’idea che è in lui (via ontologica): alla fine del suo lavoro, soddisfatto del risultato raggiunto, esporrà il suo cavallo ad una mostra. Il primo visitatore si troverà di fronte a quel dipinto: la raffigurazione che si presenta ai suoi occhi spinge la sua mente ad un rapida indagine conoscitiva al fine di individuare il soggetto rappresentato nel quadro (via logica). Sarà per l’imperizia del pittore, o per scarso senso di osservazione del visitatore, sta di fatto che quest’ultimo ritiene di trovarsi di fronte ad un quadro raffigurante un asino. Qual’ è, allora, la verità di quel quadro? La risposta, evidentemente, è impossibile, se non si vuole addivenire alla soluzione di trovarsi di fronte a due verità. La verità umanamente conseguita è, infatti, sempre relativa; l’unica verità reale è, pertanto, quella realizzata per via ontologica dal Dio creatore. Ma, se è l’uomo l’oggetto di indagine, come rispondere alla domanda: qual è l’uomo vero? Sulla base delle premesse, la risposta sembra agevole: l’uomo è vero quando realizza, in sé, la conformità al suo principio informatore; è la coscienza di ognuno di noi che ci spinge, poi, naturalmente ad individuare nella legge morale detto principio informatore. Legge morale da non intendersi come un’arida somma di rigidi e gravosi precetti – che comprimono la nostra libertà – da osservare scrupolosamente con estrema fatica e sofferenza, bensì come norme scritte dall’amore di Dio nei nostri cuori e finalizzate, invece, esse stesse a realizzare in noi la vera libertà; “la verità vi farà liberi”, liberi da tutto ciò che è male ed allontana dal godimento dell’unico vero Bene. Infatti, se per coscienza si intende la facoltà dell’animo umano di valutare positivamente o negativamente i singoli nostri comportamenti, è evidente che la nostra coscienza non possa essere costitutiva della legge morale: dobbiamo constatare, allora, che la nostra coscienza deve limitarsi solo a presupporre e, quindi, ad attestare l’esistenza di una legge che necessariamente è estrinseca alla coscienza stessa. Il principio informatore, per essere tale, deve, poi, essere obbiettivo ed univoco e, quindi, rispondere ai requisiti di universalità ed immutabilità; non potendo provenire dal singolo uomo, deve necessariamente riferirsi al suo Creatore. Ma come mai esistono uomini non veri, pur essendo gli uomini stati creati da Dio, cui è riferibile la legge morale loro assegnata? Invero, se il concetto di verità sull’uomo è strettamente connesso a quello della legge divina, quest’ultima è strettamente connessa a quello della libertà: come, infatti, accade per la legge umana, anche per la legge divina non sussiste libertà senza legge e legge senza libertà. Ciò, in quanto Dio creandoci a sua immagine e somiglianza ci ha lasciati liberi di accettare o respingere la verità. Secondo la fede cristiana, solamente la libertà che si sottomette alla verità conduce al suo vero bene, anche se l’uomo scopre sempre che la sua libertà è misteriosamente inclinata a tradire questa sua apertura al vero ed al bene, avvertendo un sproporzione tra legge divina e la capacità di osservarla. Ma tale senso di inadeguatezza dei nostri mezzi, lungi dallo scoraggiarci, deve solo aiutarci a comprendere la nostra debolezza ed accendere il desiderio della grazia divina che verrà in nostro aiuto per immergerci nella verità e per insegnarci ad attuare la verità nella nostra vita. Una volta immersi in questo oceano immenso, perennemente alimentato da un’esauribile sorgente, ci renderemo conto della nostra assoluta incapacità a comprenderlo tutto ed innalzeremo al Signore la nostra umile invocazione: “a quanti sono alla ricerca della Verità, concedi, Signore, la gioia di trovarla e, dopo averla trovata, il desiderio di cercarla ancora”. La ricerca della verità, comunque, non si esaurisce in un problema di conoscenza; a nulla, infatti, serve la conoscenza della verità se alla verità non si adegua la propria vita; la verità non la si conosce, la si vive. Ma allora chi è il vero uomo? E’ Pilato, forse inconsapevolmente, a procedere a tale identificazione. Il suo “ecce homo” che apparentemente indica alla folla l’uomo oggetto di insulti e derisione, in effetti presenta all’umanità l’unico vero prototipo cui si debba fare riferimento nella vita di ognuno: Cristo Gesù.

7) L'apparenza

Può, a volte, accadere che un determinato comportamento, sulla base di quanto obbiettivamente appare, risulti erroneamente valutato in contrasto con la Verità, mentre, altre volte, può accadere l’inverso e, cioè, che ad un comportamento apparentemente coerente con la Verità, non corrisponda una conseguente realtà di vita del soggetto interessato che sarebbe, invece, lecito attendersi da quelle apparenze. Qual è allora il valore da attribuire alle apparenze? A parte l’ovvia considerazione sulla necessità, per il cristiano, di una concreta e coerente testimonianza della Verità con la propria vita che non si riduca soltanto a formali manifestazioni di fede, non va sottaciuta, d’altra parte, l’importanza che assume l’aspetto esteriore della propria condotta: nessuno, invero, può accontentarsi della rettitudine dei propri comportamenti – sia pure così valutati dopo un rigoroso esame di coscienza – senza farsi carico anche di verificare se gli stessi appaiono, invece, di fatto suscettibili di una diversa valutazione che risulti possibile sulla base di un normale umano giudizio che sia, comunque, esente da particolari malizie. A nulla vale, a tal riguardo, il riferimento al precetto di “non giudicare”: questo precetto, infatti, ha per oggetto la mia valutazione dell’operato altrui, ma non può da me ritorcersi sull’altro, quando sono io l’oggetto dell’altrui valutazione e giudizio. Ciò comporta la necessità di una particolare attenzione da porsi anche sulle modalità esterne del proprio operato, al fine che lo stesso possa proporsi come esempio per gli altri e non sia, invece, motivo di biasimo, se non addirittura di scandalo. Un luminoso esempio in tal senso ci viene offerto da Eleazaro, uno degli scribi più stimati, sulla base di quanto riferito nel secondo libro dei Maccabei. Eleazaro avrebbe dovuto pubblicamente mangiare carne di maiale, secondo gli ordini del re, rimettendoci la vita in caso di rifiuto. I suoi amici idearono uno stratagemma; alcuni di loro sarebbero riusciti a sostituire i pezzi di carne di maiale con altrettanti di carne di vitello: in tal modo Eleazaro non avrebbe peccato e, nello stesso tempo, avrebbe salvato la propria vita. Ma Eleazaro non acconsentì per non apparire di cattivo esempio per quanti (soprattutto giovani), ignari dello stratagemma, avessero assistito alla scena. Tutto ciò comporta che, ove talune circostanze di fatto siano suscettibili di alimentare fondati dubbi e/o perplessità sulla correttezza dei comportamenti di soggetti particolarmente esposti, per il loro status, alla pubblica attenzione, detti soggetti dovrebbero, a tutela della propria credibilità, farsi carico di chiarire i fatti così come obbiettivamente accaduti e non rifugiarsi, invece, nella semplice e facile contestazione della serie infinita di maligne supposizioni e falsità che, per un diffuso malcostume, detti fatti purtroppo alimentano; senza considerare, poi, che tali supposizioni e falsità determinano, a volte, pubbliche manifestazioni di solidarietà nei confronti del soggetto colpito, aggiungendo solo confusione che, di fatto, fa venir meno il raggiungimento della verità.

8) Un Crocifisso che fa paura

La recente sentenza della Corte Europea sui Diritti dell’Uomo che dice no ai crocifissi nelle scuole italiane, sulla scia di un evidente anticristianesimo che sempre più va diffondendosi nell’antico continente, ha testualmente affermato che “la presenza del crocifisso…potrebbe essere facilmente interpretata dagli studenti come un simbolo religioso. Avvertirebbero così di essere educati in un ambiente scolastico che ha il marchio di una data religione”. La sentenza ha suscitato un coro quasi unanime (fatta eccezione per alcune frange estreme dell’opinione pubblica) di indignata protesta; il governo italiano ha già preannunciato che proporrà formale ricorso. Le motivazioni della protesta sono essenzialmente fondate sulla considerazione che quel “simbolo” (da alcuni messo addirittura sullo stesso piano dell’italico tricolore) contraddistingue la nostra “cultura”, “identità”, “tradizione” nazionale, quasi avanzando una rivendicazione di un’inammissibile esclusiva, mentre altri, pur critici nei confronti della citata sentenza, affermano che tale conclusione è essenzialmente fondata sulla considerazione che quel simbolo è “innocuo” ed, in ogni caso, “non offende nessuno”. A parte la considerazione che il “simbolo” della religione cattolica è identificabile nel complesso delle verità di fede, raccolte nel Credo, non va sottaciuto che, se le motivazioni da far valere a favore del mantenimento del Crocifisso nelle aule scolastiche sono quelle sopra riportate, prescindendo dai valori “forti”, universali ed eterni che la raffigurazione del Cristo sofferente in croce – segno di offerta di amore di Dio e di unità ed accoglienza per tutta l’umanità - evoca e trasmette, provocando interrogativi che turbano le coscienze di tutti, indistintamente (cristiani e non cristiani), forse, allora, sarebbe meglio lasciare da parte ogni entusiasmo nel portare avanti una battaglia che, su tali premesse, apparirebbe davvero inappropriata. Quanto è successo mi fa tornare alla mente una notizia riportata, alcuni mesi addietro, da diversi organi d’informazione. In una chiesa di Broadbridge Heath, una cittadina del Sussex in Inghilterra, un Crocifisso, opera dello scultore Copnall, presente in quella chiesa fin dagli anni ’60, era stato rimosso, per essere sostituito da una croce geometrica, vuota. La scultura alta tre metri, realizzata in polvere di carbone e resina non ispirava un messaggio rassicurante: questa la stupefacente motivazione! Quel Crocifisso faceva davvero paura ai bambini e gli adulti non ne ricavavano pensieri di serenità, dato che, secondo le parole del reverendo Ewen Souter, era piuttosto "un'orribile immagine di dolore e sofferenza": a tale decisione si era pervenuti sulla base di un’indagine conoscitiva condotta tra i frequentatori della chiesa. Il Crocifisso, di grande valore artistico, venne donato al museo di Horsham: il curatore del museo definì "potente" l'immagine di Copnall ma, aggiunse, non è la rappresentazione che oggi la chiesa vuole dare del Cristo; l'aspetto di sofferenza e dolore va messo in secondo piano per privilegiare invece un messaggio di resurrezione e di speranza, perché il Cristo ha sofferto, ma è risorto. E’, innanzi tutto davvero singolare come la decisione della rimozione di un Crocifisso da una chiesa venga assunta sulla base di un sondaggio che valori assomiglia molto ad un’indagine di mercato su di un prodotto commerciale per scoprire i gusti degli eventuali acquirenti, come se certe scelte possano essere operate sulla base del maggior gradimento riscontrabile. L’episodio, comunque, mette ancora una volta in evidenza una preoccupante caduta dei valori cristiani, cui assistiamo quotidianamente: la speranza è che si tratti solo di un fatto temporaneo, destinato ad essere superato. L’affermazione del curatore del museo di Horsham, secondo cui la chiesa, oggi, vuole mettere “in secondo piano” l’aspetto della sofferenza e del dolore del Cristo, privilegiando il messaggio di resurrezione e speranza, non ha, poi, alcun riscontro, né valido fondamento, in quanto cerca di dimenticare che quella Resurrezione è consequenziale alla Sua precedente dolorosa Passione ed ha un senso solo ed esclusivamente con riferimento a quest’ultima. Che senso ha, inoltre, parlare, con riferimento alla raffigurazione del Cristo Crocifisso, di “un’orribile immagine di dolore e sofferenza”, per giustificare la sua asportazione, sostituendola con una croce vuota che, tra l’altro, è diventata oggi, con discutibile gusto, un femminile ornamento? Difficilmente, infatti, una qualsiasi raffigurazione del Cristo Crocifisso potrà mai realisticamente rappresentare la straziante e disumana agonia di un Uomo - che già portava sul suo corpo i segni di una precedente flagellazione e con il capo grondante sangue per la corona di spine – condannato a morire appeso ad una croce con chiodi che gli trafiggevano mani e piedi. Purtroppo, la ricerca smodata del benessere che caratterizza la mentalità del mondo moderno ci porta a prendere le distanze da tutto ciò che non risponde alle nostre aspirazioni, sicché quel Crocifisso, mentre noi cerchiamo, non solo di alleviare (il che sarebbe comprensibile e giusto) ma di sopprimere la sofferenza con qualsiasi mezzo, anche illecito, ci disturba e scandalizza e quasi preferiremmo che, quel giorno, Gesù Cristo avesse accettato la provocazione di quanti continuavano a schermirlo (“Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce”), lasciando vuota quella croce, così come preferita dal reverendo di Broadbridge Heath. “Certamente (sono parole di Benedetto XVI, nell’Enc. “Spe salvi”) bisogna fare tutto il possibile per diminuire la sofferenza: impedire, per quanto possibile, la sofferenza degli innocenti; calmare i dolori; aiutare a superare le sofferenze psichiche…..Sì, dobbiamo fare di tutto per superare la sofferenza, ma eliminarla completamente dal mondo non sta nelle nostre possibilità, semplicemente perché non possiamo scuoterci di dosso la nostra finitezza e perché nessuno di noi è in grado di eliminare il potere del male, della colpa che è continuamente fonte di sofferenza. Questo potrebbe realizzarlo solo Dio: solo un Dio che personalmente entra nella storia facendosi uomo e soffre in essa. Noi sappiamo che questo Dio c’è e che perciò questo potere che toglie il peccato del mondo è presente nel mondo. Con la fede nell’esistenza di questo potere, è emersa nella storia la speranza della guarigione del mondo. Ma si tratta, appunto, di speranza e non ancora di compimento…….Non è lo scansare la sofferenza, la fuga davanti al dolore, che guarisce l’uomo, ma la capacità di accettare la tribolazione e in essa di maturare, di trovare senso mediante l’unione con Cristo, che ha sofferto con infinito amore…..”

9) Avvento: perchè credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio?

Non ho alcuna pretesa di essere in grado di dare una risposta convincente a questa domanda che, forse, ognuno di noi se l’è posta almeno una volta o che, comunque, gli è stata rivolta (provocatoriamente, o meno, da parte di chi sostiene di non credere, ovvero, ha seri dubbi in proposito) più o meno in questi termini: “pur volendo ammettere l’esistenza di un Essere trascendente, in base a quali elementi di giudizio posso operare una scelta tra le innumerevoli religioni, ognuna delle quali afferma di essere depositaria della Verità assoluta, per poter ragionevolmente pervenire alla conclusione che Gesù Cristo è realmente il Figlio di Dio ?”. Ad una simile domanda ritengo che la risposta più appropriata possa essere offerta, al di fuori di inammissibili pretese di avere a disposizione argomenti oggettivamente convincenti, raccontando di sé stessi e, cioè, del come e del perché si è pervenuti ad una certa scelta. Prima di raccontare di me stesso, ritengo opportuna una premessa, richiamandomi all’enciclica “Fides et ratio” di Papa Giovanni Paolo II, il quale, a proposito delle fondamentali domande che ognuno di noi prima o poi si è posto, almeno una volta: “Ha un senso la vita?”, “verso dove è diretta?”, così scriveva. “A prima vista, l’esistenza personale potrebbe presentarsi radicalmente priva di senso. Non è necessario ricorrere al filosofi dell’assurdo né alle provocatorie domande che si trovano nel Libro di Giobbe per dubitare del senso della vita. L’esperienza quotidiana della sofferenza, propria ed altrui, la vista di tanti fatti che alla luce della ragione appaiono inspiegabili, bastano a rendere ineludibile una questione così drammatica come quella sul senso. A ciò si aggiunga che la prima verità assolutamente certa della nostra esistenza, oltre al fatto che esistiamo, è l’inevitabilità della nostra morte. Di fronte a questo dato sconcertante s’impone la ricerca di una risposta esaustiva. Ognuno vuole – e deve – conoscere la verità sulla propria fine. Vuole sapere se la morte sarà il termine definitivo della sua esistenza o se vi è qualcosa che oltrepassa la morte; se gli è consentito sperare in una vita ulteriore oppure no…….…A questi interrogativi nessuno può sfuggire, né il filosofo, né l’uomo comune. Dalla risposta ad essi data dipende una tappa decisiva della ricerca: se sia possibile o meno raggiungere una verità universale e assoluta…………..Non è pensabile che una ricerca così profondamente radicata nella natura umana possa essere del tutto inutile e vana. La stessa capacità di cercare la verità e di porre domande implica già una prima risposta. L’uomo non inizierebbe a cercare ciò che ignorasse del tutto o stimasse assolutamente irraggiungibile. Solo la prospettiva di poter arrivare ad una risposta può indurlo a muovere il primo passo.” Ritornando a parlare di me stesso, mi riferisco ad un determinato momento, di totale disorientamento della mia vita per cui quelle domande acquisivano un particolare valore. Venivo da una famiglia molto religiosa e, fino ad allora, ritenevo di aver sempre correttamente osservato i precetti cristiani, sicché la mia vita procedeva, sotto questo aspetto, in maniera tranquilla; ma in quel determinato momento mi resi conto della spaventosa aridità del mio cristianesimo: ero nella carne e vivevo secondo la carne, ero sulla terra e della terra ero cittadino, obbedivo alla legge, ma con la mia vita non superavo la legge, non ero povero e non arricchivo nessuno. 

Capii subito che la mia barca era profondamente incagliata in acque stagnanti, per esser sempre rimasta solidamente ancorata e legata alla terra ferma con funi robuste e che, se anche avevo dato la mia formale adesione a Cristo, costui, nella mia barca, non era niente di più che uno sconosciuto fantasma; l’ombra del dubbio si ingigantiva fino a coinvolgere i cardini essenziali della mia fede vacillante, investendo anche l’ esistenza stessa di un Dio creatore. Prendendo atto che tutto ciò era determinato dalla circostanza (con riferimento, sempre, alla mia personale esperienza) che quanto ritenevo di credere era frutto di un’accettazione, quasi istintiva ed inconsapevole, di ciò che mi era stato detto ed avevo sentito nell’ambiente in cui ero vissuto e che la crescita e la maturazione personale implicano che queste verità possano essere messe in dubbio e, conseguentemente, vagliate attraverso l’attività critica della ragione, mi accinsi a “muovere i primi passi” sulla strada della ricerca della verità, sempre convinto che “se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancora prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta” (Papa Giovanni Paolo II, enc. “veritatis splendor”). Fondamentale premessa per un serio cammino di ricerca era, poi, costituita dalla considerazione che l’accettazione di determinate verità non poteva essere circoscritta solo a quelle suscettibili di una personale verifica: nel credere, infatti, necessariamente ciascuno deve affidarsi alle conoscenze acquisite da altre persone, specialmente nel campo della ricerca scientifica. Orbene, avendo, soprattutto, presenti le acquisite conoscenze scientifiche sull’origine dell’universo (con particolare riferimento ad un suo “inizio”) che qui non è il caso di approfondire e sulle innumerevoli leggi che lo governano, secondo un evidente e preordinato progetto, sono pervenuto alla conclusione che ammettere l’esistenza di un Dio creatore è un fatto estremamente razionale, in assenza di qualsiasi altra ipotesi ragionevole: si pensi, per esempio, alla teoria della casualità che, sulla base di un calcolo statistico delle probabilità, appare assolutamente inaccettabile. Accettata l’idea di un Dio creatore, sorgeva, poi, il problema di come operare una scelta nell’identificare la “vera” religione. Innanzi tutto ritenni di dover escludere da tale indagine l’induismo, il buddismo, il neoplatonismo plotiniano (che, inizialmente, mi aveva particolarmente colpito) ed, in genere, tutte quelle correnti di pensiero che, pur nella loro indiscutibile ricchezza di contenuti, costituiscono non una vera e propria religione, ma più che altro una filosofia di vita, visto che prescindono dall’idea di un Dio creatore dell’universo e tutte le loro prescrizioni sono finalizzate al raggiungimento di un sereno stile di vita, come, per esempio, il buddista “Nirvana”, che è uno stato di annullamento dei desideri, senza, peraltro, fornire adeguate risposte agli interrogativi come sopra proposti. L’indagine si restringeva, necessariamente, alle tre religioni monoteiste, tutte facenti capo all’idea di un Dio creatore: Ebraismo, Cristianesimo ed Islamismo. Comune fondamento dell’Ebraismo e Cristianesimo è costituito dal complesso di libri sacri, perché ritenuti di ispirazione divina, denominati “Antico Testamento”: lo stesso Islam ne accetta molte parti e molti profeti, riconoscendone un’origine celeste, sia pure alterata dal fluire del tempo e dalla malizia degli uomini. Lo studio approfondito di tali libri, che risultano scritti nell’arco di circa 1500 anni, costituisce un’ardua impresa: in essi si narra come Dio si scelse, con singolare disegno, il popolo di Israele al quale affidare le promesse di salvezza dell’uomo, dopo la “caduta” dell’uomo, avvenuta con il peccato originale, per aver mangiato del frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male, ovvero per aver preteso, opponendosi alla legge divina, di rendersi egli stesso autore di tale legge sulla determinazione di ciò che è bene e ciò che è male. La lettura dei libri dell’Antico Testamento, manifestando a tutti la conoscenza di Dio ed il modo, giusto e misericordioso, con cui si comporta con gli uomini, evidenzia come gli stessi siano soprattutto preordinati a preparare ed annunziare profeticamente l’avvento di un Redentore dell’universo: ed è proprio dalla ricerca e successiva identificazione di tale soggetto che i libri in questione traggono il loro maggiore, se non esclusivo, fondamento di veridicità. Orbene, in detti libri, scritti da innumerevoli autori, in un arco di tempo davvero ingente, si ritrovano oltre trecento precisi riferimenti all’avvento di tale personaggio, identificato con vari appellativi, prevedendone sia il tempo che il luogo della sua nascita ed altri moltissimi dettagli sulla sua vita, morte e risurrezione. Nonostante tali riferimenti, la religione ebraica ha ritenuto caparbiamente che l’avvento come sopra preannunciato non si sia mai verificato, rimanendo tuttora in attesa: un tale rifiuto sembra, invero, difficilmente accettabile, anche in considerazione del fatto che Dio, dopo aver, a più riprese ed in vario modo, parlato per mezzo dei profeti per circa 1500 anni, avrebbe poi ed inspiegabilmente interrotto, da ormai 2000 anni, ogni comunicazione. Per l’Islam, Gesù Cristo altro non è che uno dei tanti Profeti, mentre il vero Messia andrebbe identificato in Maometto, comparso circa 700 anni dopo; sta di fatto, però, che nessuno di quei precisi riferimenti è riconducibile a tale personaggio. Ritornando agli innumerevoli riferimenti profetici, contenuti nell’Antico Testamento, all’avvento di un Messia, sulla base di un’attenta analisi degli stessi, risulta che tutte le circa 330 profezie trovano il loro puntuale e preciso adempimento nella persona di Gesù Cristo. Le più significative riguardano: il momento della morte del Messia, in Daniele, 9: 24-27, ove tale data viene indicata in sessantanove settimane (la traduzione letterale di “settimana” è: “settenario”, dove la parola settenario si intende un periodo di sette anni, corrispondenti, pertanto, complessivamente a 483 anni) successive al decreto sulla ricostruzione di Gerusalemme, del 445 a.C., cioè, con gli aggiustamenti relativi all’anno zero ed alla differenza tra il calendario Giuliano e quello Gregoriano, il 6 aprile dell’anno 32 d.C., giorno in cui Gesù entra in Gerusalemme; il luogo della Sua nascita, in Michea, 5: 1 (“e tu Betlemme…..da te uscirà colui che deve essere il dominatore in Israele”); nato da una vergine (Isaia, 7: 14); della tribù di Giuda (Genesi, 49: 10, “da Giuda………verrà colui al quale esso appartiene ed a cui è dovuta l’obbedienza dei popoli”); venduto per 30 monete d’argento (Zaccaria, 11: 12); tradito da un amico (salmo, 41: 9); accusato da falsi testimoni (Salmo, 35: 11-12); muto davanti ai suoi accusatori (Isaia, 53: 7); flagellato (Salmo, 129: 3); forati le sue mani ed i suoi piedi (Salmo, 22: 16); crocifisso fra due malfattori (Isaia, 53: 12; Salmo 22, 17); intercedette per i suoi persecutori (Isaia, 53: 12); le sue vesti furono divise e sorteggiate (Salmo, 22: 18); gli offrirono fiele ed aceto (Salmo, 69: 21); le sue ossa non furono spezzate (Salmo, 34: 19-20); il suo costato fu trafitto (Zaccaria, 12: 10); fu sepolto nel sepolcro di un ricco (Isaia, 53: 9); soffre e muore per i nostri peccati (Isaia, 53: 4-12); la sua resurrezione (“tu non abbandonerai l’anima mia in potere della morte, né permetterai che il tuo santo subisca la decomposizione”, in Salmi, 16: 10; “dopo il suo intimo tormento vedrà la luce”, in Isaia, 53, 11); la sua ascensione (“tu sei salito in alto, portando prigionieri……., per far qui la tua dimora, o Signore, Dio”, in Salmi, 68: 18). Particolare riferimento meritano, comunque, i capitoli di Isaia da 52: 13 a 53: 12 (di contenuto molto simile al Salmo 22), definiti a ragione “l’Evangelo secondo Isaia”, che descrivono (oltre 700 anni prima la nascita di Gesù) in modo davvero stupefacente, fin nei minimi particolari, la crocifissione del Messia: profezia assolutamente incomprensibile, per gli uomini del suo tempo (lo stesso Isaia, al cap. 53: 1, si interroga: “chi avrebbe creduto al nostro annuncio?”), dato che tale supplizio era del tutto sconosciuto, ma soprattutto perché inaccettabile appariva l’idea che la potenza salvifica di Dio si manifestasse nel Servo umiliato, condannato, ucciso, offrendo “se stesso in espiazione” (cap. 53: 10) dei peccati di tutti. Se si considera, comunque, il rilevante numero delle profezie contenute nell’A.T., formulate da diversi soggetti in un lunghissimo arco di tempo (circa 1500 anni) e che tutte (nessuna esclusa) trovano perfettamente riscontro nella persona storica di Gesù Cristo, da tutto ciò sembra davvero ragionevole dedurne che è Lui il Messia, per tanti secoli preannunciato: non può sottacersi, a tal proposito, che nessuna religione, diversa dal Cristianesimo, conosce un tale genere di così innumerevoli dimostrazioni probanti. Da tale rilevata identificazione segue, poi, la logica conseguenza che il complesso delle profezie dell’A.T. sopra ricordate, da un lato, e la persona di Gesù Cristo, dall’altro, si avvalorano reciprocamente, dovendo ragionevolmente escludere che detta coincidenza sia frutto di un caso, assolutamente improbabile. Ma chi era realmente Gesù Cristo? (“voi chi dite che io sia?”, Mc. 8: 29). A tal proposito, lClive Staples Lewis, noto scrittore irlandese, scriveva: "Sto cercando di impedire che qualcuno dica del Cristo quella sciocchezza che spesso si sente ripetere: 'Sono pronto ad accettare Gesù come un grande maestro di morale, ma non accetto la sua pretesa di essere Dio'. Questa è proprio l'unica cosa che non dobbiamo dire. Un uomo che fosse soltanto uomo e dicesse il genere di cose dette da Gesù non sarebbe un grande maestro di morale. Sarebbe stato un folle — come un uomo che affermasse di essere un uovo alla coque — o sarebbe il diavolo in persona. Dovete scegliere. O quest’uomo era, ed è, il Figlio di Dio, oppure è un pazzo o qualcosa di peggio… ma non caviamocela con qualche condiscendente assurdità del tipo che era un grande maestro dell’umanità”. La vera identità di Gesù Cristo si rivela, infatti, oltre che negli innumerevoli miracoli compiuti, essenzialmente nella Sua predicazione, con particolare riferimento alle “Beatitudini”, vero e proprio “rovesciamento dei valori”, nelle quali risplende la nuova immagine del mondo e dell’uomo che Gesù inaugura. Nelle Beatitudini, “l’Io di Gesù – come magistralmente scrive Benedetto XVI, nel suo “Gesù di Nazaret” – risalta in un grado che nessun maestro della Legge può permettersi. La folla lo percepisce, Matteo ci dice espressamente che il popolo ‘si spaventò’ per il suo modo di insegnare. Non insegnava come i rabbini, ma come uno che ha ‘autorità’, Con queste espressioni, evidentemente, non ci si riferisce a una qualità retorica dei discorsi di Gesù, ma alla palese rivendicazione di essere all’altezza del Legislatore, all’altezza di Dio. Lo ‘spavento’ (la traduzione della CEI lo addolcisce, purtroppo, usando il vocabolo ‘stupore’) è proprio quello provocato da un uomo che osa parlare con l’autorità di Dio. Così facendo o profana la maestà di Dio, e sarebbe una cosa terribile, o invece, è davvero all’altezza di Dio.” Gesù, inoltre, ha affermato in modo chiaro ed inequivocabile di essere Dio (“Io ed il Padre siamo una cosa sola”), “la via, la verità e la vita”, di essere venuto, con l’offerta del Suo corpo in sacrificio, a “riscattare” l’uomo dal suo peccato, unitamente al dono della vita eterna e, con l’istituzione dell’Eucaristia, ad invitare tutti a mangiarne (“prendete, questo è il mio corpo”, Mc. 14: 22) . Simili affermazioni che una mente umana non avrebbe mai potuto concepire, se proferite da un uomo, non avrebbero potuto avere altra provenienza che da un esaltato fuori di sé, da un bugiardo (quindi, come tale, bollato per sempre dagli storici che, concordemente hanno, invece, sempre scartato tale ipotesi) e, quindi, non da un profeta, da un grande maestro, da un sant’uomo. Da queste brevi riflessioni, suscettibili di ulteriori e più validi approfondimenti, appare ragionevole ammettere (sempre quale risultato di una personale valutazione che nessuno può avere la presunzione di imporre come verità assoluta) che il “Gesù storico” coincida con il Gesù Figlio di Dio raccontato nei Vangeli; del resto la stessa Sacra Scrittura veterotestamentaria ne annunciava la Sua divinità (Isaia, 9: 5-6): “Poiché un bambino è nato per noi, ci è stato dato un figlio. Sulle sue spalle è il segno della sovranità ed è chiamato: ‘Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace’; grande sarà il suo dominio e la pace non avrà fine sul trono di Davide e sul regno, che egli viene a consolidare e rafforzare con il diritto e la giustizia, ora e sempre; questo farà lo zelo del Signore degli eserciti”. “Io sono convinto – così scrive Benedetto XVI nella premessa al suo “Gesù di Nazaret” – e spero che se ne possa rendere conto anche il lettore (il quale “è libero di contraddirmi”, come è scritto in altra parte della stessa premessa), che questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni. Io ritengo che proprio questo Gesù – quello dei Vangeli – sia una figura storicamente sensata e convincente”.

10) Una cripta tutto oro e luce

Mi sono recato, di recente, a San Giovanni Rotondo per visitare i luoghi ove San Pio da Pietrelcina ha trascorso gran parte della sua vita, tanto tormentata e feconda di santità, da portarlo agli onori degli altari In brevissimo tempo. Particolare emozione mi ha suscitato la Chiesa di San Michele Arcangelo, nell’omonimo paese, tanto cara a Padre Pio, ricavata in una grotta naturale, ove apparve l’Arcangelo Michele, per la prima volta, nel 490; nel successivo anno 493, Papa Gelasio I decise di consacrare quella grotta a San Michele, dando l’incarico al vescovo Lorenzo Maiorano. Il vescovo entrò nella grotta per eseguire l’ordine ricevuto, ma gli apparve l’Arcangelo che gli annunciò che la cerimonia di consacrazione non sarebbe stata necessaria poiché egli stesso aveva consacrato quel luogo con la sua presenza: sicché la sacra grotta, che rimane fino ai nostri giorni l’unico luogo di culto al mondo mai consacrato da mano umana, ricevette nel corso dei secoli il titolo di “Celeste Basilica”. Anche San Francesco d’Assisi si recò in visita a san Michele Arcangelo, ma non sentendosi degno di entrare nella grotta, si fermò in preghiera e raccoglimento all’ingresso, baciando la terra ed incidendo su di una pietra il segno di croce in forma di “T” (Tau). Si racconta che Padre Pio, più di una volta, meravigliato della gran folla che si recava da lui, avesse invitato i fedeli a visitare, piuttosto, quel sacro luogo: in effetti la particolarità della grotta che si raggiunge scendendo attraverso una lunga scalinata, con quella volta naturale resa scura dal fumo delle candele e lumini messi lì, davanti all’altare, dalla devozioni dei fedeli, suscita profonda emozione, nel ricordo che una simile spelonca sia stata misteriosamente scelta dall’Arcangelo Michele, per le Sue apparizioni. Luogo, quindi, ove entrare a piedi nudi, in silenzio e raccoglimento, nella contemplazione del mistero ivi racchiuso. Non così è avvenuto, per quel che mi riguarda, nel visitare la Cripta, destinata ad accogliere i resti mortali di Padre Pio, situata nella parte sottostante la nuovissima Chiesa, opera monumentale ed imponente di altissimo pregio architettonico. La Cripta in questione, o meglio la “Chiesa inferiore” (così come indicata, forse non a caso, dagli appositi cartelli), inaugurata nell’estate scorsa è stata realizzata avvalendosi della collaborazione di validissimi artisti contemporanei e, soprattutto, per i meravigliosi mosaici, dell’opera di padre Marko Rupnik, uno dei più grandi esperti di arte sacra. Si tratta di un’opera, davvero, faraonica: sulle pareti laterali della rampa che immette alla cripta sono ricavate 36 nicchie che rappresentano, sui due lati contrapposti, episodi della vita di San Francesco e di San Pio; al termine del percorso della rampa sono raffigurate altre 16 immagini sulla vita di Gesù Cristo. I mosaici (tutti riconosciuti, dagli esperti, ineccepibili anche sul piano teologico) ricoprono una superficie complessiva di circa 2mila metri quadrati, tra rampa e chiesa inferiore. Il tutto è stato realizzato, compreso l’ampio soffitto, con una enorme profusione di oro zecchino (donato dai fedeli di tutto il mondo in 20 anni di pellegrinaggi) che conferisce all’ambiente, illuminato da una luce sfolgorante, un aspetto del tutto particolare e, soprattutto, inatteso che non può non determinare stupore nel visitatore, con tutte le conseguenti inevitabili critiche e polemiche. A parte l’indiscutibile pregio artistico dell’opera, (la cui valutazione, comunque, sarebbe meglio riservarla agli esperti del settore), le critiche vengono essenzialmente alimentate da due diverse motivazioni: la prima riguarda l’eccessivo costo dell’opera e, la seconda, la considerazione che un luogo simile non risulterebbe di gradimento da parte di Padre Pio, in quanto, certamente, non in linea con i valori della spiritualità francescana che il Santo impersonava. L’alto costo complessivo (ancorché coperto dalle donazioni dei fedeli) induce, invero troppo facilmente, a ritenere che quelle disponibilità potevano essere meglio spese (a favore dei più bisognosi); di contro, appare quanto meno inappropriato il richiamo (effettuato a sostegno dell’opportunità della spesa) all’episodio, raccontato nei Vangeli, dell’olio profumato e molto prezioso cosparso sui piedi di Gesù ed alla critica (respinta dallo stesso Gesù) rivolta da Giuda Iscariota, secondo cui quell’olio lo si poteva vendere per dare il ricavato ai poveri. Quanto, poi, all’ovvia considerazione che l’eccessivo sfarzo e ricchezza di quel luogo non corrisponde allo stile di vita di Padre Pio è, comunque, lecito pensare che, nel suo attuale stato di Grazia, alla presenza del Signore ed inondato da una luce e splendore, assolutamente inimmaginabili e, comunque, certamente non paragonabili a quelli della Cripta, il Santo, di fronte a tali polemiche, se lassù gli dovessero pervenire, non potrebbe fare altro che accoglierle con un bonario ed ironico sorriso. Se queste sono le motivazioni a sostegno dell’inopportunità della realizzazione della Cripta, così come avvenuta, non mi sembra di poterle condividere: rimane, comunque, in me il ricordo di quell’istintiva perplessità provata nell’impatto con quel luogo; d’altra parte la stessa perplessità, se non addirittura vero e proprio imbarazzo, mi risulta, lo abbiano provato in molti. Le motivazioni, allora, vanno ricercate altrove. Il concetto di “cripta”, comunemente, evoca, infatti, un luogo (solitamente destinato ad accogliere i resti mortali di qualche santo), sotterraneo, riservato, appartato, ove raccogliersi in silenziosa preghiera: il ricordo non può non andare ai numerosissimi esempi di cripte esistenti, nelle più rinomate Chiese e Basiliche (costituenti, a volte, anche impareggiabili opere d’arte), unitamente alle conseguenti intime emozioni dalle stesse suscitate. Allora, le perplessità che possono istintivamente sorgere visitando la nuova Cripta che dovrebbe accogliere le spoglie mortali di San Pio, forse, non andrebbero riferite né alla spesa, né alla presunta avversione di Padre Pio per un simile luogo, così come è stato realizzato, bensì alla sua oggettiva inidoneità ad accogliere quanti, devotamente, si rechino in pellegrinaggio alla tomba del Santo. Entrando, infatti, in quella Cripta, o meglio “Chiesa inferiore”, si ha quasi la sensazione che gli ideatori di quell’opera siano andati all’affannosa ricerca (riuscendoci in pieno) della realizzazione di qualcosa di nuovo, di diverso, di esageratamente spettacolare, con tutto quello splendore diffuso dallo scintillio di ori largamente profusi in una luce abbagliante, tutte cose delle quali la Chiesa, specialmente nell’attuale momento, non ne ha proprio il bisogno e rendendo, così, quel luogo stesso (ove, tra l’altro, non potrà essere accesa nessuna candela, per non deturpare un così prezioso soffitto) veramente poco idoneo ad accogliere il pellegrino “vero”, quello, cioè, che intraprende il viaggio per San Giovanni Rotondo per raccogliersi, devotamente, in preghiera sulla tomba del Santo e che, invece, si verrebbe a trovare in un luogo che al raccoglimento ed alla preghiera non induce affatto, ma solo alla distrazione ed all’attenzione di tutto ciò che lo circonda, in maniera davvero insolita, con tutti i conseguenti ed inevitabili commenti, non importa se d’ammirazione ed approvazione o di malevoli critiche ed inutili polemiche. Non può, comunque, sottacersi che, in un mondo ove predomina la ricerca smodata della ricchezza e del benessere, da conseguirsi ad ogni costo, lasciando prevalere il proprio egoismo sui bisogni altrui, quel luogo, certamente, non appare in linea con quei principi di amore, di solidarietà e, soprattutto, di sobrietà che, invece, purtroppo solo a parole, vengono a gran voce predicati, sicché potrebbe apparire opportuno, su di esso, abbassare un po’ le luci. Con queste mie brevi annotazioni non era, certo, mia intenzione fare un “predica” che non mi competeva affatto (soprattutto per la pochezza del pulpito dal quale perverrebbe), ma solo manifestare qualche perplessità di un comune credente, di fronte a qualcosa istintivamente non ritenuta opportuna, anche se la maggioranza dei visitatori, visitando quel sacro luogo, possa trarne diverse conclusioni. Mi sia, comunque, consentito di concludere formulando un auspicio: che le venerate spoglie mortali di Padre Pio restino lì, dove attualmente si trovano

11) Stato e Chiesa: indebita ingerenza della Chiesa nella politica italiana?

Il tema dei rapporti tra Stato e Chiesa è stato sempre un tema molto delicato e controverso e di grande attualità; non può contestarsi che, di recente, gli interventi della Chiesa si siano fatti sentire più che nel passato: è, pertanto, lecito chiedersi del perché di tale atteggiamento. In via preliminare occorre considerare che, se è vero che Stato e Chiesa cattolica sono, ciascuno nel “proprio ordine”, indipendenti e sovrani, è indispensabile chiarire quale sia il confine invalicabile di detto “proprio ordine” di ciascuno. Ai fini dell’identificazione della sfera di competenza attribuita ai due soggetti in questione, per un proprio naturale e legittimo intervento, può essere utile richiamarsi, sia pure succintamente, alla distinzione che intercorre tra il campo del “diritto” e quello della “morale”. Il diritto, secondo le prevalenti definizioni formulate dai cultori della filosofia del diritto, può definirsi come il complesso delle norme giuridiche (leggi) che, positivamente, sono stabilite, sulla base di vari procedimenti, al fine di regolamentare tutti i possibili rapporti umani intercorrenti tra i soggetti di una collettività (sia nel campo civile che penale): secondo un principio, generalmente accettato, detta regolamentazione deve, poi, necessariamente ispirarsi ad indirizzi che rispondano alle esigenze del raggiungimento di una civile e giusta convivenza, garantendo il rispetto delle libertà individuali ed è, per questo, che l’attività politica in senso lato, che presiede all’attuazione di tale regolamentazione, è senz’altro da definirsi una delle più nobili attività dell’uomo, in quanto finalizzata, appunto, all’attuazione del bene comune. Di conseguenza sono leciti e legittimi tutti gli atti e comportamenti che risultino conformi a tale regolamentazione, mentre andranno perseguiti quelli che non realizzino detta conformità, demandando alla magistratura il compito di ristabilire l’ordine violato. Il diritto positivo non dovrebbe, comunque, mai prescindere da quel complesso di regole, definite “diritto naturale” (universalmente riconosciuto) che, rivelate direttamente dalla ragione ed informate alla natura dell’uomo, hanno carattere universale e non particolare come i singoli diritti costituiti: rappresentando la perfetta giustizia, tali regole, pur essendo solo un concetto speculativo e non già un diritto vero e proprio, costituiscono pur sempre l’ideale del giusto e formano, di conseguenza, il modello a cui ogni legislazione positiva dovrebbe ispirarsi, soprattutto nella difesa delle posizioni dei soggetti più deboli ed indifesi e garantendo la tutela di quelle istituzioni naturali sulle quali fondare una civile convivenza, come, per esempio, quella della famiglia, naturalmente costituita dall’unione di un uomo ed una donna. Il “diritto naturale” è, per S. Tommaso d’Aquino, “partecipazione della legge eterna di Dio nella creatura razionale”; “rispetto alle altre creature – scrive infatti San Tommaso – la creatura razionale è soggetta in un modo più eccellente alla divina provvidenza, in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all’atto ed al fine dovuti”. Così,se la legge è la fonte del diritto, è, invece, la coscienza di ognuno di noi ad individuare nella morale il complesso delle norme scritte dall’amore di Dio nei nostri cuori e finalizzate a realizzare in noi la vera libertà, libertà da tutto ciò che è male ed allontana dal godimento dell’unico vero Bene. Infatti, se per coscienza, correttamente, si intende la facoltà dell’animo umano di valutare positivamente o negativamente i singoli nostri comportamenti, è evidente che la nostra coscienza non possa essere la fonte della legge morale: dobbiamo constatare, allora, che la nostra coscienza si limita solo a presupporre e, quindi, ad attestare l’esistenza di una legge che necessariamente è estrinseca alla coscienza stessa e deve essere obbiettiva ed univoca, rispondendo ai requisiti di universalità ed immutabilità; tale legge non potendo provenire dall’uomo deve necessariamente riferirsi al suo Creatore. Il campo della norma morale ha, pertanto, un’estensione più vasta della norma giuridica: mentre la prima si dirige al momento interno, psichico, all’intenzione che determina l’azione, la norma giuridica si dirige invece al momento esterno, fisico, cioè all’atto esteriore: pur intersecandosi tra loro in mille modi, i due campi d’azione non possono, comunque, confondersi. Tra diritto e morale, il diritto così detto “naturale” si pone, poi, come patrimonio comune ed imprescindibile, costituendo, per il diritto, un suo limite naturalmente invalicabile. Così definiti, è evidente che non può sussistere un problema di contrapposizione tra diritto e morale: infatti, mentre il più delle volte i principi morali, nel senso su indicato, coincidono con quelli codificati dalla legge umana, altre volte, il precetto morale, senza peraltro contraddire, nella sua validità, il diritto positivo, indica all’uomo una modalità di essere ulteriore e diversa che trascende e supera gli stretti confini della norma giuridica. Ritengo che un episodio, tratto dal Vangelo di Luca, possa chiarire efficacemente quanto sopra affermato. Al capitolo 12, 13-15, è scritto che: “uno della folla gli disse: ‘Maestro, dì a mio fratello che divida con me l’eredità’. Ma egli rispose: ‘O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?’ E disse loro:’guardatevi e tenetevi lontano da ogni cupidigia, perché anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende dai suoi beni”. E’ chiara, infatti, la risposta data da Gesù a chi gli chiedeva di giudicare su di una controversia ereditaria: non era Lui il giudice “costituito” per risolvere tale controversia, implicitamente invitando i contendenti a rivolgersi al legittimo giudice, al quale non riteneva di doversi sostituire. Nello stesso tempo, pur rispettando la validità della legge e della giustizia umana, Gesù non si sottrae dall’indicare uno dei fondamentali precetti della morale cristiana, consistente nello stare “lontano da ogni cupidigia”, dato che la vita dell’uomo “non dipende dai suoi beni”. Ma allora quando sorge conflittualità tra i due “ordini” ?. La conflittualità si manifesta quando l’uomo, abusando del potere di dettare le proprie leggi civili, sulla base di un mal interpretato diritto all’affermazione della propria libertà, cerca di sovvertire l’ordine naturale delle cose, in contrasto con quei principi propri dello stesso diritto naturale, come sopra richiamati, invadendo, così, il campo della morale. Tutto ciò avviene nel mondo moderno, in presenza di idee, riprese da alcuni filosofi contemporanei, secondo cui bisogna ad ogni costo scartare l’ipotesi dell’esistenza di Dio perché se Dio esiste, sa tutto ed è lui che muove i fili della grande commedia che gli uomini recitano, come veri fantocci o marionette: è, pertanto, necessario che non ci sia una verità già fatta; bisogna invece che, giorno dopo giorno, l’uomo inventi la verità, senza alcun riferimento a principi a lui esterni. Di conseguenza, la speranza del mondo moderno, che si basa esclusivamente su una fede nell’uomo e nelle sue energie, sfocia inevitabilmente nell’ateismo: né la natura, né lo stato, né la coscienza morale sono più il luogo della presenza di Dio, diventate, invece, il luogo della potenza dell’uomo. Di fronte al dilagare di tali principi, è comprensibile come si possa pervenire, a solo titolo esemplificativo, alla legalizzazione dell’aborto, del divorzio e dell’eutanasia, nei confronti dei quali la Chiesa non ha alcuna possibilità di ostacolarne l’attuazione; nello stesso tempo, però, non può negarsi alla stessa il diritto, se non il dovere, di far sentire la propria voce, che non è affatto “ingerenza” in affari che non la riguardano, bensì vera e propria denuncia di un’invasione di campo. Così il Papa non si stanca di ripetere che divorzio e aborto sono “colpe gravi” che “ledono la dignità della persona umana, implicano una profonda ingiustizia nei rapporti umani e sociali e offendono Dio stesso, garante del patto coniugale ed autore della vita”, mentre “l’eutanasia è un esempio della cultura della morte il cui avanzare insidia la stagione della terza età: con crescente insistenza si giunge persino a proporre l’eutanasia come soluzione per risolvere certe situazioni difficili”. A tali ferme denunce, il Papa associa sempre l’invito alla Chiesa ad “accostarsi con amore e delicatezza, con premura ed attenzione materna alle persone che portano le ferite interiori di tali situazioni e cercano la possibilità di una ripresa”.

12) Il dialogo tra ebrei e cristiani

Di recente il Papa Benedetto XVI si è recato nella Sinagoga ebraica di Roma e non è esagerato definire storico il suo incontro con la comunità ebraica romana: questa, infatti, è stata la seconda visita papale, in tantissimi secoli; la prima avvenne ventiquattro anni fa ad opera di Giovanni Paolo II. “Possano le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo essere sanate per sempre”: questo l’auspicio espresso da Papa, nel suo discorso, ricordando come la Chiesa non abbia mai mancato di deplorare le “mancanze dei suoi figli e sue figlie, chiedendo perdono per tutto ciò che ha potuto favorire in qualche modo le piaghe dell’antisemitismo e dell’antigiudaismo” e ribadendo, con la sua visita, l’importanza di “ritrovarci assieme a rendere più saldi i legami che ci uniscono e continuare a percorrere la strada della riconciliazione e della fraternità”, superando “ogni incomprensione e pregiudizio”. L’incontro si è concluso sulle note di un coro ebraico di invocazione al “Messia che tarda a venire”. Prescindendo da tutte le polemiche e commenti sul nodo storico ancora irrisolto circa i famosi “silenzi di Pio XII” sull’Olocausto degli ebrei, non può contestarsi la persistenza, più o meno latente in larga parte dei cattolici, di taluni pregiudizi che rendono difficile se non addirittura impossibile un costruttivo dialogo con i fratelli ebrei: viene, infatti, facilmente alla mente il luogo comune, secondo cui, mentre l’ “Antico Testamento” accomuna ebrei e cristiani, la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Al riguardo va, in via di principio, considerato (soprattutto nell’ambito del rapporto tra religioni diverse) come risulti davvero difficile qualsiasi fruttuoso dialogo tra due soggetti, qualora, a fronte di ostentate dichiarazioni di buone intenzioni, uno dei due, o entrambi, partano da una irrinunciabile riserva mentale di ritenersi, ciascuno, depositario della verità, mentre ciò che è oggetto della fede dell’altro è solo errore: è chiaro che una simile preconcetta posizione non porti da nessuna parte o, peggio, solo all’acuirsi delle differenze già ben note che, così, diventano davvero insormontabili. Tutto ciò non significa che, nel dialogo, ciascuno debba essere disponibile a rinunciare alla propria verità, ma è necessario sempre cercare ciò che c’è di positivo nell’altro che deve diventare, per me, un aiuto sulla strada verso la verità: è fin troppo facile, infatti, porsi in atteggiamento critico nei confronti di un’altra religione, ma dobbiamo anche essere pronti ad accogliere critiche rivolte a noi stessi, alla nostra stessa religione. E’ il dialogo, infatti, a far riemergere la nube di mistero che avvolge le nostre verità e che ci deve indurre, almeno, a comprendere le ragioni dell’altro, il quale, pertanto, non va individuato come qualcuno cui indirizzare il nostro annuncio, ma come qualcuno dal quale possiamo anche ricevere. Queste considerazioni risultano magistralmente enunciate nel testo di una conferenza tenuta dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger, nel 1997, a Parigi, all’ Académie des Sciences Morales et Politiques dal titolo: “Il dialogo delle religioni e il rapporto tra ebrei e cristiani”, che vale la pena di ricordare e sintetizzare brevemente. Preliminarmente, il Cardinale Ratzinger, sulla “questione dell’unità nella diversità”, testualmente osservava: “Il problema dell'ecumenismo delle religioni si pone oggi nel contesto di un mondo che, se da un lato si fa sempre più piccolo, divenendo sempre più un unico spazio comune della storia umana, dall'altro è sconvolto da guerre, diviso da tensioni crescenti tra poveri e ricchi e, infine, minacciato dall'abuso del potere della tecnica di intervenire su aspetti essenziali dell'ambiente. A partire da questa triplice minaccia si è venuta formando una nuova scala di valori morali, che cerca di definire il compito essenziale dell'umanità in questo momento della storia mediante il trinomio pace-giustizia-rispetto del creato. Religione e morale non sono identiche, ma sono comunque indissolubilmente legate tra loro. È chiaro quindi che in quest' ora, in cui l'umanità ha acquisito la possibilità dell' autodistruzione e della distruzione del proprio pianeta, le religioni sono coinvolte nella comune responsabilità di vincere questa tentazione. Esse vengono valutate in modo particolare in base a questa scala di valori, che appare sempre più come il loro compito comune e, di conseguenza, anche la formula della loro conciliazione……..” In tale situazione, sorge la tentazione, sulla via della ricerca di un incontro tra le diverse religioni, di seguire una via che il Cardinale Ratzinger definiva “pragmatica”: ”tutte le religioni dovrebbero rinunciare all'interminabile controversia sulla verità e riconoscere la loro vera essenza, la loro effettiva finalità spirituale, nell'ortoprassi, la cui via, ancora una volta, appare chiaramente tracciata dalle sfide del tempo presente. L'ortoprassi potrebbe in fondo consistere solo nel servizio alla pace, alla giustizia e alla salvaguardia del creato. Le religioni potrebbero conservare tutti i loro credi, forme e riti, ma finalizzati a questa giusta prassi……. Potrebbero, quindi, tutte mantenere le proprie consuetudini; ogni controversia diverrebbe superflua ed esse diventerebbero tutte una cosa sola nella modalità richiesta dalle sfide del momento…………” “Basta poco per vedere che questo è un corto circuito. Ovviamente l'impegno per la pace, la giustizia e il rispetto del creato è della massima importanza, e la religione dovrebbe senza dubbio fornire uno stimolo fondamentale in tale direzione. Ma le religioni non possiedono una conoscenza a priori di ciò che hic et nunc è utile alla pace, di come sia possibile costruire la giustizia sociale negli Stati e fra gli Stati, di come si possa tutelare nel modo migliore la creazione, custodendola responsabilmente secondo l'intenzione del creatore. Tutto ciò deve essere elaborato razionalmente di volta in volta. Inoltre occorre tener conto del libero confronto tra opinioni differenti e del rispetto di percorsi diversi. Dove questo pluralismo, spesso non superabile, dei percorsi e il faticoso confronto razionale vengono scavalcati da un moralismo con motivazioni religiose e una sola via è dichiarata giusta, la religione si trasforma in dittatura ideologica, il cui furore totalitario non costruisce la pace, ma la distrugge. La religione non può essere subordinata a una finalità pratico-politica, che poi diventa il suo idolo. L'uomo asserve Dio ai propri fini e in tal modo degrada Dio e se stesso. A tale proposito circa quarant' anni fa J. A. Cuttat scrisse un'osservazione molto saggia: ‘Una cosa è cercare di rendere migliore e più felice l'umanità mediante l'unificazione delle religioni. Altra cosa è, invece, invocare ardentemente l'unione di tutti gli uomini nell'amore a uno stesso Dio. E la prima è forse la più sottile tentazione luciferina, che mira a far naufragare la seconda’. Questo rifiuto di trasformare la religione in moralismo politico non cambia naturalmente il fatto che l'educazione alla pace, alla giustizia e all' amore per il Creatore e il creato restano tra i compiti essenziali della fede cristiana e di ogni religione, e a tal proposito si può citare opportunamente l'affermazione evangelica: dai loro frutti li riconoscerete”. Venendo, poi, a parlare del rapporto tra ebrei e cristiani, il Cardinale Ratzinger, sempre nella conferenza su citata, metteva in evidenza come: “al lettore medio verrà in mente il luogo comune secondo cui la Bibbia degli ebrei, 1'«Antico Testamento», accomuna ebrei e cristiani, mentre la fede in Gesù Cristo come figlio di Dio e redentore li separa. Tuttavia si può facilmente vedere quanto sia superficiale una simile distinzione tra ciò che unisce e ciò che separa. Infatti va detto anzitutto che mediante Cristo la Bibbia di Israele è giunta ai non ebrei ed è divenuta anche la loro Bibbia. Quando la lettera agli Efesini dice che Cristo ha abbattuto il muro che divideva i giudei dalle altre religioni del mondo e ha ristabilito l'unità, non si tratta di vuota retorica teologica, ma di una constatazione del tutto empirica, anche se nel dato empirico non può essere compresa l'intera portata dell'affermazione teologica. Infatti mediante l'incontro con Gesù di Nazareth il Dio di Israele è divenuto il Dio di tutti i popoli della terra. Attraverso di lui si è di fatto adempiuta la promessa secondo cui i popoli avrebbero adorato il Dio di Israele come l'unico Dio, secondo cui il «monte del Signore» sarebbe stato innalzato al di sopra di tutti gli altri monti. Se Israele non può vedere in Gesù il figlio di Dio, come i cristiani, non gli è però assolutamente impossibile riconoscere in lui il servo di Dio, che porta ai popoli la luce del suo Dio. E, viceversa, anche se i cristiani desiderano che Israele possa un giorno riconoscere Cristo come il figlio di Dio, superando così la frattura che ancora li divide, essi dovrebbero comunque riconoscere il piano di Dio, che ha affidato chiaramente a Israele una sua missione nel «tempo dei pagani». I Padri la sintetizzano nel modo seguente: Israele deve restare di fronte a noi come il primo possessore della sacra Scrittura, per rendere proprio così testimonianza davanti al mondo. Ma che cosa dice questa testimonianza? Penso si possa dire che per la fede di Israele sono essenziali due cose. Anzitutto c'è la Torah, il vincolo alla volontà di Dio, e quindi l'instaurazione della sua signoria, del suo regno in questo mondo. E c'è, d'altro canto, lo sguardo della speranza, l'attesa del Messia - l' attesa, anzi, la certezza - che Dio stesso entrerà in questa storia e realizzerà la giustizia, alla quale noi possiamo solo avvicinarci in forme molto imperfette. Si legano così le tre dimensioni del tempo: l'obbedienza alla volontà di Dio si rifà a una parola enunciata, che ora sta nella storia e che vuole essere resa ogni volta presente nell'obbedienza. Questa - un frammento della giustizia di Dio reso presente nel tempo - è un andare incontro al futuro, in cui Dio raccoglierà i frammenti del tempo e lui ingloberà tutti nella sua giustizia. Questa immagine fondamentale non è abbandonata nel cristianesimo. La triade di fede, speranza e amore corrisponde sotto certi aspetti alle tre dimensioni del tempo: l'obbedienza della fede accoglie la parola che viene dall'eternità ed è mandata nella storia, la trasforma in amore, in presente, e apre così la porta della speranza. Ciò che è peculiare della fede cristiana è che tutte e tre le dimensioni sono unite e sostenute nella figura di Cristo, mediante la quale esse verranno mantenute insieme anche nell'eternità. In lui coesistono tempo ed eternità ed è colmato l'abisso infinito tra Dio e l'uomo. Cristo infatti è colui che è venuto, ma che non ha mai cessato di essere presso il Padre; egli è presente nella comunità dei credenti, e tuttavia, al tempo stesso, è ancora colui che viene. Anche la Chiesa attende il Messia, che già conosce e a cui per prima egli manifesterà la sua gloria. Obbedienza e promessa sono una cosa sola anche per la fede cristiana. Cristo è per i cristiani il Sinai presente, la Torah vivente, che ci impegna con la sua chiamata vincolante e, d'altra parte, ci coinvolge nel vasto spazio dell'amore e delle sue possibilità inesauribili. Egli è quindi la garanzia della speranza nel Dio che non lascia cadere la storia nell'insussistenza dell'effimero, ma la sostiene e la conduce alla meta. Anche qui è dunque vero che la figura di Cristo congiunge e divide allo stesso tempo Israele e la Chiesa: non è in nostro potere superare questa divisione, ma essa ci tiene insieme sulla via di colui che viene e non può essere quindi sentita come motivo di inimicizia”. Concludendo la sua dotta esposizione, il Cardinale Ratzinger si poneva questa domanda: “che significa questo concretamente? Che cosa ci si può aspettare da una simile lettura del cristianesimo per il dialogo interreligioso? Ebbene, diciamolo subito francamente: chi volesse puntare all'unificazione delle religioni come risultato del dialogo interreligioso, può solo restarne deluso. Nelle nostre circostanze storiche una cosa simile è difficilmente possibile e forse non è nemmeno auspicabile. E allora? Desidero fare tre osservazioni. La prima: l'incontro tra le religioni non può avvenire nella rinuncia alla verità, ma è possibile solo mediante il suo approfondimento. Lo scetticismo non unisce. E nemmeno il puro pragmatismo unisce. Ambedue le posizioni non fanno che aprire la porta alle ideologie che, poi, si presentano in maniera ancor più sicura di sé. La rinuncia alla verità e alla convinzione non innalza l'uomo, ma lo consegna al calcolo dell’utile, privandolo della sua grandezza. Vanno incoraggiati invece il rispetto profondo per la fede dell'altro e la disponibilità a cercare, in ciò che incontriamo come estraneo, la verità che ci può concernere e può correggerci e farci progredire. Va incoraggiata la disponibilità a cercare, dietro alle manifestazioni che ci possono sembrare strane, il significato più profondo che si cela in esse. Va inoltre incoraggiata la disponibilità ad abbandonare la ristrettezza del nostro modo di intendere la verità, così da comprendere meglio ciò che ci appartiene, imparando a capire l' altro e lasciandoci così guidare sulla strada del Dio più grande - nella convinzione di non possedere pienamente la verità su Dio e di essere sempre dinanzi a essa persone che imparano, pellegrini alla sua ricerca, su una strada che mai avrà fine”.

13) Misticismo: via privilegiata dell'amore di Dio

Parlare di misticismo, nell’attuale momento storico, può apparire, davvero, fuor di luogo: manca, quasi, il coraggio di affrontare un argomento che sembra anacronistico, come un qualcosa non più rispondente ai bisogni ed alle aspettative della gente. Ciò dipende, essenzialmente, dall’errata rappresentazione fornita dall’immaginario collettivo che identifica il mistico come colui che vive in un mondo irreale, frutto della sua visione contemplativa, sempre rivolta al sovrannaturale ed in continue ascesi, visioni e fenomeni più o meno paranormali che, distogliendolo dalla realtà che lo circonda, lo spingono ad un’unione profonda e spirituale con Dio, che diventa il fine ultimo ed il soggetto verso cui riporre un amore smisurato ed incomprensibile dai più, con il risultato di essere ritenuto un fanatico se non addirittura persona afflitta da gravi problemi psichici. Una corretta definizione del “misticismo” appare, invero, estremamente difficile, soprattutto perché quasi tutte le religioni conoscono varie forme di misticismo: il mistico, comunque, a qualsiasi religione appartenga, è da tutti identificabile come colui che “contempla". Ma in che consiste la contemplazione? “Spesso, destandomi a me stesso dal mio sogno corporeo e diventato estraneo a ogni cosa, io contemplo nel mio intimo una bellezza meravigliosa e credo, soprattutto allora, di appartenere a un più alto destino; realizzando una vita migliore, unificato col Divino e fondato su di esso, io arrivo ad esercitare un’attività che mi pone al di sopra di ogni altro essere spirituale”: con questo stupendo esordio, Plotino (205 – 270 d.c.) che è da considerarsi uno degli autori che più di ogni altro abbia trattato l’argomento della “contemplazione", inizia a parlare, nelle sue “Enneadi” (IV 8, 1) di questa particolare “attività”: in esse viene evidenziato il carattere primario del “contemplare” rispetto al “fare”, basandosi, per detto autore, la differenza tra le due “attività” essenzialmente sullo scambio dei contenuti – normalmente accettati – dei termini “sogno” e “realtà”, considerando, cioè, “realtà” tutto ciò che è oggetto di pura contemplazione, contrapposto al mondo di effimero “sogno”, corrispondente alla realtà fenomenica, di comune percezione sensoria; il tutto da realizzarsi in una continua fuga dal mondo, con un fantastico volo solitario “da solo a solo” verso un fantomatico Creatore, definito l’Uno e, se un cenno viene riservato all’amore, quest’ultimo è considerato solo in senso unidirezionale ed ascendente, dall’uomo all’Uno. Una simile visione dell’ “attività” contemplativa conduce, inevitabilmente, alla negazione stessa dell’io, al disprezzo di tutto ciò che è sensibile ed alla considerazione che, nell’uomo, il corpo costituisce un vero e proprio “carcere” dell’anima, tanto che lo stesso Plotino, “dopo questo riposo in seno al Divino” si domanda “in qual modo l’anima abbia potuto entrare nel corpo, pur essendo in se stessa così come mi apparve, benché dimorante in un corpo”. L’impossibilità di dare soddisfacenti risposte alla suddetta domanda ed ad altre di carattere esistenziale, del tipo “da dove vengo ?” e “dove vado ?” (che, comunque, Plotino non se le pone nemmeno) spinge questo autore a formulare ipotesi di una non meglio precisata reincarnazione, rifiutando (senza, invero, mai parlarne) la conoscenza dell’Amore Misericordioso di Dio verso l’uomo. Secondo il concetto di “contemplazione”, così come sopra descritta da Plotino, l'esperienza del mistico non può non avere come punto di partenza che quello di una liberazione fisica e intellettuale dai vincoli che tengono l'individuo ancorato al suo vissuto concreto; questo processo di liberazione tende, inevitabilmente, ad annullare tutte quelle categorie che normalmente ci aiutano a svolgere le nostre attività quotidiane. Il percorso mistico, così, è diretto solo verso l'interiorità, la soggettività, dove il punto di arrivo deve essere necessariamente libero da ogni percezione di oggettività, dove cioè il contenuto oggettivo è stato annullato dando al contempo una pienezza di emozione interiore: in altre parole, in questa ottica, il mistico vede il Nulla nell'esistente mentre vede la Pienezza solo nelle possibilità della propria interiorità. Ecco perché, in tal modo, la rivelazione dell'esperienza mistica che il mondo sia degno di amore e di ammirazione nasce, non da una descrizione dell'esistente, ma dal mondo del possibile; una simile riduttiva visione della realtà comporta, poi, la conclusione cui perviene Bertrand Russell (in Misticismo e logica) : "L'emozione mistica rivela una possibilità della natura umana: la possibilità di una vita più nobile, più felice e più libera di quella in qualsiasi altro modo raggiungibile. Ma non rivela niente circa il non-umano o circa la natura dell'universo". Un simile modo di “contemplare” che, con lo svuotamento della propria coscienza e con l’abbandono alla silenziosa profondità dell’essere, dimentica il proprio io e si lascia dissolvere nell’infinito conduce inevitabilmente all’apofatismo, cioè a quel metodo teologico secondo il quale Dio è del tutto inconoscibile attraverso la razionalità, perché trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane: in quest’ottica l’approccio più adeguato a Dio è quello che prevede il silenzio, l’adorazione del mistero e prescinde da qualsiasi processo di speculazione o indagine razionale dell’essere divino. Invero, come affermato qualche anno addietro da Benedetto XVI “la fede nell'unico Dio implica necessariamente il riconoscimento della volontà di Dio: l'adorazione di Dio non è semplicemente un'immersione, bensì ci restituisce noi stessi e ci impone l'impegno nella vita quotidiana, reclama tutte le energie del nostro intelletto, del nostro sentimento e della nostra volontà. La fede in Dio non può rinunciare alla verità, a una verità definibile nei suoi contenuti, malgrado tutta l'importanza dell'elemento apofatico”. Lo “sguardo contemplativo” del mistico cristiano che non può, pertanto, prescindere da quest’ultima considerazione, è cosa ben diversa. Un antico racconto arabo può, forse, aiutare a capire meglio il vero significato da attribuirsi al termine “contemplazione”, o, meglio, cosa significhi avere uno “sguardo contemplativo”. Magnùm, il protagonista del racconto, è un giovane da tutti ritenuto un folle, perché vaga perennemente nel deserto di sabbia: senonché il deserto altro non è che il giardino paradisiaco, velato, coperto, perché è territorio sacro, spirituale, inviolabile, che si nasconde agli occhi dell’uomo peccatore, dell’uomo che ha perso il dono della vista soprannaturale. Magnùm, il giovane “pazzo d’amore” è, invece, un uomo che nasconde una realtà che gli altri uomini non possono capire: la sua follia consiste nel vivere spiritualmente accanto a Dio; sicché tutti vedono Magnùm vagare nel deserto, mentre egli vive realmente nel giardino delle delizie. Osservare, pertanto, la realtà che ci circonda con sguardo contemplativo significa saper cogliere il senso profondo delle cose, nascosto ad uno sguardo superficiale, senza, pertanto, prescindere dalle stesse rifugiandosi in un mondo solo immaginario, e, pertanto, irreale. Il più alto esempio di sguardo contemplativo ce lo offre la Vergine Maria con il suo “Magnificat”: Ella, in evidente contrasto con le apparenze della sua vita concretamente vissuta, magnifica il Signore, perché: “ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili, ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote”. La contemplazione così intesa non può non costituire l’indispensabile presupposto di qualsiasi modo di vivere nel Signore, sicché non ha alcun valore la contrapposizione tra vita “contemplativa” e vita “attiva”, qualora per vita “attiva” si intenda una modalità di vita cristiana che non possa prescindere dal preventivo “contemplare” persone ed avvenimenti a noi vicini, sempre nella massima semplicità ed umiltà. Usufruendo di questo sguardo contemplativo che caratterizza la figura del “mistico”, quando quest’ultimo rivolge la propria attenzione verso il Dio creatore, lo stesso perviene ad una conoscenza di Dio di una semplicità e bellezza senza limiti, tanto da diventare vero e proprio teologo, di una teologia non più basata su complesse, quanto dotte disquisizioni, bensì frutto di una elementare percezione della verità sulla reale essenza di Dio: non a caso, infatti, grandi mistici hanno meritatamente ottenuto l‘appellativo di “dottore della Chiesa”. “Dio è Amore Infinito” che ci ha amati (e per primo) di un amore incommensurabile, manifestato dal dono del Suo unico Figlio che si è lasciato crocifiggere - accettando un’ingiusta e dolorosa Passione, per espiare il peccato dell’uomo, in funzione vicaria, essendo Egli stesso immune da tale peccato – per aprire all’uomo la via della salvezza. Partendo da questa semplice ed indispensabile constatazione, il mistico perviene ad un’altra naturale considerazione: che l’Amore di Dio, come del resto anche l’amore umano, per essere perfetto deve essere ricambiato. Ma l’amore che Dio si aspetta dall’uomo non può essere basato su di un superficiale sentimentalismo o, peggio, frutto di istintiva passione: ben altro fondamento deve avere l’amore per Dio. Questi concetti sono magistralmente espressi in una sublime pagina, tratta dagli scritti di una grande mistica, la Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche (1868 – 1914) che vale la pena trascrivere: “Dio ama, ma vuol essere amato: l’Amore ha bisogno di corrispondenza, e se, nel seno stesso della Divinità, il Padre, il Verbo e lo Spirito Santo si ricambiano così perfettamente, che si amano di uno stesso amore che è il loro stesso essere e la loro essenza, così l’Amore Infinito vuol trovare fuori di Sé una reciprocità, relativa senza dubbio e proporzionata alle debolezze dell’essere creato, ma reale. Dio versa torrenti di amore sulla creatura; ma a sua volta la creatura deve amare. Dio ha deposto, in ognuna di esse, con la creazione, un principio di amore, non però in tutte le creature nello stesso grado né sotto la stessa forma. Ne deriva di piena giustizia e per necessità, che ogni creatura debba amare secondo la sua natura e la volontà del Creatore. Essa tutto ha ricevuto da Dio; tutto gli deve restituire. Essa è ciò che è solo da Dio; deve dunque impiegare tutto il suo essere per lui. Quest’amore primario, indispensabile della creatura, ha come due movimenti: il primo, di restituzione cioè la creatura dà qualche cosa a Dio, glielo restituisce; il secondo, di sottomissione ed obbedienza, cioè compiere la volontà del suo Creatore. Osserviamo questo modo d’amare mirabilmente esercitato dalle creature inferiori. La terra ha ricevuto da Dio la fecondità e sempre produce per il suo Creatore. Il fiore ha ricevuto lo splendore del suo calice e la dolcezza del profumo; esso si schiude ogni primavera per il suo Dio, offrendogli la sua bellezza ed il soave profumo. L’uccello ha ricevuto l’agilità delle ali, la dolcezza del suo gorgheggio, e vola e canta alla presenza del suo Dio. Gli animali selvaggi che popolano le foreste hanno ricevuto dal loro Creatore, l’agilità della corsa, la forza delle loro difese, la bellezza del loro pelo; crescono alla presenza di Dio, secondo le leggi della loro natura, compiendo la volontà divina e moltiplicandosi come vuole il loro Padrone. Questo compimento regolare della volontà divina e questo dono rinnovato di ciò che hanno in sé, è la forma, il modo di amare delle creature inferiori. Ma Dio ha formato delle creature superiori. Anche in queste ha deposto principi d’amore; e poiché esse hanno ricevuto di più dalla munificenza divina, così devono rendergli di più. Da esse Dio non si aspetta soltanto quell’amore naturale, istintivo, proprio delle creature inferiori. Avendole create ragionevoli, attende da esse un amore ragionevole; avendole dotate d’una volontà libera, attende un amore volontario; avendole create a sua immagine, esige un amore somigliante al suo. 

Dio ha deposto nell’uomo, non solo il primo principio d’amore che ha dato alle creature inferiori, e col quale egli dovrebbe già come per istinto tendere e sottomettersi a lui, ma gli concesse molto di più. Gli diede un’anima adorna d’intelligenza, di memoria e di volontà; e per mezzo di queste tre facoltà, l’uomo può entrare nella conoscenza del suo Creatore e sviluppare nel cuore un amore superiore, sommamente ragionevole e veramente degno di Dio. E’ questo amore illuminato, quest’amore libero, che l’uomo deve a Dio………….. Eppure, pochi uomini amano Dio come vuole essere amato!............” Dio, quindi, è pur sempre Amore infinito e vuole essere riamato dall’uomo come Egli lo ama. Ed allora, se la grande “scoperta” del mistico è, essenzialmente, riconducibile all’eguaglianza Dio = Amore; se l’amore di Dio ha raggiunto il massimo della sua espressione nella donazione del Suo unico Figlio che ci ha amato di un amore infinito ed incommensurabile; se, per godere della pienezza e persistenza di quell’amore, gratuitamente offerto, è necessario che venga adeguatamente corrisposto, come Lui vuole; facendo scendere queste considerazioni da una mente razionale ad un cuore predisposto ad amare, è facile trarre questa conclusione (che, al di fuori di questo contesto, potrebbe apparire formulata solo da una mente fanatica): “Innamorarsi pazzamente di Gesù è cosa estremamente ragionevole”. L’amore verso Dio e verso l’unico Suo Figlio, Gesù, così riscoperto dal mistico, come amore che, scaturito dalla conoscenza della vera essenza di Dio, è libero e volontario e, pertanto, (scevro da sentimentalismi e passioni) tende ad avvicinarsi sempre più all’Amore che Dio ha verso di lui, fa sì che, tra i due soggetti, sorga una particolare corrispondenza che mette in evidenza che è questa la via privilegiata della “processione” dell’Amore Infinito (da Dio verso l’uomo e dall’uomo verso Dio), senza, inoltre, dimenticare il fondamentale precetto dell’amore, così come espresso da Gesù stesso: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”, che, indicando un’altra sorprendente possibile eguaglianza tra l’amore di Dio per l’uomo, da un lato e l’amore dell’uomo verso i suoi fratelli, dall’altro (che resta condizionata solo all’adesione, da parte dell’uomo, a tale precetto), chiude mirabilmente il cerchio magico dell’Amore. Nel progredire nel suo percorso spirituale, fondato su una sempre più profonda conoscenza dell’infinitezza dell’amore di Dio, il mistico tende ad una perfetta immedesimazione col soggetto, fonte e meta del suo amore, partecipando alle sofferenze patite da Gesù Cristo, fino al manifestarsi, a volte, sul proprio corpo, dei segni della Sua Passione, come accaduto per alcuni mistici. L’accrescersi della conoscenza dell’Amore Infinito di Dio determina, poi, nel mistico la presa di coscienza della propria finitezza e l’insorgere di una sana umiltà, sopportata dalla virtù della speranza: speranza di godere, un giorno, di quella vita beata nella Gloria del Signore, come da Lui promesso; umiltà e speranza che conducendolo per mano per la sua strada, gli mettono in bocca quelle parole di amore contrito e fiducioso pronunciate da San Pietro: “Signore, tu sai tutto; tu sai che ti amo!”. Umiltà e speranza, doti fondamentali del mistico, che lo inducono ad attribuire il loro effettivo valore alle cose anche più umili della normale vita quotidiana, anche se talvolta possono apparire del tutto insignificanti, ma, se poste in essere con disponibilità, gioia ed amore che investe quanti lo incontrano, mettono in risalto l’intima bellezza della sua anima, anche se non percepibile con il senso della vista corporea. Può, inoltre, accadere che il mistico, dato che il Signore prova chi Egli ama, sperimenti anche momenti di abbandono da Dio (conosciuti dallo stesso Gesù crocifisso), di “notte oscura” (così mirabilmente descritta da San Giovanni della Croce), tanto da sentirsi sprofondare nel vuoto e nel buio più assoluti della propria pochezza, libero e svincolato da ogni appiglio che possa frenare la caduta: caduta libera nel buio, sì, ma verso la Luce. Ad innalzarlo soccorreranno le stesse braccia di Gesù (quel particolare “ascensore”, secondo l’espressione tanto cara a Santa Teresa di Lisieux): allora potrà capitare di “sentire” interiormente una voce soave illuminare la sua mente ed aprirla a nuovi e sconfinati orizzonti, per spingerla ad amare sempre di più la sua legge ed avvicinarla a comprendere Misteri inaccessibili, in un colloquio intimo e personale con il Signore, irripetibile esperienza del tutto particolare e, comunque, sempre gratuitamente da Lui concessa, al di fuori di qualsiasi merito personale. Ogni sforzo di ricordare compiutamente quanto oggetto di quel particolare insegnamento, risulterà, poi, vano anche perché, immancabilmente, difficile se non impossibile apparirà il tentativo di ricostruzione di quanto “appreso” in maniera tanto inconsueta. Allora l’unica soluzione sarà quella di dire, con la Beata Elisabetta della Trinità: “Nescivi!”; non so più nulla e nulla voglio più sapere, in un totale e confidente abbandono verso il Signore. Il mistico, inoltre, in quanto dotato di quel particolare “sguardo contemplativo” è anche profeta; sicché, specialmente in tempi come quelli in cui viviamo, nei quali si assiste ad un’eclissi sempre più totale dei valori cristiani, il mistico cerca di far sentire la sua voce con chiare e ferme parole di richiamo e di condanna delle condotte che sempre più si allontanano da quei principi di sana convivenza cui dovrebbero tutti ispirarsi, mettendo coraggiosamente in gioco le proprie convinzioni e valori, avvalorate da una condotta irreprensibile. Soprattutto nel presente momento storico, infatti, “il senso dell’uomo, profondamente turbato dal peccato, (sono parole, sempre attuali, della citata Venerabile Luisa Margherita Claret de la Touche) ha perduto la nozione chiara del vero. Brancola, si sbaglia, devia; non ha più la bella e luminosa intelligenza, la volontà ferma e diritta che possedeva nei primi giorni della sua creazione; non gliene restano più che le rovine. Perciò lo si vede allontanarsi continuamente dalla verità, cambiare l’ordine delle cose, trasformare il bene in male, e preferire spesso il male al bene: il giudizio dell’uomo non segue più la primitiva rettitudine, si piega e troppo spesso si smarrisce”. Alle parole di richiamo del mistico, segue, però, inevitabilmente, il rifiuto e l’avversione da parte di quanti si sentono bersaglio dei suoi strali; sicché il mistico – identificato come un profeta di sventure - diventa soggetto scomodo, da ignorare, da allontanare, da indurlo al silenzio, se non, addirittura, da sopprimere. La presenza ed il proliferarsi di simili voci di questi particolari soggetti, soprattutto in momenti di evidente sbandamento e confusione, è, invece, solo auspicabile, dato che, lungi da essere portatori di sciagure e disastri, essi si limitano ad indicare, anche con l’esempio della loro vita - ad un’umanità in cerca di identità e smarrita in una via di ignoranza, peccato, infelicità - una via diversa; quella già percorsa ed indicata - a quanti vogliano intraprenderla - dall’Amore Infinito di Dio: via della bellezza, della gioia, della speranza


14) Il bene ed il male: la sofferenza e l'incontro con il Signore

Uno dei problemi che da sempre ha assillato la mente umana nel tentativo, mai riuscito, di addivenire ad un’accettabile soluzione è quello relativo alla sofferenza; sofferenza intesa, nel senso più lato del termine, come mancanza di uno o più elementi che riteniamo costituire i cardini su cui fondare una presunta felicità di vita: dalla mancanza della salute fisica, nella sua infinita varietà di forme, sia con riferimento al soggetto colpito, sia alle singole cause determinanti la menomazione (malattia, violenza subita da altri soggetti o per cause naturali) ad ogni forma di carenza nella zona psicologica-affettiva (causa di sofferenze, a volte, più devastanti delle prime), fino ad arrivare alla mancanza più radicale che è quella della vita stessa. Ma se accade che ognuno sia, più o meno, disposto ad accettare la sofferenza (compresa, innanzi tutto, la morte) che colpisce il soggetto in maniera del tutto naturale e quella, anche se non ricadente in modalità oggettivamente naturali, che riguarda una persona ritenuta “meritevole” di un certo tipo di punizione, ciò che resta oltremodo difficile da accettare è ogni tipo di sofferenza che ricade sul soggetto inerme, debole, soprattutto se in tenera età, in maniera oggettivamente al di fuori di qualsiasi plausibile giustificazione: in parole povere, la sofferenza del “giusto”. La domanda, allora, che ci si pone circa l’origine della sofferenza è sempre la stessa: come può il Dio in cui crediamo – unico vero ed assoluto Bene – consentire che avvengano tutti gli orrori (siano essi causati da eventi naturali o attribuibili alla malvagità umana) ai quali siamo costretti ad assistere da passivi spettatori, in quanto destinatari del quotidiano bombardamento dei più diversi mezzi di informazione che tali fatti non evitano di mettere in particolare risalto per soddisfare, d’altra parte, la nostra, a volte masochistica, curiosità? Può essere stato Dio a creare il Male? Il libro di Giobbe dà un’esauriente risposta a tali domande, anche se in modo, apparentemente, provocatorio. Dio, in un colloquio con Satana – che mi sembra unico nel suo genere – accetta che quest’ultimo tenti il “giusto” Giobbe con ogni specie di sventure sempre più dure ed inspiegabili: alla fine Giobbe accusa un cedimento nella sua proverbiale pazienza e chiede a Dio spiegazioni di tutto quello che gli capita. “Eri tu con me quando ho creato il mondo?....quando ho diviso le acque dalla terra ferma?....quando ho creato gli animali?.......”. Giobbe capisce ed accetta tale risposta che, apparentemente, tale non è: i suoi mali non vengono da Dio, ma non gli è consentito di indagare oltre; l’argomento, infatti, resta coperto dal mistero, secondo gli imperscrutabili disegni divini. Ma se Dio, sommo Bene, non ha creato il Male, può il Male considerarsi un’entità contrapposta al Bene e, comunque, quando è comparso il Male?. Il Male, come opposizione al Bene al fine della sua negazione, è comparso con la ribellione di Lucifero e dei sui angeli verso Dio: la creatura angelica diventata diabolica, per sua libera scelta, non costituisce, peraltro, la personificazione del Male, ma ad esso tende, assumendosi anche il compito di perenne tentatore dell’uomo al fine di distoglierlo il più possibile dal Bene, per il quale l’uomo è, invece, preordinato. Il Male, quindi, va considerato come il fine da raggiungere, da parte delle creature diaboliche nella continua lotta contro il Bene, senza, peraltro, mai riuscirci: la contrapposizione del Male al Bene è molto efficacemente, da qualcuno, paragonata all’attacco della ruggine verso il ferro: la ruggine (il Male) corrode il ferro (il Bene) ma non lo potrà mai distruggere totalmente, dato che, in tale ipotesi, distruggerebbe sé stessa. Sempre in tema di similitudini, altri ha paragonato il rapporto tra il Bene ed il Male a quello sussistente, in un pezzo di groviera, tra il formaggio ed i buchi. Sulla base di quanto sopra osservato, risultano così evidenziati i due aspetti salienti del Male: il Male della pena (sofferenza) ed il Male della colpa (peccato), tra i quali, però, sussiste un misterioso rapporto di correlazione ed interdipendenza. E’, infatti, di comune evidenza che il male della pena non ricade quasi mai, se non per circostanze che possono apparire del tutto accidentali, sull’autore del male della colpa, ciò in quanto la Giustizia divina non si realizza in questo mondo. Per mera non riscontrabile intuizione, o suggestione, potrebbe ipotizzarsi un bilanciamento globale universale tra i due aspetti del Male, per cui al Male della colpa corrisponda un Male della pena cui, oltre a tutti gli uomini, partecipi anche tutto il creato, dal mondo animale, a quello vegetale, a tutta la natura in genere, dato che è lecito ipotizzare che il male della pena non sussisterebbe in assenza del male della colpa. Ma se il problema del Male resta pur sempre un fatto misterioso, quale valore attribuire alla sofferenza, quando mi accorgo che a soffrire, come si è detto, sono i “giusti” ?. Forse potrebbe essere utile per la risposta, il ricordo di un antico racconto ebraico, ambientato alla corte del Re Salomone. Una povera vedova ha nella dispensa della sua modesta abitazione solo tre pani. Alla sua porta bussano tre mendicanti ai quali, l’uno dopo l’altro, consegna tutto il pane che ha, confidando nell’aiuto del Signore. Si reca così a mendicare alla bottega di un ricco fornaio, il quale, rifiutando ogni aiuto, concede alla vedova di raccogliere i cicchi di grano dispersi per terra: la vedova accetta e ringrazia e, dopo un lungo e faticoso lavoro di ricerca, riesce a mettere insieme una discreta quantità di grano, tanto da riempire un sacchetto. Piena di gioia, ringraziando e lodando il Signore, la vedova intraprende la strada del ritorno a casa con il suo prezioso bottino. Senonché per strada viene colta da una grande bufera di vento: un soffio particolarmente impetuoso la sbatte per terra; nel rialzarsi si accorge di aver perso il suo sacchetto, portato via dal vento. Comincia allora ad imprecare contro il vento che con quell’azione aveva dimostrato di non obbedire al Signore e contro lo stesso Signore che aveva consentito quanto accaduto. Sconsolata, si reca da Salomone per chiedere aiuto, dopo aver raccontato la sua sventura. Salomone la fa aspettare in una sala, dato che, in quella attigua deve ricevere alcuni mercanti che gli hanno chiesto udienza: costoro consegnano a Salomone la metà del ricavato della vendita della loro merce, trasportata in quella città con la loro nave, facendo presente di corrispondere, in tal modo, ad un loro voto al Signore per uno straordinario miracolo a loro stessi capitato. Infatti, mentre navigavano, erano stati colpiti da una violenta bufera che aveva prodotto una falla nella fiancata della loro nave che stava, perciò, affondando: in quella disperata situazione rivolgono un’accorata preghiera al Signore e sono, così, misteriosamente salvati. Successivamente, entrati in porto, avevano avuto modo di rendersi conto delle modalità dell’intervento divino, una volta portata la nave in secco ed aver notato che la falla risultava sorprendentemente tappata da un sacchetto di grano che, a riprova dell’accaduto, consegnavano a Salomone. Salomone, dopo aver mostrato il sacchetto alla vedova ed aver avuto conferma che era proprio quello da lei perduto, le offre la metà delle monete consegnate dai mercanti; la vedova rifiuta l’offerta, riprendendosi il sacchetto e ringraziando il Signore per averle fatto capire che anche il vento, nonostante le contrarie apparenze, aveva obbedito ai disegni divini. Ma come può la sofferenza propria costituire sorgente di bene, oltre che per sé stessi, anche per gli altri? La sofferenza è un mistero, come del resto mistero è la stessa vita dell’uomo: è un libro sigillato che non è dato ad alcuno di aprire e leggere, se non all’Agnello immolato. Che senso ha, allora, indagare alla ricerca di una giustificazione del perché Dio consente tanta sofferenza, anche dei “giusti”, apparentemente abbandonandoli al loro destino, se lo stesso Suo Figlio, agonizzante sulla Croce, ha posto al Padre quell’identica angosciosa domanda? E’ solo, infatti, meditando sulla sofferenza di Cristo crocifisso che l’uomo può, se non comprendere, almeno accettare il valore salvifico della sofferenza, se vissuta per amore e con amore nella partecipazione, per dono di Dio e libera scelta personale, alla Sua opera redentrice. Quel giorno su quel monte le croci erano tre: tre uomini morivano apparentemente con la stessa morte e subendo le stesse pene; ma quale differenza tra loro! La prima era la sofferenza di chi la rifiutava e continuava ad imprecare contro il Signore ed a nulla serviva; la seconda era la sofferenza accettata e giustificata per i propri peccati e, perciò, risultava a vantaggio della propria salvezza; la terza, infine, era quella del vero Giusto che volontariamente si offriva per la redenzione degli altri. A quest’ultima, comunque, non può attribuirsi un valore meramente soddisfattorio, tale da giustificarla su di un piano apparentemente giuridico, sulla base di criteri di giustizia umana che, d’altra parte, farebbe apparire la figura del Padre come un Dio, quasi vendicatore, che resta in attesa dell’espiazione della pena, per rimediare, così, all’offesa ricevuta; il suo valore salvifico va ricercato nell’adesione libera e volontaria alla stessa: a tale sofferenza deve ritenersi misteriosamente associata la compassione del Padre, per la passione del suo unico Figlio, venendo meno, in caso contrario, lo stesso mistero Trinitario.

15) La Passione di Cristo

“Se è vero che il sacrificio di Gesù Cristo ha redento il mondo, perché assumendo su di sé tutti i peccati del mondo ha per noi espiato la nostra colpa di peccatori, togliendo, così, il peccato dal mondo e ristabilendo la giustizia per l’offesa arrecata a Dio Padre, come mai si continua sempre a peccare, forse più di prima? A volte mi sorge il dubbio che, dopo l’avvento di Gesù Cristo, nulla sia cambiato e vana sia stata la sua incarnazione ed il suo sacrificio, mentre i “misteri” che avvolgono tutta la vicenda mi appaiono sempre più incomprensibili”. Una simile domanda, che forse più o meno coscientemente ognuno di noi ha avuto modo di porsela almeno una volta, richiederebbe un’approfondita risposta, formulata sulla base di dotte disquisizioni teologiche, dato che coinvolge l’essenza stessa del Cristianesimo, affidandosi alla lettura dei numerosi testi dei tanti illustri autori che hanno affrontato tale delicato argomento. Soffermandomi, però, a riflettere alla ricerca di una valida risposta che, nel mio intimo, sento di poter efficacemente formulare soprattutto a me stesso, affidandomi a ciò che lo “Spirito” mi suggerisce, piuttosto che facendo ricorso a dotte argomentazioni teologiche (che, comunque, esulano dalle mie capacità), faccio partecipi chi mi legge delle mie conclusioni, alle quali sono pervenuto semplicemente sulla base di quello che, quale modesto operaio nella vigna del Signore, avverto di “sentire” sull’argomento, avendo presenti gli avvenimenti così come oggettivamente accaduti e riferiti nei Vangeli. Innanzi tutto mi sembra che la domanda sia posta partendo da un’implicita premessa che merita, preliminarmente, una riflessione, sia pure personale: la premessa si basa sul convincimento, che, pur condiviso da larga parte della teologia, resta pur sempre argomento di discussione ed approfondimento, secondo cui il Figlio di Dio sarebbe venuto sulla terra e, fattosi uomo, avrebbe su di sé assunto tutti i peccati del mondo e, con il Suo sacrificio, avrebbe soddisfatto l’ira del Padre verso l’uomo che, con il suo peccato, aveva infranto il patto della vecchia Alleanza. In tale prospettiva la figura di Dio Padre assume quella di un Dio onnipotente e giustiziere che aspetta la “riparazione” del male commesso dall’uomo e, dato che tale male è infinitamente grande e non può essere riparato dall’uomo stesso, non esita ad offrire in sacrificio il proprio Figlio. Una simile raffigurazione sembra contraddire, però, al concetto cristiano di Dio-Amore: “Israele ha commesso ‘adulterio’, ha rotto l’Alleanza; Dio dovrebbe giudicarlo e ripudiarlo. Proprio qui si rivela però che Dio è Dio e non uomo; ‘Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ad altri, Israele?...il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo freme di compassione. Non darò sfogo all’ardore della mia ira, non tornerò a distruggere Efraim, perché sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te’ (Os. 11, 8-9). L’amore appassionato di Dio per il suo popolo – per l’uomo – è nello stesso tempo un amore che perdona. Esso è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia. Il cristiano vede, in questo, già profilarsi velatamente il mistero della Croce: Dio ama tanto l’uomo che, facendosi uomo Egli stesso, lo segue fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia e amore” (dall’enciclica: “Deus caritas est” di Benedetto XVI). Se è vero che: “chi ha mai potuto conoscere il pensiero del Signore?” (Rm. 11, 34), è, comunque, lecito ipotizzare che, sin da prima della rottura della vecchia Alleanza, Dio, nella sua preveggenza, avesse già previsto il recupero dello strappo irrimediabile causato dal peccato dell’uomo, con l’instaurazione di una nuova Alleanza. Infatti, “se la prima alleanza fosse stata perfetta, non sarebbe stato il caso di stabilirne un’altra” (Eb. 8, 7) “E questa è l’alleanza che io stipulerò con la casa di Israele…..porrò le mie leggi nella loro mente e le imprimerò nei loro cuori…..perché io perdonerò le loro iniquità e non mi ricorderò più dei loro peccati” (Ger. 31, 31-34). La nuova Alleanza è, pertanto, frutto dell’amore infinito di Dio per l’uomo, togliendo il peccato dal mondo con un sublime atto di amore-perdonante. Dato che non sussiste vero amore se non attraverso la partecipazione, condivisione e immedesimazione nel soggetto amato, il Dio-Amore nel quale noi crediamo non poteva non partecipare il suo amore verso l’uomo se non diventando uomo Egli stesso, attraverso l’incarnazione del Suo unico Figlio. Qualsiasi atto di clemenza che fosse piovuto dall’alto del Suo trono, per Sua magnanimità, non sarebbe stato, infatti, oggettivamente credibile, quale manifestazione del Suo amore per l’uomo. Gesù Cristo è, quindi, venuto sulla terra tra gli uomini per annunciare loro la lieta novella del perdono di Dio concesso gratuitamente a tutti i peccatori per il male commesso: non la possibilità del peccato sarebbe stata tolta (il che avrebbe significato il venir meno della libertà dell’uomo), bensì la conseguente inevitabile condanna, sempre che quella Parola fosse stata accolta. (“Ti sono perdonati i tuoi peccati….va e non peccare più”). Purtroppo sappiamo che i suoi quella Parola non l’hanno accolta, anzi si sono ribellati e sono insorti contro di Lui, condannandolo a morte. Il vero amore che spinge ad amare ad ogni costo anche quelli che ci odiano, non può indietreggiare, nascondersi, fuggire innanzi ai persecutori, oppure, come avrebbe potuto fare lo stesso Gesù Cristo, distruggerli, ma esige di insistere ad andare loro incontro fino a rischiare la propria vita: e Gesù, nel suo folle amore per l’uomo, si è spinto fino a tanto, facendosi crocifiggere da chi era venuto a salvare. Il Suo amore ha assunto vette così alte ed ineguagliabili, tanto da implorare il Padre affinché perdonasse gli stessi suoi carnefici, fornendoGli addirittura un’apparentemente molto improbabile giustificazione, secondo l’umano sentire (“perdona loro, perché non sanno quello che fanno”). E’ questa la grandezza ed esclusività del messaggio cristiano che ci presenta un Dio creatore che si abbassa al livello della creatura da Lui tanto amata, per parteciparle il suo messaggio di perdono e di salvezza e, respinto, persiste nel suo amore infinito fino ad accettare, sottomettendosi volontariamente ad un folle processo, di essere da questa ucciso. In presenza di un Amore-perdonante rifiutato, è quel rifiuto che condanna a morte Gesù Cristo (“Il Figlio dell’uomo sarà consegnato in mano ai peccatori….dovrà molto soffrire ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso”. Mc. 8,31), sicché il Suo perdono è concesso a caro prezzo, con le sofferenze della Sua Passione, liberamente e volontariamente offerte “in remissione” (Mt.26, 28) ed “espiazione dei peccati del popolo” (Eb. 2,17). E’, quindi, l’Amore-perdonante di Gesù Cristo, culminato nella Sua Passione, che ha perdonato e redento l’uomo, assumendo su di sé le conseguenze del peccato dell’uomo, con l’offerta del Suo Corpo, tutto in conformità alla volontà del Padre che, pur non intervenendo, ha partecipato alla Passione del Suo Figlio prediletto. Egli è li, grondante sangue, con le braccia distese sulla Croce sulla quale noi lo abbiamo, con il nostro peccato, crocifisso: e quella Croce, mentre noi cerchiamo, non solo di alleviare (il che sarebbe comprensibile e giusto) ma di sopprimere la sofferenza, con qualsiasi mezzo anche illecito, ci disturba e scandalizza e quasi preferiremmo che, quel giorno, Gesù Cristo avesse accettato la provocazione di quanti continuavano a schermirlo (“Se sei il figlio di Dio, scendi dalla croce”). Ma Lui resta lì, per portare a termine il Suo sacrificio, manifestazione sublime del Suo grande amore per l’uomo, culminato, con l’istituzione dell’Eucaristia, con l’invito alla mensa eucaristica, per “mangiare il Suo Corpo”, partecipando così al Suo Sacrificio: a tale “banchetto” (come di recente ha ribadito Benedetto XVI) devono, comunque, ritenersi ammessi solo i puri di cuore, quanti, cioè, abbiano conseguito il perdono divino, accogliendo il messaggio evangelico e seguendo il comandamento nuovo indicato da Gesù Cristo: “amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”. Solo con l’offerta libera e volontaria del Suo Corpo, Gesù Cristo ha “redento” l’uomo. Gesù, infatti, è venuto sulla terra ad annunciare il perdono divino, sempre che la Sua parola fosse stata accolta; a prescindere dalla formulazione di sterili ipotesi (del tipo: “Che cosa sarebbe successo se tutti Lo avessero seguito, venendo così meno la Sua crocifissione?”), sta di fatto che la Sua parola non venne accolta ed è solo con la Sua Passione, conseguenza di quel rifiuto, liberamente offerta in espiazione del peccato del mondo, che è stato conseguito l’effetto redentivo del perdono divino, in quanto non solo è stata eliminata la conseguenza del peccato (condanna), ma è stata anche cancellata la “colpa” che quel peccato aveva originato, rendendo, così, possibile per l’uomo di divenire simile a Lui, il tutto secondo la Sua volontà, espressa nella Preghiera al Padre, riservando tale dono per quelli “crederanno alla Sua Parola”. La Sua Passione, pertanto, potrebbe non considerarsi come condizione necessaria, richiesta dal Padre, finalizzata a placare la Sua “ira”, causata dal peccato dell’uomo: ciò (a parte la considerazione che in una tale prospettiva apparirebbe molto riduttivo il valore del Suo Sacrificio) risponderebbe ad un concetto umano di giustizia retributiva che potrebbe contribuire a rendere incomprensibile e misterioso il sacrificio di Gesù Cristo (“Io ed il Padre siamo una cosa sola”) e molto problematica la figura del Padre. Ma Dio è “Dio e non uomo” e, soprattutto, Dio è Amore ed è in quest’ottica che va considerata la Passione di Cristo: Gesù, infatti, è venuto sulla terra a partecipare all’uomo il perdono di Dio; la Sua Passione appare, quindi, conseguenza ed espressione di un amore senza limiti verso l’uomo stesso, che Lo ha spinto ad accettare di essere umiliato, respinto, tradito ed ucciso da chi era il destinatario di tale amore-perdonante, facendo, così, ricadere su sé stesso le conseguenze delle colpe degli altri; come mirabilmente ha scritto Benedetto XVI: “l’amore di Dio è talmente grande da rivolgere Dio contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia” (Enc. Cit.). Così, prendendo atto che quella Crocifissione non è espressione di un sacrificio espiatorio, finalizzato a soddisfare alla giustizia divina di fronte all’offesa recata a Dio dall’uomo, bensì la libera e volontaria accettazione ed offerta delle sofferenze a Lui inflitte da chi ha rifiutato la Sua Parola, ci renderemo conto che di quella Crocifissione ognuno di noi continua ancora oggi ad essere responsabile, ogni volta che avremo rifiutato e tradito il Suo insegnamento: e di fronte ad un amore così grande, potremo assaporare il senso redentivo di quel sacrificio, solo accogliendo la Sua Parola e rendendoci, così, predisposti a conseguire il Suo perdono; sicché l’atto di adorazione di quella Croce e di ringraziamento del Suo sacrificio assumerà una diversa e più forte connotazione se preceduta dalla consapevolezza che su quella Croce è il nostro peccato ad averLo inchiodato. L’espansione massima dell’Amore di Cristo, nell’approssimarsi della Sua Passione, volontariamente offerta a vantaggio dell’uomo (“non c’è amore più grande di quello di dare la propria vita per i propri amici” e tutti abbiamo la vocazione a diventare Suoi amici) ha raggiunto il suo apice nella Sua preghiera di intercessione presso il Padre, secondo la Sua espressa volontà (“voglio, Padre che…”) di conferire all’uomo, mondato da ogni colpa, l’opportunità di diventare simile a Lui e di essere in Lui una cosa sola. “Prego per quelli che crederanno in me; perché tutti siano una sola cosa….come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola, perché il mondo creda che tu mi hai mandato….Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv, 17, 20-23). Gesù Cristo è, quindi, il nostro Redentore che ha sofferto per noi e per causa nostra: “ed era ben giusto che colui, per il quale e dal quale sono tutte le cose, volendo portare molti figli alla gloria, rendesse perfetto, mediante la sofferenza, il capo che guida alla salvezza…….Perciò doveva rendersi in tutto simile ai fratelli, per diventare un sommo sacerdote misericordioso e fedele delle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Infatti, proprio per essere stato messo alla prova ed aver sofferto personalmente, è in grado di venire in aiuto a quelli che subiscono la prova” (Eb. 2, 10-18). 

La Passione di Cristo, il quale ha voluto assumere la natura umana per essere in tutto, tranne nel peccato, simile all’uomo, non dovrebbe, pertanto, essere considerata come un sacrificio cruento preteso dal Padre per placare la Sua ira, bensì una libera offerta del proprio Corpo, aderendo alla volontà del Padre, quale atto di amore infinito di Dio stesso che si è perfettamente coniugato con la Sua Giustizia, finalizzato a ristabilire così, una volta per sempre, un equilibrio tra il male della colpa ed il male della pena dell’umanità tutta che solo la sofferenza – liberamente accolta ed offerta in espiazione del peccato del mondo – di un Dio fattosi uomo avrebbe potuto realizzare, unitamente al Suo perdono redentivo che, cancellando il peccato per quelli che credono alla Sua parola, li ha resi simili a Lui. Nel Suo comandamento nuovo (“amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi”) è, inoltre, racchiuso l’invito, per l’uomo, ad accogliere, con amore, tutte le sofferenze che, inevitabilmente, gli si presenteranno nel corso del suo cammino e ad offrirle in espiazione del proprio peccato e di quello dei fratelli: credendo alla Sua Parola e con l’adesione a tale invito, riusciremo a colmare quello che manca alla Passione di Cristo, per la nostra personale salvezza (sul valore salvifico della sofferenza, v. il precedente n. 35). Invero, il Suo “comandamento nuovo” di amarci l’un l’altro, come Lui ci ha amato (fino a dare la propria vita per l’altro) è, forse ed a torto, ritenuto un invito rivolto solo a coloro che vogliano conseguire la perfezione nella Sua sequela; detta indicazione, invece, costituisce un vero e proprio “comandamento” e, pertanto, rivolto a tutti i credenti, senza alcuna distinzione o limitazione. Gesù ci ha riscattati; ma quel “riscatto” non è da intendersi come un atto esclusivamente gratuito: perché produca i sui frutti in vista del conseguimento della vita eterna, è pur sempre necessaria la nostra partecipazione con la cosciente determinazione di intraprendere la Sua sequela. Gesù è, quindi, il nostro Salvatore: è quella Persona che abbiamo incontrato, mentre eravamo perduti, senza scampo, nella “selva selvaggia” del nostro peccato, ci ha riscattato ed ora ci indica la via della salvezza, invitandoci a seguirLo ed a diventare Suoi amici, senza dimenticare la fondamentale condizione di tale “amicizia” (“voi siete miei amici, se farete le cose che io vi comando”, Gv. 15: 13-14); sta a noi decidere di procedere per quella strada, anche se, a volte, il percorso si presenta difficile e doloroso, confidando sempre nel Suo aiuto: Gesù, comunque, ci considera suoi amici ancor prima che quella condizione sin sia realizzata; Egli, infatti, ci ama per primo, quando ancora siamo nel peccato. Come il peccato ha causato la morte del Giusto, l’Amore ha vinto la morte: la Passione di Gesù Cristo è, infatti, preludio della Sua Resurrezione alla quale, un giorno, parteciperemo anche noi, secondo la nostra speranza da Lui stesso alimentata. “Alla fine dei nostri giorni – come disse San Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore”: quel giorno, poi, lo stesso giudizio di condanna non sarà affatto paragonabile alla conclusione di un “giudizio” umanamente concepito. La “condanna” consistente nel definitivo allontanamento dalla Grazia divina, sarà, infatti, la naturale presa d’atto delle conseguenze della propria libera decisione di aver rinnegato e respinto il vero Bene (“e se ne andranno….al supplizio eterno”, Mt. 25: 46). Concludendo, confidando in un Dio – “Amore che perdona”, e che segue l’uomo “fin nella morte e in questo modo riconcilia giustizia ed amore” (così come scritto nell’enciclica “Deus caritas est” di Benedetto XVI) non solo l’Incarnazione del Figlio di Dio e la conseguente Sua Passione non è stata vana, perché, con la Nuova Alleanza, ha conseguito, per l’uomo, il perdono dai suoi peccati (realizzabile non una sola volta, bensì ripetibile indefinitamente) con l’adesione alla Sua Parola, unitamente alla cancellazione della sua colpa (“non mi ricorderò più dei loro peccati”), ma nulla dovrebbe più apparire incomprensibile e misterioso, in quanto riconducibile a quell’ “amor che muove il sole e le altre stelle” e che deve costituire, per ognuno di noi, la stella guida del nostro cammino: se qualcosa ancora resta di misterioso è perché la ragione umana non può riuscire a “comprendere” la dimensione di quell’Amore Infinito. “Lode a Te, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti ed ai dotti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt. 11: 25).

16) Il diavolo e le sue azioni

Del diavolo e delle sue azioni nei confronti dell’uomo se ne parla sempre di meno, quasi che se ne voglia dimenticare la sua esistenza, se non addirittura metterla in dubbio, come purtroppo avviene anche da parte di taluni sacerdoti. Il diavolo, invece, esiste: la sacra scrittura non esita a presentare la vita come una lotta, una vera guerra, contro i demoni. Secondo San Tommaso d'Aquino e i Padri della Chiesa, agli inizi dei tempi Dio avrebbe voluto sottoporre a prova gli angeli, chiedendo loro un grande atto d'umiltà: la Seconda Persona della Santissima Trinità - Gesù Cristo, il figlio dell'Eterno Padre - si sarebbe fatto uomo, ed essi - gli angeli - avrebbero dovuto adorarlo. Lucifero - superiore agli uomini per natura - al solo pensiero di doversi inginocchiare dinanzi a un uomo (per quanto quell'uomo - Gesù - fosse un "uomo-Dio") si inorgoglì tanto da rifiutarsi categoricamente. Isaia (14,11-21) e Ezechiele (28,11-19) ci forniscono un chiaro ritratto del diavolo prima della sua ribellione. Egli viene raffigurato come l'essere più elevato e bello di tutta la creazione: una creatura grandiosa, l’opera perfetta di Dio, "un cherubino ad ali spiegate a difesa” posto da Dio a svolgere il santo incarico di sorvegliare il Suo stesso trono. La Bibbia ce lo descrive come un essere “pieno di sapienza, perfetto in bellezza” (Ez 28,12), “coperto di ogni pietra preziosa” (Ez 28, 13), “perfetto nella condotta” (Ez 28,15). Il peccato entrò nell’Universo a seguito della sua ribellione. E’ Isaia a raccontarci il suo intento peccaminoso: “salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo” (Is 14,13-14). "E vi fu una guerra in cielo: Michele con i suoi angeli ingaggiò battaglia con il dragone; e questo combatté insieme ai suoi angeli; ma non prevalsero: il loro posto non si trovò più nel cielo. Fu infatti scacciato il grande dragone, il serpente antico, quello che è chiamato diavolo e Satana; colui che inganna tutta la terra fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli" (Ap 12,7-9). La caduta del diavolo non avvenne a causa di Dio: fu egli stesso nella tentazione/prova, a scegliere il peccato. Essendo una creatura dotata di libero arbitrio, egli autonomamente e coscientemente decise di peccare orientando la sua libertà di scelta verso il male: il diavolo è l’unico responsabile della sue azioni peccaminose contro Dio. Poiché egli era stato creato come un essere “pieno di sapienza” non poteva non conoscere la gravità delle sue azioni. Inoltre, la caduta del diavolo e degli altri angeli ribelli, e la loro conseguente separazione da Dio, è definitiva e irrevocabile: per loro non esiste possibilità di redenzione. La scelta di peccare è così radicata in loro, da rendere impossibile ogni possibilità di perdono: il diavolo e i suoi angeli ribelli sono incapaci di chiedere perdono! In seguito alla suo peccato, il diavolo, insieme ai suoi angeli ribelli, fu scacciato dal cielo: "Dio infatti non perdonò agli angeli che avevano peccato, ma, condannandoli al tartaro, li confinò nelle fosse tenebrose perché vi fossero trattenuti fino al giudizio" (2 Pt 2,4). Di lì continuano, però, ad esercitare la loro nefasta influenza sull’uomo, cercando con tutti i mezzi di allontanarlo da Dio. L’azione del demonio sull’uomo, può esercitarsi come azione ordinaria o straordinaria. Per quanto attiene all'azione straordinaria di satana, con questa si intende l'opera del diavolo che si manifesta con effetti visibili o percepibili: disturbi esterni, possessione diabolica, vessazioni diaboliche, ossessioni diaboliche e infestazioni diaboliche. Di tutte, la più importante è la possessione diabolica: la convinzione di essere invasi da un'entità estranea è, però, tipica di molte sindromi psichiatriche, come alcune forme di psicosi schizofreniche, nevrosi isteriche e deliri depressivi. In molte situazioni la convinzione di essere posseduti è solo la conseguenza di una suggestione grazie alla quale un soggetto, che crede nel demonio, si "auto-convince" di essere governato da esso e si comporta seguendo il ruolo dettato dalla sua tradizione religiosa. Ci sono occasioni in cui alcuni individui utilizzano, più o meno volontariamente, la "scusa" della possessione per ottenere benefici secondari, come quelli di attribuire la colpa al diavolo per giustificare un'azione negativa, per esempio un delitto. Esiste, comunque, un’ampia varietà di possibili sintomi di possessione demoniaca, come una menomazione fisica che non possa essere attribuita a un vero problema fisiologico, cambiamenti di personalità come una profonda depressione o un’insolita aggressività, forza soprannaturale, disprezzo per il decoro o la “normale” interazione sociale e, forse, la capacità di comunicare informazioni che non si sono acquisite in modo naturale. È importante notare che quasi tutte, se non tutte, queste caratteristiche potrebbero avere altre spiegazioni, perciò è importante non tacciare per indemoniata ogni persona depressa o epilettica. Nel suo libro “Nuovi racconti di un esorcista”, padre G. Amorth, noto esorcista, fa riferimento alla categoria delle “soggezioni diaboliche”: con questo termine si vuole intendere il caso in cui una persona sia assoggetta al potere del diavolo in maniera volontaria, con un patto esplicito o implicito, sottomettendosi alla signoria dello stesso. La Bibbia fornisce alcuni esempi di persone possedute dai demòni, dai quali possiamo evincere alcuni sintomi dell’influenza demoniaca come anche ottenere alcune delucidazioni riguardo al modo in cui un demòne possiede qualcuno. Ecco alcuni passi biblici: Matteo 9:32-33; 12:22; 17:18; Marco 5:1-20; 7:26-30; Luca 4:33-36; Luca 22:3; Atti 16:16-18. In alcuni di questi passi, la possessione demoniaca provoca disturbi fisici come l’incapacità di parlare, sintomi epilettici, cecità, ecc. In altri casi, induce l’individuo a fare del male, e Giuda ne è l’esempio principale. In Atti 16:16-18 lo spirito dà apparentemente a una serva qualche capacità di sapere le cose al di là della sua conoscenza. Nel caso dell’indemoniato gadareno che era posseduto da una moltitudine di demòni, questi aveva una forza soprannaturale, andava in giro nudo e viveva fra le tombe. Per quanto concerne, invece, l’azione ordinaria del diavolo, quella, cioè, che coinvolge tutti, cristiani e non, è evidente come, nella nostra cultura occidentale, noi non prendiamo abbastanza sul serio la sua azione: eppure le tentazioni demoniache ci riguardano quotidianamente, tutti ed indistintamente, anche in considerazione delle occasioni che il mondo stesso in cui viviamo ci presenta. “Il Male non è un’astrazione; indica invece una persona : Satana, il Maligno, l’angelo che si oppone a Dio. Il diavolo (“dia-bolos”, colui che “si getta di traverso”) è colui che “vuole ostacolare” il Disegno di Dio e la sua “opera di salvezza” compiuta in Cristo.” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2851); quanto, poi, alla possibilità che anche un credente possa essere influenzato dal diavolo, ne è sufficiente prova l’apostolo Pietro (Mt. 16: 23). Aderire alla tentazione demoniaca non costituisce, comunque, una giustificazione od un’attenuante alla colpa individuale dell’uomo che resta sempre libero nelle sue scelte e, pertanto, responsabile esclusivo del male commesso Per descrivere l’azione del diavolo, soprattutto nel mondo contemporaneo, è opportuno trascrivere quanto esplicitamente fatto dallo stesso presente, durante un esorcismo, come riferito dal padre Gesuita Domenico Mondrone (Prete Esorcista) nel suo libro, intitolato: "A tu per tu col maligno" (Ediz. La Roccia - Roma). “Satana gli dice: "Non vedi che il suo regno (di Gesù) si sgretola e il mio si allarga di giorno in giorno sulle rovine del suo? Provati a fare un bilancio tra i suoi seguaci e i miei, tra quelli che credono nelle sue verità e quelli che seguono le mie dottrine, tra quelli che osservano la sua legge e quelli che abbracciano le mie. Pensa soltanto al progresso che sto facendo per mezzo dell'ateismo militante, che è il rifiuto totale di Lui. Ancora poco tempo e il mondo cadrà in adorazione dinanzi a me. Sarà completamente mio. Pensa alle devastazioni che sto portando in mezzo a voi servendomi principalmente dei suoi ministri. Ho scatenato nel suo gregge uno spirito di confusione e di rivolta che mai finora mi era riuscito di ottenere. Avete quel vostro (...) vestito di bianco che tutti i giorni chiacchiera, grida, blatera. Ma chi lo ascolta? Io ho tutto il mondo che ascolta i miei messaggi e li applaude e li segue. Ho tutto dalla mia parte. Ho le cattedre con le quali ho dato scacco alla Vostra filosofia. Ho con me la politica che vi disgrega. Ho l'odio di classe che vi dilacera. Ho gli interessi terreni, l'ideale di un paradiso in terra che vi accanisce gli uni con gli altri. Vi ho messo in corpo una sete di denaro e di piaceri che vi fa impazzire e vi sta seducendo in un'accozzaglia di assassini. Ho scatenato in mezzo a voi una sensualità che sta facendo di voi una sterminata mandria di porci. Ho la droga che presto farà di voi una massa di miserabili larve, di folli e di moribondi. Vi ho portati a praticare l'aborto con cui fate stragi di uomini prima che nascano. Tutto quello che può rovinarvi non lascio intentato, e ottengo ciò che voglio: ingiustizie a tutti i livelli per tenervi in continuo stato di esasperazione; guerre a catena che devastano tutto e vi portano al macello come pecore; e insieme a questo la disperazione di non sapersi liberare dalle sciagure con le quali devo portarvi alla distruzione. Conosco fin dove arriva la stupidità degli uomini, e la sfrutto fino in fondo. Alla redenzione di quello che si è fatto ammazzare per voi bestie ho sostituito quella di governanti massacratori, e voi vi buttate al loro seguito come stupidissime pecore. Con le mie promesse di cose che non avrete mai sono riuscito ad accecarvi, a farvi perdere la testa, fino a portarvi dove voglio. Ricorda che io vi odio infinitamente, come odio lui che vi ha creati." Poi aggiunse: "In un secondo momento mi lavorerò uno per uno i parroci rispetto al loro pastore. Oggi il concetto di autorità non funziona più come una volta. Sono riuscito a dargli uno scossone irreparabile. Il mito dell'ubbidienza sta tramontando. Per questa via la Chiesa sarà portata alla polverizzazione. Intanto vado avanti con la decimazione continua di preti, dei frati, delle suore, ad arrivare allo spopolamento totale dei seminari e dei conventi: tolti di mezzo i suoi "operai della Vigna", subentreranno i miei e avranno via libera nel loro lavoro definitivo". Quindi rivelò: a)quali sono i suoi migliori collaboratori: "A me preme incrementare il numero dei preti che passano dalla mia parte. Sono i migliori collaboratori del mio regno. Molti o non dicono più messe o non credono a ciò che fanno all'altare. Molti di essi li ho attirati nei miei templi, al servizio dei miei altari, a celebrare le mie messe. Vedessi che meravigliose liturgie ho saputo imporre loro a sfregio di quelle celebrate nelle vostre chiese. Le mie messe nere”. b)quali i suoi più grandi nemici: "Quelli più legati alla Sua amicizia, quelli che Egli riesce a conservare sempre suoi. Quelli che lavorano e si consumano per i Suoi interessi. Che zelano la Sua gloria. Un malato che per gli amici soffre e si offre per gli altri. Un prete che si conservi fedele, che preghi molto, che non siamo mai riusciti a contaminare, che si serve della messa, di quella tremenda maledettissima messa, per farci un male immenso e strapparci una moltitudine di anime. Questi sono per noi gli esseri più odiosi, quelli che maggiormente pregiudicano gli affari del nostro regno". Infine Satana, mostrandogli una folla sterminata di giovani in una piazza di città gli disse: "Guarda, guarda che spettacolo meraviglioso!...E' tutta gioventù passata dalla mia parte. E' gioventù mia. Molta l'ho irretita con la lussuria, con la droga, con lo spirito del materialismo ateo. Quasi tutti sono venuti su senza i soliti sciacqui battesimali. Questi giovani sono passati attraverso scuole programmate su un ateismo sindacale. Lì, hanno imparato che non è stato quello di lassù a creare l'uomo, ma l'uomo ha creato stupidamente Lui. Ora sono agguerriti a una lotta attiva contro di Lui, che resiste a scomparire. Ma scomparirà. E' fatale! Questi miei giovani hanno imparato a disfarsi di tutte le cosiddette verità eterne. Per essi esiste solo il mondo materiale e sensibile. E' stato un gigantesco lavaggio del cervello, e ci serviremo di questo per tutti coloro che osassero tenersi ancora aggrappati alle vecchie credenze. Egli deve scomparire in modo assoluto dalla faccia della terra. Presto verrà il giorno che neppure il Suo nome verrà più ricordato. Le poche cose di resistenza che non riusciremo ad eliminare con la nostra filosofia, le annienteremo col terrore. Ci sono per i resti decine e decine di lager dove li manderemo a marcire. Così per tutti i paesi della terra. Uno dopo l'altro devono cadere ai miei piedi, abbracciare il mio culto, riconoscere che l'unico signore sono io” C’è però qualcosa che non bisogna dimenticare: Satana e il suo esercito malvagio non possono far niente che il Signore non permetta loro di fare (Giobbe 1-2). Stando così le cose, Satana, pensando di stare compiendo i suoi piani, sta compiendo in realtà quelli buoni di Dio... anche nel caso del tradimento di Giuda. Alcune persone hanno un fascino malsano per l’attività occulta e demoniaca; questo è insensato e antibiblico: se seguiamo Dio con la nostra vita e siamo rivestiti della Sua armatura, confidando nella Sua forza, non nella nostra (Ef. 6:10-18), non abbiamo nulla da temere da parte del maligno perché Dio governa su tutto. “Omicida fin dal principio, menzognero e padre di menzogna, Satana che seduce tutta la terra, è a causa sua che il peccato e la morte sono entrati nel mondo, ed è in virtù della sua sconfitta definitiva che tutta la creazione sarà liberata dalla corruzione del peccato e della morte. ‘Sappiamo che chiunque è nato da Dio non pecca: chi è nato da Dio preserva se stesso e il Maligno non lo tocca. Noi sappiamo che siamo nati da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del Maligno’ (1 Gv. 5, 18-19): il Signore ha cancellato il vostro peccato e ha perdonato le vostre colpe, è in grado di proteggervi e di custodirvi contro le insidie del diavolo che è il vostro avversario, perché il nemico, che suole generare la colpa, non vi sorprenda. Ma chi si affida a Dio, non teme il diavolo. ‘Se infatti Dio è dalla nostra parte, chi sarà contro di noi ?’ (Rm. 8, 31)” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2852).

17) La sacra Sindone: prova della Resurrezione di Gesù?

Premetto che sono personalmente convinto dell’autenticità della Sindone, nel senso che quel telo abbia accolto il corpo di Gesù Crocifisso. A proposito del noto esame effettuato al fine di stabilire scientificamente l’età della Sindone, con l’utilizzo del metodo dell’analisi della dispersione, nel tempo, dell’isotopo C 14, pur non avendo adeguate conoscenze scientifiche sull’argomento, mi sembra che tale metodo si basi sul conteggio del residuo di detto isotopo nel reperto da esaminare, risalendo, così, al tempo preciso della sua confezione, corrispondente, con una modesta approssimazione, alla lavorazione delle fibre vegetali (nella specie di lino) utilizzate. Se non erro, l’isotopo in questione è il risultato del processo di fotosintesi clorofilliana, cui presiede in maniera determinante la luce. Orbene, almeno per il credente, quel telo è stato l’unico testimone della Resurrezione di Gesù, che è avvenuta, come comunemente creduto, con lo sprigionamento di una luce soprannaturale oltremodo abbagliante: se tutto ciò è vero, come è possibile che un tale evento non abbia comportato alcuna conseguenza, d’ordine fisico, sul telo in questione? Ovviamente, tale evento soprannaturale non è stato preso in considerazione dagli scienziati che hanno effettuato l’analisi su riferita: mi sembra, se ben ricordo, che tale ipotesi sia stata, invece, espressamente esclusa e tale esclusione sia stata addirittura messa come condizione per l’effettuazione dell’esame. Ed allora, mi sorge, sempre da profano della materia, una domanda che, forse, potrà apparire ingenua: quella luce soprannaturale non può aver prodotto un innaturale accrescimento degli isotopi C 14, in modo da alterare notevolmente il calcolo del residuo, dopo 2000 anni? Se così fosse, non solo l’esito dell’esame effettuato (che ha comportato l’individuazione della data di produzione della Sindone nel secolo quattordicesimo) risulterebbe falsato, ma, addirittura, costituirebbe la prova scientifica della Resurrezione di Gesù! La tesi che si tratti di un falso del 14° secolo non è, comunque, più sostenibile, da quando, ormai sono passati diversi anni, venne scoperto che l'immagine riprodotta sul telo era un "ologramma", tecnica usata solo da pochi anni (e, pertanto, assolutamente sconosciuta nel 14° secolo) che consente di avere una visione diversa, a seconda dell’angolo di inclinazione del puntio di osservazione: tale tecnica, che richiede la disponibilità di sofisticate apparecchiature, è, per esempio, usata, solo di recente, nella fabbricazione delle banconote. Per produrre un ologramma su tela sarebbero, inoltre, necessarie ulteriori ed ancor più sofisticate apparecchiature, oggi inesistenti: sicchè, attualmente, l’ologramma sindonico è l’unico esistente al mondo e, pertanto, non riproducibile. Va, inoltre, tenuto presente che, secondo alcuni ricercatori, l'ologramma in questione potrebbe essere un "ologramma quantico", attualmente elaborato solo a livello teorico, dato che non si dispone ancora di un'adeguata attrezzatura per la sua realizzazione. Nell'ologramma quantico, anche una piccolissima parte dell'immagine dovrebbe essere in grado di racchiudere in sé l'immagine intera! D’altra parte, l’effetto tridimensionale dell’immagine, ottenuto, con l’ausilio del computer, attraverso la ricostruzione della distanza tra l’immagine stessa e l’obbiettivo fotografico - sulla base della diversa intensità del colore esistente (nella specie, tra il bianco ed il nero) nei vari punti di detta immagine, determinata, appunto, da detta distanza - presuppone necessariamente che l’immagine stessa sia stata prodotta, comunque, per proiezione di un soggetto tridimensionale: da nessun disegno o pittura può, infatti, pervenirsi ad un effetto tridimensionale, salvo a voler ipotizzare che l’autore (del 14° secolo !) si fosse fatto carico di realizzare una diversità nell’intensità del colore, da conseguire tale risultato, con una tecnica e precisione che neanche con le più sofisticate apparecchiature oggi esistenti sarebbe possibile conseguire. Per quanti volessero approfondire l’argomento, consiglio la visione dei video esistenti in : http://www.tecnocino.it/articolo/sindone-formazione-dell-immagine-intervista-esclusiva-a-g-b-judica-cordiglia/19001/

18) La venuta intermedia di Gesù, annunciata dalla Madonna

Da parecchi anni si vanno sempre più intensificando le notizie sulle apparizioni della Madonna, in varie parti del mondo, quasi sempre accompagnate da messaggi rivolti a particolari soggetti carismatici, di contenuto pressoché identico, anche se i destinatari tra loro non si conoscono. Con tali messaggi, la Madonna, innanzi tutto, invita tutti alla conversione, preannunciando un periodo di grande tribolazione che precederà la venuta di Suo Figlio: a volte, autodefinendosi “celeste profetessa” dei nostri tempi, indica che il Suo Cuore Immacolato è la porta per entrare nell’Era Nuova, l’era della “civiltà dell’amore”. Maria Vergine assicura sempre, nei suoi messaggi, che chi si consacra al Suo Cuore Immacolato e vive la consacrazione, conserverà la lampada accesa come le vergini sapienti e potrà incontrare Gesù , lo Sposo della Chiesa e di tutte le nostre anime, il quale sta per tornare. In un periodo storico come quello in cui viviamo, caratterizzato da sconvolgimenti sia naturali (come il susseguirsi di frequenti terremoti, inondazioni ed innumerevoli altre catastrofi) che riguardanti sempre più drammatiche vicissitudini che coinvolgono l’umanità intera (dalle turbolenze economiche-finanziarie, al terrorismo, alle lotte interne sia politiche che religiose, ad efferati atti di delinquenza comune ed, in genere, alla caduta verticale di tutti i valori cristiani e non cristiani), i messaggi su riferiti costituiscono valido sostegno all’istaurarsi di un sempre più diffuso convincimento che qualcosa di veramente eccezionale debba succedere, dato che, andando avanti di questo passo, l’umanità difficilmente potrebbe evitare un baratro irreversibile. Sorge, così, il timore-aspettativa di un evento, ritenuto imminente, che taluni individuano come la fine del mondo ed altri, invece, con l’avvento di una nuova era di pace, di serenità e di gioia. Inequivocabilmente le Sacre Scritture parlano che negli “ultimi tempi” vi sarà “una tribolazione grande, quale mai avvenne dall’inizio del mondo fino a ora” (Mt. 24, 21); “negli ultimi tempi verranno momenti difficili. Gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore” (2 Tm. 3, 2-5). Sulla “venuta del Signore nostro Gesù Cristo”, San Paolo (2 Ts. 2, 1-4) avvertiva che nessuno si lasci confondere “da pretese ispirazioni….quasi che il giorno del Signore sia imminente. Nessuno vi inganni in alcun modo! Prima infatti dovrà avvenire l’apostasia e dovrà essere rivelato l’uomo iniquo, il figlio della perdizione, colui che si contrappone e s’innalza sopra ogni essere che viene detto Dio o è oggetto di culto, fino a sedere nel tempio di Dio, additando se stesso come Dio”: la venuta del Signore sarà, pertanto, preceduta, oltre che da una “grande tribolazione”, anche da una generalizzata perdita della fede e dalla manifestazione dell’Anticristo. Resta da chiarire che cosa debba intendersi per “ultimi tempi” e se la prossima venuta di Gesù Cristo coinciderà con quella finale del Giudizio Universale, ovvero si tratterà di una venuta “intermedia”. Fin dai primi tempi del cristianesimo, si era diffusa la convinzione di un imminente ritorno di Gesù Cristo sulla terra, che avrebbe instaurato, anche con riferimento al famoso “regno di mille anni”, di cui si parla al cap. 20 dell’Apocalisse di San Giovanni, un lungo periodo di pace e serenità: nel IV secolo d.C., Sant’Agostino ritenne, però, che il testo apocalittico dovesse essere forse interpretato non più nel senso letterale ma allegoricamente, assimilando questa venuta intermedia, nella quale anche lui aveva fino ad allora creduto, alla venuta precedente della incarnazione. Tale netta presa di posizione va essenzialmente inquadrata nella preoccupazione, avvertita da Sant’Agostino, di contrastare una falsa raffigurazione, che si andava diffondendo, sulla reale portata del suddetto “regno di mille anni”. Pur prendendo atto che “il Regno di Cristo non è ancora compiuto” e che “per questa ragione i cristiani pregano, soprattutto nell’Eucarestia, per affrettare il ritorno di Cristo, dicendogli: vieni, Signore”, la Chiesa, infatti, ha sempre assunto una posizione nettamente contraria “ogniqualvolta si pretende di realizzare nella storia la speranza messianica che non può essere portata a compimento che al di là di essa, attraverso il giudizio escatologico; anche sotto la sua forma mitigata, la Chiesa ha rigettato questa falsificazione del Regno futuro sotto il nome di millenarismo, soprattutto sotto la forma politica di un messianismo secolarizzato intrinsecamente perverso” (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 676) Obbiettivamente, taluni testi biblici farebbero propendere, sulla base di un’interpretazione letterale, per una distinzione tra “venuta finale” e “venuta intermedia” di Gesù Cristo; i testi richiamati dai sostenitori di detta tesi sono essenzialmente: Lc 18, 8 (“Ma il Figlio dell'uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”); Mt 26,64 (“Io (Gesù) vi dico : d'ora innanzi vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra di Dio, e venire sulle nubi del cielo”) ; At 1, 11 (“ Questo Gesù….tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo”) ; Ap 20,4-6 (“Essi ripresero vita e regnarono con Cristo mille anni”); Mt 24, 30 ( “ Allora comparirà nel cielo il Segno del Figlio dell'uomo e allora si batteranno il petto tutte le tribù della terra, e vedranno il Figlio dell'uomo venire sopra le nubi del cielo con grande potenza e gloria”); 1 Gv 2, 28 (“E ora , figlioli, rimanete in Lui, perché possiamo aver fiducia quando apparirà”); Eb 9, 28 (“ Cristo, dopo essersi offerto una volta per tutte allo scopo di togliere i peccati di molti, apparirà una seconda volta, senza alcuna relazione col peccato, a coloro che l’aspettano per la loro salvezza”); I Cor 15, 24-25 (“poi sarà la fine, quando Egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo aver ridotto al nulla ogni principato e ogni potestà e potenza. Bisogna infatti che egli regni finché non abbia posto tutti nemici sotto i suoi piedi”). In tali riferimenti, in effetti, sembra, sempre sulla base di un’interpretazione letterale, che la “venuta” di cui si parla possa riferirsi ad una “venuta” cui faccia seguito un ulteriore periodo della storia dell’umanità, prima del Giudizio Universale. D’altra parte, la Chiesa, pur esprimendosi in termini chiaramente contrari ad ogni forma di “millenarismo”, non risulta che abbia mai affrontato e risolto in termini definitivi la questione della venuta intermedia di Gesù Cristo. Nell’ultimo decennio, infatti, ci sono stati diversi teologi che hanno approfondito la questione della venuta intermedia di Cristo, a cominciare da P. Martino Penasa che ha pubblicato già la seconda edizione del Suo Libro “ Viene Gesù”, ed. Segno 1999, fino a Mons. Aldo Gregori, il quale nel suo libro “ La Venuta Intermedia di Gesù”, ed. Alone, Terni 1993, a p. 8, riferisce che lo stesso P. Penasa, ha interrogato, alcuni anni fa, su questo problema, l’allora Card. Ratzinger, Prefetto della Congregazione per la dottrina della fede ed ha avuto la risposta che il problema è aperto alla libera discussione, “ giacché la S. Sede non si è ancora pronunciata in modo definitivo”. D’altra parte, lo stesso Card. Ratzinger, in una conferenza tenuta a Parigi nel 1997, alla Académie des Sciences Morales et Politiques, su “Il dialogo delle religioni e il rapporto tra ebrei e cristiani”, con riferimento allo “sguardo della speranza” (degli ebrei), alla loro ”attesa del Messia, anzi, alla certezza che Dio stesso entrerà in questa storia e realizzerà la giustizia”, faceva presente che “anche la Chiesa attende il Messia, che già conosce e a cui per prima manifesterà la sua gloria”, per concludere che “la figura di Cristo” che è “garanzia della speranza nel Dio che non lascia cadere la storia nell’insussistenza dell’effimero, ma la sostiene e la conduce alla meta……ci tiene insieme sulla via di colui che viene”, con ciò, implicitamente, non contestando che “Dio stesso entrerà in questa storia e realizzerà la giustizia”. Non sembra, comunque, inverosimile, né in contrasto con le Sacre Scritture, ipotizzare una venuta intermedia di Gesù, da collocarsi negli “ultimi tempi”, identificabili con il periodo di “grande tribolazione”, cui farà seguito l’apostasia ed il manifestarsi dell’Anticristo, con l’instaurazione, dopo la Sua venuta, di un lungo periodo di pace e giustizia, riservato agli “eletti”, intendendo, per tali, i convertiti al Vangelo. In tale periodo, satana sarà rinchiuso ed “incatenato per mille anni….perché non seducesse più le nazioni” (Ap. 20, 2-3): successivamente “quando i mille anni saranno compiuti, satana sarà liberato dal suo carcere e uscirà per sedurre le nazioni ai quattro punti della terra” (Ap. 20, 7-8), forse perché gli uomini, pur in assenza del tentatore, torneranno a peccare. Sarà quello il momento della venuta ultima di Gesù, per il Giudizio Universale, alla fine dei tempi.

Ed è proprio in previsione degli “ultimi tempi”, come sopra definiti, che, secondo un convincimento sempre più radicato, stiamo già vivendo, i recenti ed insistenti messaggi della Madonna invitano tutti ad una profonda conversione al Vangelo, dato che agli “eletti” sarà riservato quel periodo di pace e giustizia, che si realizzerà, infatti, solo in presenza di una conversione che coinvolga tutti i superstiti, nessuno escluso. Con riferimento alle Sacre Scritture, forse è lecito formulare un ulteriore considerazione anche se, a prima vista, potrebbe apparire azzardata. Più volte, nelle innumerevoli apparizioni, la Madonna si è autodefinita “celeste profetessa”: in questa ottica potrebbe, infatti, essere riletto il Suo “Magnificat” (Lc. 1, 46-55). Va, innanzi tutto, premesso un necessario richiamo alla decisiva importanza che riveste la presenza della Madonna, nella storia della salvezza dell’uomo. Come affermato nell’enciclica sulla Beata Vergine Maria, “Redemptoris Mater” di Giovanni Paolo II, “l’umanità ha fatto mirabili scoperte e ha raggiunto risultati portentosi nel campo della scienza e della tecnica, ha compiuto grandi opere sulla via del progresso e della civiltà, e nei tempi recenti si direbbe che è riuscita ad accelerare il corso della storia; ma la svolta fondamentale che si può dire originale, accompagna sempre il cammino dell’uomo e, attraverso le vicende storiche, accompagna tutti e ciascuno. E’ la svolta tra il cadere e il risorgere, tra la morte e la vita. Essa è anche una incessante sfida alle coscienze umane, una sfida a tutta la coscienza storica dell’uomo: la sfida a seguire la via del non cadere nei modi sempre antichi e sempre nuovi, e del risorgere, se è caduto……… La Chiesa……..vede…..la Beata Madre di Dio nel mistero salvifico di Cristo e nel suo proprio mistero; la vede profondamente radicata nella storia dell’umanità, nell’eterna vocazione dell’uomo, secondo il disegno provvidenziale che Dio ha per lui eternamente predisposto; la vede maternamente presente, partecipe nei molteplici e complessi problemi che accompagnano oggi la vita dei singoli, delle famiglie e delle nazioni; la vede soccorritrice del popolo cristiano nell’incessante lotta tra il bene e il male, perché non cada o, caduto, risorga……Le parole usate da Maria sulla soglia della casa di Elisabetta costituiscono un’ispirata professione di questa sua fede, nella quale la risposta alla parola della rivelazione si esprime con l’elevazione religiosa e poetica di tutto il suo essere verso Dio. (‘Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente e santo è il suo nome…..Ha spiegato la potenza del suo braccio; ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni; ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati; ha rimandato i ricchi a mani vuote..’)……In queste sublimi parole, che sono ad un tempo molto semplici e del tutto ispirate ai testi sacri del popolo di Israele, traspare la personale esperienza di Maria, l’estasi del suo cuore. Splende in esse un raggio del mistero di Dio, la gloria della sua ineffabile santità, l’eterno amore che, come un dono irrevocabile, entra nella storia dell’uomo…..Maria, l’eccelsa figlia di Sion, aiuta tutti i suoi figli – dovunque e comunque essi vivano – a trovare in Cristo la via verso la casa del Padre. Pertanto, la Chiesa, in tutta la sua vita, mantiene con la Madre di Dio un legame che abbraccia, nel mistero salvifico, il passato, il presente e il futuro e la venera come madre spirituale dell’umanità e avvocata di grazia”. Nel Magnificat di Maria è mirabilmente proclamato l’avvento del mistero della salvezza, la venuta del Messia dei poveri (Is.11, 4; 61,1); “il Dio dell’Alleanza, cantato nell’esultanza del suo spirito dalla Vergine di Nazareth, è insieme colui che rovescia i potenti dai troni e innalza gli umili,….ricolma di beni gli affamati, e rimanda i ricchi a mani vuote,…disperde i superbi….e conserva la sua misericordia per coloro che lo temono” (dall’enciclica “Redemptoris Mater”); tutto ciò manifesta chiaramente “il Suo amore di preferenza per i poveri” (come indicato nella stessa enciclica), ma, quando, nella storia dell’uomo, i superbi sono stati dispersi nei pensieri del loro cuore, i potenti rovesciati dai troni, gli umili innalzati, gli affamati ricolmati di beni, i ricchi rimandati a mani vuote? Quando, nelle Sacre Scritture, la parola ha per oggetto “cose future”, la parola può assumere valore profetico (se riferita ad un futuro da realizzarsi nella storia dell’umanità) o escatologico (se riferita al mistero della vita eterna, dopo la fine del mondo). Così, con riferimento al “Discorso della montagna” (Mt. 5, 1-11), che racchiude i valori fondamentali della fede e della cultura cristiane, le beatitudini preannunciate (“beati i poveri di spirito, perché di essi è il regno dei cieli,….beati i puri di cuore, perché vedranno Dio,…..beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli,…..”) indicano chiaramente le condizioni etiche di una felicità escatologica che conseguirà la sua piena realizzazione solo nel “Regno dei cieli”; nel messaggio contenuto nel Magnificat traspare, invece, qualcosa che appare entrare “nella storia dell’uomo”, destinata, pertanto, a trovare in essa la sua concreta realizzazione; d’altra parte l’uso dei verbi al passato prossimo (“ha disperso i superbi…, ha rovesciato i potenti……., ha ricolmato…,”), che, comunque, non trova mai riscontro, nelle Sacre Scritture, in discorsi di natura escatologica, è proprio, invece, dei discorsi profetici, come, per esempio, quello del profeta Isaia (53, 1-10), il quale, otto secoli prima dell’Avvento di Gesù Cristo, di quest’ultimo parlava come chi “era disprezzato……, è stato trafitto……, maltrattato, si lasciò umiliare…., era come agnello……, al Signore è piaciuto prostrarlo con dolori…..”: il profeta, infatti, attualizzando nella sua visione, quanto dovrà ancora accadere, è portato a descrivere il futuro come se si trattasse di un evento o un avvenimento già compiuti. In questo senso, nel canto del Magnificat, può leggersi una profezia di come Gesù – al di là del valore intrinseco della Sua Incarnazione e del Suo amore preferenziale per i “poveri” - rivelerà con il suo agire, l’agire del Padre. La rivoluzione di Dio, cantata da Maria, prelude all’attuazione del progetto di Dio sull’umanità: costruire una comunità di fratelli che abbia come base la liberazione dal peccato; Egli non vuole annientare i superbi, i potenti, i ricchi; li vuole convertire, togliere la superbia da loro cuore e mettervi l’amore. Solo chi non si converte non avrà più speranza di salvezza. Nulla, quindi, di contrario all’ortodossia cattolica può ravvisarsi nella lettura delle parole del Magnificat, interpretate come annuncio profetico di un periodo di pace, giustizia e serenità universali da realizzarsi concretamente nella storia dell’umanità. Nel libro di Giobbe può, inoltre, individuarsi un ulteriore conferma che, prima della fine del mondo, ci sarà un periodo di pace e serenità universali. Nel libro di Giobbe, che concordemente viene indicato come il libro che tratta il dramma angoscioso per l’umanità di tutti i tempi e rispecchia il comportamento dell’uomo al cospetto del mistero di Dio, il protagonista è sottoposto da Satana, col permesso di Dio, a prove durissime; sicuro della propria innocenza, si domanda, irato, perché Dio lo castiga come se fosse un empio. Dio stesso, provocato, interviene per rispondere a Giobbe, ma le sue risposte non sono tali da risolvere il problema: Giobbe, però, comprende che Dio non può che volere il suo bene ed accetta con fede il mistero dell’agire divino. Dopo una lunghissima serie di estenuanti tribolazioni, Dio gli concede, però, una “nuova condizione” di pace, serenità e sazietà di ogni bene e “Giobbe visse ancora centoquarant’anni….poi morì, vecchio e sazio di giorni”. Ma quale significato e contenuto è ravvisabile in una terza venuta di Gesù Cristo, (oltre la prima realizzata con la Sua Incarnazione e, l’ultima, del Giudizio Universale) che dovrebbe coincidere, dopo la lunga “tribolazione” e l’annientamento dell’Anticristo, con l’inizio del “millennio felice” di cui si parla in Ap. 20, 4 ? Nel suo libro: “La venuta intermedia di Gesù”, Mons. A. Gregori afferma : “L'interpretazione basata sul senso letterale del cap. XX dell'Apocalisse, se guidata dall'amore all'ortodossia, non porta affatto alla grossolanità del millenarismo carnale, e nemmeno alle esagerazioni di quello mitigato”. I sostenitori della venuta intermedia di Gesù, preoccupati di evitare ogni contrasto, sull’argomento, con l’ortodossia cattolica aggiungono che: “Il decreto del S. Ufficio del 21 luglio 1944 contro il Millenarismo mitigato : ‘ Il sistema del Millenarismo mitigato non si può insegnare con sicurezza’, non riguarda noi, che non parliamo di ‘Millenarismo mitigato', ma di ‘Millennio felice', come in Ap 20,4 all'interno della concezione biblica del messianismo regale”. Affermazioni, comunque, che non eliminano del tutto certe convinzioni, secondo cui, tutti vedranno Gesù Risorto, nella Sua venuta intermedia, che viene per “regnare” su questo mondo. Per eliminare infondate e false aspettative, è, pertanto, opportuno richiamare l’attenzione di quanti prestano ascolto a discorsi avventati di chi si ritiene particolarmente “informato” sull’argomento (anche sulla base di personali ed incontrollate suggestioni), che se e quando ci sarà una venuta intermedia di Gesù Cristo, questa avverrà a livello personale ed interiore, in chiave del tutto spirituale, anche se riguarderà la generalità degli esseri umani e, pertanto, correttamente potrà, in tal senso, definirsi realmente “storica”. La venuta intermedia di Gesù Cristo potrà, infatti, paragonarsi (sempre rimanendo nell’ambito di un’intima e personale percezione, ancorché, questa volta, assolutamente generalizzata) ad una nuova Pentecoste, ad un fascio di luce abbagliante – come rivelato, in visione, ad una mistica - che, provenendo dall’inestinguibile fiamma del Suo Amore Misericordioso, investirà tutti, indistintamente, per trasformarli in creature nuove, conformi al Suo progetto divino. Sull’argomento, nel suo discorso: “Il Verbo di Dio verrà in noi”, (riportato nella liturgia delle ore: seconda lettura del mercoledì della prima settimana di Avvento), il grande San Bernardo di Chiaravalle, Dottore ella Chiesa, ammoniva “perché ad alcuno non sembrino per caso cose inventate quelle che stiamo dicendo di questa venuta intermedia”. Testualmente, in quel discorso, San Bernardo così si esprimeva: “Conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta si colloca, infatti, fra le altre due che sono manifeste. Nella prima il Verbo fu visto sulla terra e si intrattenne con gli uomini, quando, come egli stesso afferma, lo videro e lo odiarono. Nell’ultima venuta ‘ogni uomo vedrà la salvezza di Dio’ (Lc 3,6) e vedranno colui che trafissero (cfr. Gv. 19, 37). Occulta è invece la venuta intermedia, in cui solo gli eletti lo vedono entro se stessi, e le loro anime ne sono salvate. Nella prima venuta dunque egli venne nella debolezza della carne, in questa intermedia viene nella potenza dello Spirito, nell’ultima verrà nella maestà della gloria. Quindi questa venuta intermedia è, per così dire, una via che unisce la prima all’ultima: nella prima Cristo fu nostra redenzione, nell’ultima si manifesterà come nostra vita, in questa è nostro riposo e nostra consolazione. Al riguardo, Benedetto XVI, nel libro "Luce del mondo" ha testualmente affermato: "È importante che ogni epoca stia presso il Signore. Che anche noi stessi, qui ed ora, siamo sotto il giudizio del Signore e ci lasciamo giudicare dal suo tribunale. Si discuteva di una duplice venuta di Cristo, una a Betlemme ed una alla fine dei tempi, sino a quando san Bernardo di Chiaravalle parlò di un Adventus medius, di una venuta intermedia, attraverso la quale sempre Egli periodicamente entra nella storia

19) L'Eucarestia

Nel libro della Genesi (2: 9, 16, 17) si legge che il Signore, nel giardino di Eden, “fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male………….Il Signore diede questo comando all’uomo: Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti”. Il divieto di “non mangiare del frutto dell’albero” riguardava, pertanto, solo l’albero “della conoscenza del bene e del male”, ma non quello “della vita” che avrebbe garantito all’uomo il conseguimento della vita eterna. La trasgressione, al divieto di mangiare del frutto dell’albero “della conoscenza del bene e del male”, commessa da Adamo (perpetuatasi, con effetto devastante, su tutti gli uomini) nell’intento, come promesso dal serpente, di diventare simile a Dio nel discernimento di ciò che è bene e ciò che è male, ci ha fatto, invece, perdere la nostra purezza e ci ha allontanati dal Lui, ritenendoci legislatori di quella legge morale che Lui aveva impresso nei nostri cuori e che, pertanto, potevamo noi stessi modificare a nostro piacimento, adattandola ai nostri incontrollati desideri. In tale situazione di peccato, il “mangiare” dell’albero della vita, nel tentativo di acquisire la vita eterna avrebbe comportato la perpetuazione dello stato di impurità, con la conseguenza di rendere irreparabile la perdita della vita eterna, come avvenuto, per la schiera degli Angeli che si era ribellata al Signore. In tal senso, infatti, va interpretata la frase, attribuita al Signore nella Genesi (3: 22), il quale, dopo il peccato del primo uomo, per evitare all’uomo tale disastroso effetto, cacciò Adamo ed Eva dal giardino, dicendo ironicamente: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva sempre!”. L’albero della vita era, infatti, destinato perché l’uomo ne mangiasse ed ottenesse, così, la vita eterna: nonostante il peccato, tale progetto divino non venne mutato, ma la condizione dell’uomo “peccatore” imponeva la ricerca di un necessario “riscatto”. Imperscrutabili essendo le vie del Signore, non ha alcun senso porci la domanda sulle possibili soluzioni per conseguire tale risultato; sta di fatto che la via scelta dal Signore, Amore infinito, fu quella – che per noi appare pur sempre difficilmente comprensibile ed avvolta nel Mistero - dell’Incarnazione di chi era raffigurato nell’albero della vita, il Suo unico Figlio, portatore della lieta novella del perdono divino, unitamente al “comandamento nuovo” dell’amore vicendevole che deve spingersi fino a dare la propria vita per i fratelli: quella vita che lo stesso Figlio, ancorché immune dal peccato, veniva ad offrire, quale manifestazione del Suo Amore Infinito, in sacrificio per la salvezza dell’uomo, assumendo su di sé il peccato del mondo. Nessun profeta, anche se grande come Mosè, portatore di quella Parola avrebbe potuto essere credibile: solo un Dio, fattosi uomo e volontariamente sacrificatosi, in funzione vicaria, per “riscattare” il peccato dell’uomo poteva, infatti, conseguire tale effetto, avvalorando, col proprio esempio, il comandamento nuovo che non sovvertiva la vecchia Legge, ma, definitivamente, la perfezionava. Gesù Cristo, fattosi uomo, ci ha, quindi, riscattati con il Suo sacrificio, dando così un senso, per il suo valore salvifico, all’umana sofferenza: inoltre, con il dono dell’Eucarestia, istituita nell’ultima cena, ci ha concesso di mangiare il Suo Corpo riammettendoci, così, a mangiare il frutto di quell’albero che ci assicurava la vita eterna e che la nostra disobbedienza ci aveva per tanto tempo precluso. “Questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia. Io sono il pane vivo , disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo…….se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me ed io in lui” (Gv. 6, 50-54): l’Eucarestia è dunque pegno d’immortalità e sacramento di comunione con il Cristo. L’insistenza nell’invito a “mangiare” il Suo Corpo fa quasi pensare che Gesù avesse paura che le sue parole fossero interpretate in forma metaforica; se, quindi, il Corpo di Cristo va mangiato, ciò significa che va accolta la legge biologica dell’assimilazione: nella nutrizione del corpo, il cibo viene assimilato e, perdendo la sua identità, diventa colui che lo mangia. Il cibo del Pane del cielo segue la stessa legge dell’assimilazione, con una fondamentale differenza: i ruoli sono capovolti. E’ l’uomo, infatti, a doversi perdere e a doversi lasciare trasformare. Secondo Sant’Agostino, nell’Eucarestia, su di noi agisce l’iniziativa di Dio che ci dice: “Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me” e San Leone Magno aggiunge: “Noi diventiamo quello che riceviamo” Se è vero che Gesù ci ha riscattati, concedendoci di mangiare dell’albero della vita per conquistare la vita eterna, è pur vero che per accostarci a quella Mensa spetta a noi percorrere la via del ritorno alla casa del Padre, riconciliandoci con Lui (“Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua”: Mc. 8, 34). Per questo San Paolo, invitando i fedeli ad offrire se stessi in obbedienza e devozione, dice: "chiunque in modo indegno mangia il pane o beve il calice del Signore, sarà reo del corpo e del sangue del Signore. Ciascuno, pertanto, esamini sé stesso e poi mangi di questo pane e beva di questo calice; perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna".

20) Fede e Ragione

Nonostante tutti gli sforzi profusi da illustri teologi, è pur sempre la ragione, almeno apparentemente, il più grande ostacolo per l’uomo a pervenire all’accettazione delle verità di fede: ciò in quanto, nella sua presunzione, l’uomo è portato a negare tutto ciò che non può percepire o dimostrare a livello razionale. Sembra, infatti, che tutte le più sofisticate costruzioni logiche fin qui elaborate non siano state, infatti, sufficienti a dimostrare l’indimostrabile. La soluzione del problema della ricerca di un significato da attribuire alla nostra esistenza (ovviamente per chi tale problema ritiene di doverselo porre) al fine di pervenire a valide risposte alle fondamentali domande esistenziali (“chi sono ?”, “da dove vengo ?”, “dove andrò dopo la mia morte? ”, “esiste una vita eterna ?”, “esiste davvero un Dio creatore di tutto ?”, ecc.) dovrebbe, allora, essenzialmente trovare un valido fondamento su di un profondo atto di umiltà, dato che la ragione umana non è in grado né di spiegare, né di operare scelte che possano appagare la sete di conoscenza dell’uomo (“grazie Padre che hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli”): è l’umiltà che apre il cuore alla fiducia, predisponendolo a rifugiarsi in Dio. Forse, però, un simile modo di affrontare e cercare di risolvere i problemi posti può apparire non solo semplicistico, ma decisamente un modo che privilegia la via della fede, mortificando quella della ragione. Non avendo alcuna presunzione di poter affrontare e risolvere tutte le problematiche connesse ad una sempre aperta questione sui rapporti intercorrenti tra fede e ragione, mi limito, in questa sede, solo ad una sintetica ed elementare (con riferimento alle mie capacità e non, certo, a quelle di chi mi legge) esposizione delle risposte (nelle loro linee essenziali), al riguardo formulate nell’enciclica “Fides et ratio” di Papa Giovanni Paolo II e nel testo della conferenza che Papa Benedetto XVI avrebbe dovuto tenere all’inaugurazione dell’anno accademico 2008 dell’Università La Sapienza di Roma, individuando in dette fonti, per mia scelta personale, quelle più chiare ed attuali. Dato che l’uomo è “colui che cerca la verità” (Aristotele nel testo della Metafisica, affermava che : “tutti gli uomini desiderano sapere”) e la stessa vita quotidiana mostra quanto ciascuno sia interessato a scoprire, oltre il semplice sentito dire, come stanno veramente le cose, Giovanni Paolo II, inizia la sua enciclica “Fides et ratio” con questa frase stupenda: “la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità”. In tale frase è mirabilmente racchiusa tutta la dotta esposizione successiva: la fede e la ragione, non sono contrapposte ed alternative, ma costituiscono, entrambe, il mezzo necessario (come lo sono le ali per qualsiasi volatile), con il quale lo “spirito umano” (non la “mente umana”) s’innalza verso la “contemplazione” (non la “conoscenza”) della verità. Così, nel cammino di ricerca di risposte “vere” alle domande fondamentali sulla sua esistenza, l’uomo necessariamente deve partire sfruttando al massimo il proprio raziocinio: infatti, “molteplici sono le risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità….tra queste emerge la filosofia, che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità” (introduzione all’enc. Fides et ratio). La ricerca della verità, (qualsiasi sia l’oggetto della ricerca) fondata sulla “ragione”, non solo, pertanto, non è da condannare, ma da incoraggiare sempre (l’enc. Fides et ratio intende, infatti, affermare la necessità dell’istanza metafisica): ma cosa avviene di fronte alla constatazione che una ricerca, basata esclusivamente sulla “ragione”, non approda a risultati accettabili e non è in grado di fornire risposte soddisfacenti alle domande come sopra proposte ? “Il pericolo del mondo occidentale - come sostenuto da Benedetto XVI – è oggi che l’uomo, proprio in considerazione della grandezza del suo sapere e potere, si arrenda davanti alla questione della verità. E ciò significa allo stesso tempo che la ragione, alla fine, si piega davanti alla pressione degli interessi e all’attrattiva dell’utilità, costretta a riconoscerla come criterio ultimo”: la rinunzia alla ricerca della verità porta, quindi, inevitabilmente al sopravvento di dottrine materialistiche e relativistiche. Partendo dalla considerazione che l’uomo, soprattutto oggi, vive di fiducia (dato che l’uomo, non conoscendo tutto, deve necessariamente riporre la propria fiducia su altri che conoscano quello che per lui è sconosciuto, come avviene, per esempio, nel campo della medicina), Giovanni Paolo II, sempre nell’enc. Fides et ratio, di fronte all’impossibilità, per la ragione, di addivenire a risposte soddisfacenti a quelle domande, invita alla ricerca della persona su cui riporre la propria fiducia per il soddisfacimento di tale desiderio di conoscenza, individuandola in quella Persona, incarnazione della Parola divina, che ha detto di sé: “io sono la verità”, rivelandoci una verità apparentemente irragionevole, ma che fornisce risposte esaurienti a quelle domande. Nell’atto libero e volontario di adesione a tale scelta, nella Persona di Cristo Gesù, si identifica l’atto costitutivo della fede cristiana. La fede, comunque, appunto perché è essenzialmente basata su di un rapporto di fiducia, non può essere imposta ad altri in modo autoritario, ma può essere solo donata in libertà; accettando per fede certe verità, irraggiungibili con la sola ragione, si realizza il passaggio dalla fase del “cerco di capire per credere” a quella del “credo per poter capire”. Ma anche in tale fase, la ragione non viene affatto mortificata, né viene assorbita dalla fede stessa: “la ragione si apre al mistero di Dio e la fede, in qualche modo, emancipa la ragione nell’impedirle di rimanere chiusa in se stessa”; così, con la Teologia (da intendersi correttamente come vera e propria scienza, non appropriata, essendo, al riguardo, la contrapposizione tra scienza e fede) viene, infatti, posta in atto una “peculiare attività speculativa e metafisica per raggiungere la verità contenuta nelle asserzioni di fede e permettere la loro intelligenza attraverso la formulazione di categorie universali che siano in grado di mediare l’universalità stessa del dato rivelato” (Mons. Rino Fisichella, Introduzione all’enc. Fides et ratio). Forse è lecito, a questo punto, porci questa domanda che potrebbe, a prima vista, apparire, a dir poco, stravagante : il contenuto delle così dette “verità di fede” ha un’estensione oggettivamente ben definita ed immodificabile per tutti? Se, infatti, è vero che fede significa essenzialmente fidarsi di qualcuno che è a conoscenza di cose che noi non conosciamo, come il caso (sopra evocato da Giovanni Paolo II) della fiducia che viene riposta nel chirurgo che è in procinto di effettuare un delicato intervento sul nostro corpo, è pur vero che l’intensità di quella “cieca” fiducia necessariamente è proporzionata al nostro grado di conoscenza nel campo della medicina e, pertanto, sarà massima ed incondizionata nel caso di assoluta ignoranza in tale campo, per decrescere man mano che detta conoscenza aumenta, fino a ridursi notevolmente nel caso in cui ad essere operato fosse proprio un chirurgo. Riportando il paragone sopra ricordato nel campo della presente indagine, la conclusione non dovrebbe essere dissimile: non tutti abbiamo, infatti, sia le stesse capacità mentali, sia e, soprattutto, le stesse predisposizioni ad applicare dette capacità alla ricerca speculativa delle risposte da dare alle domande esistenziali sopra indicate: sicché può benissimo accadere che talune verità, accettate dai più per pura fede, perché ritenute (forse per semplice pigrizia mentale) assolutamente “irragionevoli”, per altri, invece, risultino più che ragionevoli, in quanto frutto di un’attenta analisi. Non ritengo, inoltre, di scandalizzare nessuno nel sostenere che il progresso scientifico raggiunto nel campo della ricerca dell’origine dell’universo, lungi dal pervenire alla conclusione dell’inesistenza di un Dio creatore, ne abbia, invece, accresciuto la ragionevolezza della sua esistenza: lo stesso dicasi nel campo delle ricerche storiche, tanto che, ormai, nessuno più ritiene di poter contestare l’esistenza storica di Gesù Cristo; progresso scientifico ed evoluzione costante delle capacità dell’umano intelletto possono, pertanto, solo contribuire nella ricerca delle Verità fondamentali, nel campo del significato esistenziale da attribuire alla vita dell’uomo. Fede e ragione costituiscono, comunque, le “due ali”, tra loro complementari, entrambe indispensabili per poter “volare” alla ricerca della verità: una fede, infatti, non sorretta dalla ragione, rischia di produrre gli stessi effetti (della nota parabola del seminatore) del seme caduto “su terreno sassoso”, sicché “l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma, non avendo radice in sé, appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, ne resta scandalizzato”; una ragione, invece, che caparbiamente rinchiusa in sé stessa, rifiuta quel necessario affidamento su chi le offre la risposta alle domande sulle quali non è in grado di pervenire, con le proprie forze, ad alcuna soluzione, assomiglia molto a quel seme (della ricordata parabola) “caduto sulla strada e divorato dagli uccelli”, in quanto “parola non compresa e rubata dal maligno dal suo cuore”. Tutto ciò ritengo che vada detto ad ulteriore riprova della validità dell’esortazione di Giovanni Paolo II ad applicare sempre di più la propria ragione alla ricerca delle Verità fondamentali che costituiscono un punto fermo di riferimento per proseguire il nostro cammino, ben sapendo che la Verità “tutta intera” ci sarà svelata alla fine dei tempi. E’, poi, compito di ciascuno di partecipare agli altri i risultati della propria “attività speculativa e metafisica per raggiungere la verità contenuta nelle asserzioni di fede”, senza alcuna pretesa di una loro imposizione: un chiaro esempio, in tal senso, ci viene da Benedetto XVI, il quale, dopo essere pervenuto, sulla base di un’approfondita ricerca storico-esegetica, alla conclusione (nel suo libro: “Gesù di Nazaret”) che è “ragionevole” sostenere che il Gesù Cristo “storico” è realmente il Figlio di Dio dei Vangeli, esplicitamente afferma che il lettore è sempre “libero di contraddirmi”. Comunque, per concludere queste brevissime osservazioni (per un necessario approfondimento, valga il rinvio alle fonti citate), va pur sempre ribadito che fede e ragione non sono da intendersi contrapposte od alternative, bensì entrambe sono indispensabili nella ricerca della verità. “Non ha dunque motivo di esistere competitività alcuna tra la ragione e la fede: l’una è nell’altra, e ciascuna ha uno spazio proprio di realizzazione” (Enc. Fides et ratio, cap. II, n. 17); se, però, “la ragione diventa sorda al grande messaggio che le viene dalla fede cristiana e dalla sua saggezza, inaridisce come un albero le cui radici non raggiungono più le acque che gli danno vita” (dal testo della conferenza, sopra richiamata, di Papa Benedetto XVI); ritornando a quanto detto all’inizio, la verità è un bene che si conquista da parte di uno “spirito umano” aperto e ben disposto alla grazia divina, e che sia in grado di osservare le realtà che ci circondano con uno “sguardo contemplativo”, che sappia, cioè, intravedere tutto ciò che si nasconde, oltre le pure e semplici apparenze.

21) Dio è amore e vuole essere amato

“Dio ama, ma vuol essere amato”: così scriveva la Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche (nella raccolta dei suoi scritti: “Al servizio del Dio-Amore”) e proseguiva: “l’Amore ha bisogno di corrispondenza, e se, nel seno stesso della Divinità, il Padre, Il Verbo e lo Spirito Santo si ricambiano così perfettamente, che si amano di uno stesso amore che è il loro stesso essere e la loro essenza, così l’Amore Infinito vuol trovare fuori di Sé una reciprocità, relativa senza dubbio e proporzionata alle debolezze dell’essere creato, ma reale. Dio versa torrenti di amore sulla creatura; ma a sua volta la creatura deve amare. Dio ha deposto, in ognuna di esse, con la creazione un principio di amore, non però in tutte le creature nello stesso grado né sotto la stessa forma. Ne deriva di piena giustizia e per necessità, che ogni creatura debba amare secondo la sua natura e la volontà del Creatore. Essa tutto ha ricevuto da Dio; tutto gli deve restituire. Essa è ciò che è solo da Dio; deve dunque impiegare tutto il suo essere per lui. Quest’amore primario, indispensabile della creatura, ha come due movimenti: il primo, di restituzione cioè la creatura dà qualche cosa a Dio, glielo restituisce; il secondo, di sottomissione ed obbedienza, cioè compiere la volontà del suo Creatore. Osserviamo questo modo d’amare mirabilmente esercitato dalle creature inferiori. La terra ha ricevuto da Dio la fecondità e sempre produce per il suo Creatore. Il fiore ha ricevuto lo splendore del suo calice e la dolcezza del profumo; esso si schiude ogni primavera per il suo Dio, offrendogli la sua bellezza ed il soave profumo. L’uccello ha ricevuto l’agilità delle ali, la dolcezza del suo gorgheggio, e vola e canta alla presenza del suo Dio. Gli animali selvaggi che popolano le foreste hanno ricevuto dal loro Creatore, l’agilità della corsa, la forza delle loro difese, la bellezza del loro pelo; crescono alla presenza di Dio, secondo le leggi della loro natura, compiendo la volontà divina e moltiplicandosi come vuole il loro Padrone. Questo compimento regolare della volontà divina e questo dono rinnovato di ciò che hanno in sé, è la forma, il modo di amare delle creature inferiori. Ma Dio ha formato delle creature superiori. Anche in queste ha deposto principi d’amore; e poiché esse hanno ricevuto di più dalla munificenza divina, così devono rendergli di più. Da esse Dio non si aspetta soltanto quell’amore naturale, istintivo, proprio delle creature inferiori. Avendole create ragionevoli, attende da esse un amore ragionevole; avendole dotate d’una volontà libera, attende un amore volontario; avendole crete a sua immagine, esige un amore somigliante al suo. Dio ha deposto nell’uomo, non solo il primo principio d’amore che ha dato alle creature inferiori, e col quale egli dovrebbe già come per istinto tendere e sottomettersi a lui, ma gli concesse molto di più. Gli diede un’anima adorna d’intelligenza, di memoria e di volontà; e per mezzo di queste tre facoltà, l’uomo può entrare nella conoscenza del suo Creatore e sviluppare nel cuore un amore superiore, sommamente ragionevole e veramente degno di Dio. E’ questo amore illuminato, quest’amore libero, che l’uomo deve a Dio……. Eppure, pochi uomini amano Dio come vuole essere amato!.....” Qual’ è, allora, la conseguenza di questa incapacità, per l’uomo, di corrispondere all’Amore di Dio così come Egli desidera, secondo l’insegnamento di Madre Luisa Margherita Claret de la Touche? Può Dio, non ritenendosi appagato, dimenticarsi, per questo, della Sua creatura e distogliere altrove il Suo sguardo? Ma Dio è Amore ed il Suo incommensurabile Amore sa trovare il rimedio anche a questo: l’episodio delle tre domande poste da Gesù a Simon Pietro, narrato al cap. 21 (15-17) del Vangelo di San Giovanni può fornire una rassicurante risposta. In occasione della manifestazione di Gesù ai suoi discepoli (dopo la Sua morte) sul mare di Tiberiade, in detto capitolo si narra che: “quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci i miei agnelli". Gli disse di nuovo: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Gli rispose: "Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene". Gli disse: "Pasci le mie pecorelle". Gli disse per la terza volta: "Simone di Giovanni, mi vuoi bene?". Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene?, e gli disse: "Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene". Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecorelle……..”. Secondo una prevalente interpretazione di questo brano, sembrerebbe come Gesù volesse ricordare a Pietro, con le sue tre domande, i tre suoi “tradimenti”, avendolo rinnegato per altrettante volte. La traduzione italiana così come fedelmente sopra riportata dei testi ufficiali del Vangelo di Giovanni tradisce, però, notevolmente la lettera e lo spirito del testo originale greco: invero, Gesù non ripropone a Simon Pietro, per tre volte consecutive, la stessa domanda (“mi vuoi bene?”), ma procede ad un progressivo ridimensionamento della prima domanda, sulla base delle insoddisfacenti risposte di Pietro. Con la prima domanda, infatti, Gesù chiede a Pietro se il suo amore è un grande amore (“più degli altri”), usando queste precise parole: “ἀγαπᾷς με πλέον τούτων” ? Ma Pietro non risponde a tono, non usando la parola “agape” ( sinonimo di vero amore cristiano), limitandosi a dire: “φιλῶ σε” ( “ti voglio bene”, con un chiaro riferimento non già ad un vero amore, bensì ad un affetto di mera amicizia). Gesù incalza e, con la seconda domanda, si limita a chiedere se, comunque, l’affetto di Pietro è pur sempre “amore” (anche se privo di quel “più”), ribadendo la richiesta: “ἀγαπᾷς με”? Ma anche a questa seconda domanda, la risposta di Pietro è deludende e ripetitiva: “φιλῶ σε”. Gesù, allora, quasi prendendo atto dell’incapacità di Pietro a corrispondere al Suo grande Amore e venendo incontro ai suoi limiti, gli chiede, infine: “φιλεῖς με”? (“mi vuoi bene?”), riproponendo, cioè, la domanda nei ridotti termini delle precedenti risposte. Da questo episodio emerge in tutta evidenza che la richiesta di amore da parte di Dio non assume la veste di una richiesta ultimativa e categorica: qui Gesù appare come chi quasi elemosina, da parte della Sua creatura, un po’ di amore, accontendandosi di quanto quest’ultima sarà capace di concederGli. Grazie Gesù che ci hai dato San Pietro, come tuo primo successore, che, con i suoi tradimenti ed i suoi limiti, ci insegna che anche noi, con gli stessi (se non molto più gravi) tradimenti e limiti possiamo fiduciosamente contare sul Tuo Amore Infinito, anche se il nostro amore che ci riesce di corrisponderti è ben lontano da quello a te dovuto.

22) La Santissima Trinità

Il mistero della Santissima Trinità (un unico Dio in tre persone), cardine della fede cattolica, non è ancora stato spiegato da nessuno: è una rivelazione da accettare così come ci è stata presentata nelle Sacre Scritture, senza ma, né perché. Un Padre della Chiesa come Sant’Agostino ha rinunciato a formulare qualsiasi spiegazione, non arrivando ad alcuna conclusione. A tal proposito, si narra che Sant’Agostino passeggiando in riva al mare incontrò un bambino che stava facendo un buco nella sabbia: gli chiese cosa stesse facendo ed il bambino gli rispose che in quel buco voleva mettere il mare. Sant’Agostino gli disse che ciò era impossibile ed il bambino, che era un angelo, gli rispose che, similmente, a lui era impossibile comprendere il mistero della Santissima Trinità. Pretendere di darne una compiuta spiegazione risulterebbe, quindi, assai ambizioso: comunque, dato che ad ognuno di noi è data la facoltà, sulla base delle individuali conoscenze e capacità intellettive, di ricercare sempre la verità su ogni cosa, appare più che legittimo lo sforzo di pervenire - se non ad una approfondita conoscenza della natura di tale Mistero e dei rapporti intercorrenti tra le tre Persone - ad un minimo di risposta ragionevole del perché della coesistenza di tre Persone, in un unico Dio, senza, comunque, ricorrere ad argomentazioni fantasiose, in contrasto con i fondamentali principi della religione cattolica, da ritenersi preliminarmente già acquisiti. Dio, innanzi tutto è Amore. E’ fuori dubbio che l’amore esige la presenza dell’altro cui riversare il proprio amore ed esigerne il contraccambio. E’ vero che Dio ci ama e vuole essere amato, ma la sussistenza del suo amore non può, certo, essere condizionata all’esistenza della sua creatura: deve necessariamente, in quanto assoluta perfezione, trovare in sé stesso la sua attuazione. Dio, pertanto, in prima approssimazione, non può non essere distinto in due Persone (Padre e Figlio) che, reciprocamente, si amano. Secondo un umano ragionamento, è di facile e comune percezione la considerazione che, quando nell’attuazione di qualsiasi attività o progetto concorrono due elementi o soggetti, il massimo del risultato si ottiene quando sussiste perfetta uguaglianza tra i due elementi o soggetti che tale attività devono realizzare (così, per esempio, se a tirare un carro sono due cavalli, è necessario che entrambi abbiano la stessa potenza e velocità), ovvero quando tra di loro, sebbene diversi, intercorre un rapporto di complementarietà (come nel caso della procreazione che richiede l’apporto di due soggetti di sesso differente): di norma, pertanto, la diseguaglianza costituisce elemento di disturbo, nello svolgimento di qualsiasi attività che sia affidata congiuntamente a due soggetti, tranne il caso che tra di loro sussista un rapporto di complementarietà. Sicché, a titolo di ulteriore esemplificazione, nell’ipotesi che la realizzazione di un complesso progetto venga affidata congiuntamente a due valenti ingegneri, entrambi forniti della stessa specializzazione e preparazione scientifica (in assenza, pertanto, tra loro di un rapporto di complementarietà) e, d’altro canto, tra i due siano non sussista accordo (uguaglianza) sulla metodologia da seguire nell’esecuzione del progetto, è facile pervenire alla considerazione che, in tale situazione, il progetto non potrà essere realizzato se non intervenga la presenza di un terzo soggetto che ne assuma la direzione e sappia efficacemente armonizzare l’opera d’entrambi. Se, nell’ipotesi sopra esposta, la soluzione logica è quella sopra indicata, anche se potrebbe sembrare banale o addirittura irriguardoso applicare tale metodologia nell’esame di quanto oggetto delle presenti brevissime riflessioni solo su di un aspetto del mistero della SS. Trinità, pur tuttavia, al risultato di un processo logico che correttamente pervenga a valide e condivise conclusioni, in presenza di determinate condizioni che, sia pure con riferimento a situazioni diverse e di poco conto, possono ricorrere in via generale, non può, comunque, negarsi una sua oggettiva valenza. Sicché, tornando alle due Persone della SS. Trinità (Padre e Figlio), e considerando che è fuori dubbio che tra le stesse non sussista né una perfetta uguaglianza (che, comunque, comporterebbe un’inammissibile duplicazione), né un rapporto di complementarietà (che escluderebbe, per la conseguente interdipendenza, la loro singola perfezione), può pervenirsi alla conclusione che la presenza di una terza Persona, che costituisca un particolarissimo “collante” tra di loro, appaia una imprescindibile necessità logica, assolutamente ragionevole. E’, quindi, lo Spirito Santo (personificazione dell’Amore) che, con il suo fuoco inestinguibile e con la sua continua “processione” dal Padre al Figlio e viceversa, costituisce il necessario terzo elemento per realizzare, con la sua attiva partecipazione, la misteriosa unione delle tre Persone in un unico Dio – Amore Infinito - che trova attuazione (comunque in ciò non necessitato) nella sua manifestazione esterna nell’atto della creazione, che appare tutta, nella sua incommensurabile grandiosità e bellezza, concepita in funzione di un soggetto (l’uomo) da Lui voluto a Sua immagine e somiglianza, al quale ha attribuito la possibilità di divenire in tutto simile a Lui, partecipando, così, al mistero Trinitario, seguendo il Suo “comandamento nuovo”: “amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi”.

23) Come si prega

Negli scritti di una Santa (di cui non ricordo il nome) e che era alla ricerca di una valida risposta a tale domanda, la stessa racconta come ne ebbe, in maniera del tutto imprevista, una chiara e sorprendente risposta; infatti, una mattina, mentre passeggiava nei campi adiacenti al monastero che la ospitava, incontrò una pastorella che era lì con le sue pecore. La pastorella, riconosciutala le si avvicinò timidamente e le chiese, appunto, come dovesse pregare, dato che sentiva di non saperlo fare. “Appena comincio a recitare il Padre nostro – queste pressappoco furono le sue parole – e penso a Chi è lassù nei cieli, ha creato il mondo intero e mi vuole tanto bene da consentirmi di chiamarlo Padre, sono presa da una tale emozione che mi metto a piangere e non sono più capace di andare avanti”…….. “Sulla preghiera”, mi limito a trascrivere una bella poesia, così intitolata, del libanese Kahlil Gibran: Allora una sacerdotessa disse: Parlaci della preghiera E lui rispose dicendo:Voi pregate nell'angoscia e nel bisogno, ma dovreste pregare anche nella pienezza della gioia e nei giorni dell'abbondanza. Perché non è forse la preghiera l'espansione di voi stessi nell'etere vivente? Se riversare la vostra notte nello spazio vi conforta, è gioia anche esprimere l'alba del vostro cuore . E se non potete fare a meno di piangere quando l'anima vi chiama alla preghiera, essa dovrebbe spingervi sempre e ancora al sorriso. Pregando vi innalzate sino a incontrare nell'aria coloro che pregano nello stesso istante, e non potete incontrarli che nella preghiera. Perciò la visita a questo tempio invisibile non sia altro che estasi e dolce comunione. Giacché se entrate nel tempio soltanto per chiedere, voi non avrete. E se entrate per umiliarvi, non sarete innalzati. O se entrate a supplicare per il bene altrui, non sarete ascoltati. Entrare nel tempio invisibile è sufficiente. Con la parola io non posso insegnarvi a pregare. Dio non ascolta le vostre parole, se non le pronuncia egli stesso attraverso le vostre labbra. E io non posso insegnarvi la preghiera dei monti, dei mari e delle foreste. Ma voi, nati dalle foreste, dai monti e dai mari, potete scoprire le loro preghiere nel vostro cuore. E se solo tendete l'orecchio nella quiete della notte, udrete nel silenzio:"Dio nostro, ala di noi stessi, noi vogliamo secondo la tua volontà. Desideriamo secondo il tuo desiderio. Il tuo impero trasforma le nostre notti, che sono le tue notti, in giorni che sono i tuoi giorni. Nulla possiamo chiederti, perché tu conosci i nostri bisogni prima ancora che nascano in noi. Tu sei il nostro bisogno, e nel donarci più di te stesso, tutto ci doni".

24) La ricchezza iniqua

In un brano del Vangelo di Luca (16, 1-13), nell’edizione ufficiale della CEI, da molti indicato come la parabola dell’amministratore disonesto, Gesù parla della “ricchezza iniqua”. Questo brano è da molti commentatori giudicato “sconcertante” se non addirittura “imbarazzante” essenzialmente per due affermazioni in esso contenute: la prima si riferisce al fatto che il “padrone” della parabola “lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza” e la seconda, al successivo invito di Gesù: ”ebbene io vi dico: procuratevi amici con la iniqua ricchezza”; tanto che, nella lettura del Vangelo della XXV Domenica per annum, molti preferiscono ricorrere alla lettura della “forma breve” che stralcia dette affermazioni, riducendone notevolmente il contenuto, con una mutilazione del testo della sua parte introduttiva ed essenziale per una puntuale comprensione del messaggio ivi contenuto. La trascrizione integrale del brano potrà agevolarne il commento. “In quel tempo, Gesù diceva ai suoi discepoli: “C'era un uomo ricco che aveva un amministratore, e questi fu accusato dinanzi a lui di sperperare i suoi averi. Lo chiamò e gli disse: Che è questo che sento dire di te? Rendi conto della tua amministrazione, perché non puoi più essere amministratore. L'amministratore disse tra sé: Che farò ora che il mio padrone mi toglie l'amministrazione? Zappare, non ho forza, mendicare, mi vergogno. So io che cosa fare perché, quando sarò stato allontanato dall'amministrazione, ci sia qualcuno che mi accolga in casa sua. Chiamò uno per uno i debitori del padrone e disse al primo: Tu quanto devi al mio padrone ? Quello rispose: Cento barili d'olio. Gli disse: Prendi la tua ricevuta, siediti e scrivi subito cinquanta. Poi disse ad un altro: Tu quanto devi ? Rispose: Cento misure di grano. Gli disse: Prendi la tua ricevuta e scrivi ottanta. Il padrone lodò quell'amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza. I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce. Ebbene, io vi dico: procuratevi amici con la iniqua ricchezza, perché quand'essa verrà a mancare, vi accolgano nelle dimore eterne. (inizio della forma breve) Chi è fedele nel poco, è fedele anche nel molto; e chi è disonesto nel poco, è disonesto anche nel molto. Se dunque non siete stati fedeli nella iniqua ricchezza, chi vi affiderà quella vera ? E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra? Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammóna”. Ritornando ad analizzare le due affermazioni sopra riportate, che, a prima vista, destano non poche perplessità, la maggior parte dei commentatori giustifica la lode attribuita all’amministratore disonesto, con l’osservazione che detta lode non riguarda la sua disonestà, ma deve ritenersi riferita esclusivamente alla sua scaltrezza, nell’aver usato della ricchezza del padrone per procurarsi degli amici che l’avrebbero ospitato nel momento del bisogno; quanto, poi, all’invito di Gesù (“procuratevi amici con la iniqua ricchezza”), detto invito metterebbe in evidenza la possibilità che una “iniqua ricchezza” perda tale negativa connotazione se usata a fin di bene. Entrambe le suddette spiegazioni, a mio modesto avviso, di fatto non possono fare a meno di riferirsi, sia pure solo implicitamente, al principio, che dovrebbe ritenersi estraneo alla morale cristiana, secondo cui “il fine giustifica il mezzo”, dato che, guardando essenzialmente all’intenzione buona da perseguire, finiscono per distogliere l’attenzione dall’illiceità del mezzo usato; condurrebbero, in sostanza, ad accogliere e giustificare le gesta di Robin Hood, leggendario personaggio inglese che rubava ai ricchi per donare ai poveri. Sul concetto di “male intrinseco” e sul principio, secondo cui “non è lecito fare il male a scopo di bene” (cfr. Rm 3, 8), Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor”, così, invece, si esprimeva: “se gli atti sono intrinsecamente cattivi, un’intenzione buona o circostanze particolari possono attenuarne la malizia, ma non possono sopprimerla: sono atti irrimediabilmente cattivi, per se stessi e in se stessi non sono ordinabili a Dio e al bene della persona: ‘Quanto agli atti che sono per se stessi dei peccati – scrive sant’Agostino – come il furto, la fornicazione, la bestemmia, o altri atti simili, chi oserebbe affermare che, compiendoli per buoni motivi, non sarebbero più peccati o, conclusione ancora più assurda, che sarebbero peccati giustificati?’. Per questo, le circostanze o le intenzioni non potranno mai trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto soggettivamente onesto o difendibile come scelta”. Da ciò ne consegue che ciò che è frutto di “un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto” non possa proficuamente (cioè, per il suo bene) essere utilizzato, da parte del suo autore, per un’opera buona, a prescindere dagli effetti benefici da quest’ultima prodotti a favore del destinatario. Come può, allora, Gesù aver avallato (come ritengono concordemente, per quello che mi risulta, i commentatori del brano evangelico in questione) la lode del “padrone” verso il suo “amministratore disonesto” per la scaltrezza da quest’ultimo usata nel procurarsi degli amici, senza considerare che quella scaltrezza era strettamente connessa all’illecita sottrazione di beni ai danni del suo padrone, riducendo gli importi di quanto a lui dovuto dai suoi debitori? E come può, inoltre, Gesù invitare i suoi a procurarsi amici, utilizzando una ricchezza “iniqua” ? Sulla base di tali considerazioni, le giustificazioni come sopra addotte alle due precedenti domande appaiono davvero poco convincenti; forse, allora, le due “sconcertanti” affermazioni iniziali andrebbero valutate in una diversa prospettiva. Innanzi tutto va correttamente inquadrata la personalità e la posizione del “padrone” nell’ambito della parabola; il padrone, infatti, è qualificato come un “ricco” ed anche se può presumersi che la sua ricchezza sia stata acquisita lecitamente, senza ricorrere cioè a furti, truffe o ad altri mezzi illeciti, il suo rapporto con la ricchezza appare improntato al modo di pensare dei “figli di questo mondo” se, ritenendosi nel suo buon diritto di difendere quanto è “suo”, ha deciso irrevocabilmente, secondo le leggi civili, di punire il suo “amministratore disonesto” e di ciò ne è pienamente consapevole lo stesso amministratore (“che farò ora che il padrone mi toglie l’amministrazione?”): si tratta, cioè, di un soggetto legato alle ricchezze di questo mondo e, comunque, non disponibile a disfarsene.

La ricchezza, invece, se pure, in sé stessa non costituisce un male, è considerata sempre, nella predicazione di Gesù, un naturale ostacolo per ottenere la vita eterna; basti far riferimento a quanto ebbe a dire al giovane ricco (Lc, 18, 22): “una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, distribuiscilo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli”. La distanza abissale che separa il modo di pensare del “padrone” della parabola da quello di Gesù (il quale “da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per la sua povertà”) non autorizza, quindi, minimamente la presunzione (perché solo di questo si tratta) di un avallo, da parte di Gesù stesso, della lode che il padrone sembra attribuire alla scaltrezza usata (con l’illecito mezzo sopra indicato) dal suo disonesto amministratore, anche perché, nello stesso brano, detta scaltrezza è esplicitamente indicata, sempre da Gesù, appartenere alla mentalità dei “figli di questo mondo” (“i figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei figli della luce”): serie perplessità possono, inoltre, ragionevolmente sorgere sull’effettiva portata della stessa “lode”, pronunciata, nella parabola, dal “padrone” al suo amministratore. Va, infatti, tenuta in debita considerazione la circostanza che, per essere il padrone in grado di lodare la scaltrezza messa in atto dal suo amministratore deve, ovviamente, aver scoperto l’inganno: il suo amministratore, cioè, oltre ad aver amministrato disonestamente le sue ricchezze, lo ha ulteriormente danneggiato, falsificando (al fine di ottenerne un utile personale) le “ricevute” sottoscritte dai debitori, diminuendo gli importi da questi ultimi a lui dovuti. In tale situazione, così come chiaramente descritta nella parabola, appare davvero inverosimile e paradossale che il “padrone”, il quale aveva già in cuor suo destituito il suo amministratore infedele, ora lo lodi, cambiando radicalmente il suo precedente giudizio di condanna, dopo aver scoperto una nuova truffa a suo danno; d’altra parte se realmente lo loda per la scaltrezza usata nell’architettare l’ultima sua bravata, necessariamente ne deve approvare le conseguenze, accettando la riduzione del proprio credito nei confronti dei suoi debitori, così come falsamente effettuata dal suo amministratore: di un tale repentino cambiamento nella valutazione dell’operato del proprio amministratore (che avrebbe necessariamente comportato anche la revoca della già decisa estromissione) non vi è alcun cenno nella parabola e, quindi, arbitraria risulterebbe ogni supposizione in tal senso. Ed allora qual è il significato da attribuire all’affermazione: “il padrone lodò quell’amministratore disonesto, perché aveva agito con scaltrezza”, contenuta nel racconto della parabola? La spiegazione più plausibile porta a concludere che detta “lode” sia stata pronunciata dal “padrone” nei confronti del suo disonesto amministratore in modo sostanzialmente ironico (pur apprezzandone la scaltrezza usata, secondo una mentalità non dissimile dalla propria) e che, pertanto, tutto sia rimasto come prima: l’estromissione, cioè, dell’amministratore disonesto, il quale, presumibilmente sarà rimasto anche privo dei previsti vantaggi conseguenti al suo ultimo stratagemma, una volta scoperto dal padrone. Il ricorso all’ironia non è, d’altra parte, estraneo nelle Sacre Scritture; più di una volta, infatti, ricorrono affermazioni, attribuite anche al Signore stesso, pronunciate per ironia; basti fare riferimento a quanto raccontato in Genesi, 3, 22, subito dopo il peccato originale, commesso da Adamo ed Eva : “il Signore Dio disse allora: Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male.” Ironia, che non è sarcasmo, in quanto non caratterizzata da animosità e risentimento ed intesa ad offendere ed umiliare, bensì accompagnata da profonda delusione e tristezza per il peccato commesso dall’uomo. Quanto alla seconda affermazione, apparentemente anch’essa problematica, relativa all’invito rivolto da Gesù ai suoi di procurarsi degli amici “con la iniqua ricchezza” per “essere accolti nelle dimore eterne”, il racconto della parabola come sopra riportato serve a Gesù per mettere in evidenza quanto diversa debba essere la scaltrezza dei “figli della luce” nell’utilizzo della “iniqua ricchezza”, rispetto a quella del disonesto amministratore raccontata nella parabola. Deve, innanzi tutto, chiarirsi cosa debba intendersi per “iniqua ricchezza”. La ricchezza è, in primo luogo, iniqua quando la stessa risulti il frutto di azioni delittuose come il furto, la truffa, l’appropriazione indebita, di azioni, cioè, che mirano all’acquisizioni di ricchezze a proprio vantaggio mediante l’illecita sottrazione della “ricchezza altrui”. Si tratta, in tal caso, come sopra già messo in evidenza, di ricchezze oggettivamente “cattive”, in quanto illecitamente acquisite con “atti intrinsecamente cattivi” e, pertanto, come tali, non suscettibili di essere proficuamente usate, da parte del suo detentore: la scaltrezza suggerita da Gesù nell’uso della “ricchezza iniqua” non può, pertanto, riguardare la ricchezza, così acquisita; d’altra parte, lo stesso Gesù invita, esplicitamente, ad essere “fedeli nella ricchezza altrui”, (“E se non siete stati fedeli nella ricchezza altrui, chi vi darà la vostra?”). La ricchezza, ancorché lecitamente conseguita, è, inoltre, “iniqua” quando è posseduta in modo non fedele all’insegnamento evangelico, quando, cioè, l’attaccamento alla stessa determini, di fatto, un vero e proprio asservimento che porta all’esclusione di Dio stesso, come indicato nella frase conclusiva del brano evangelico in esame: “Nessun servo può servire a due padroni: o odierà l'uno e amerà l'altro oppure si affezionerà all'uno e disprezzerà l'altro. Non potete servire a Dio e a mammóna”. Si tratta, in altri termini, non di una ricchezza oggettivamente iniqua, dato che l’iniquità qui considerata riguarda l’assenza di ogni principio di equità e giustizia nel rapporto che intercorre tra il ricco ed i propri beni: è questo tipo di ricchezza quello di cui qui si parla e cui si allude nell’altra domanda posta da Gesù: “Se dunque non siete stati fedeli nella iniqua ricchezza, chi vi affiderà quella vera?”. La scaltrezza che, secondo l’invito di Gesù, dovrebbero mettere in atto i “figli della luce” nel procurasi amici con detta iniqua ricchezza per essere accolti “nelle dimore eterne” altro non è, quindi, che un invito a modificare il rapporto personale con i propri beni, distaccandosi il più possibile dagli stessi e renderlo, così, più equo e fedele all’insegnamento evangelico, condividendo con gli altri quanto è “mio”. Risulta evidente, quindi, la sostanziale differenza tra la scaltrezza dell’amministratore disonesto, descritta nella parabola e la scaltrezza cui dovrebbero ispirarsi, come indicato da Gesù, “i figli della luce” per ottenere asilo nelle “dimore eterne”. La prima è la scaltrezza di chi, fraudolentemente, cerca di utilizzare la ricchezza, illecitamente sottratta ad altri, al fine di conseguire vantaggi personali che, poi, svaniscono nel nulla. La seconda, invece, è la scaltrezza di chi, conscio dell’iniquità della propria ricchezza, in quanto, il più delle volte costituisce vera e propria offesa ai principi di equità e giustizia, si determina ad una profonda conversione, rendendosi disponibile alla condivisione dei propri beni con i bisognosi e, così operando, ottiene la ricchezza “vera”. La scaltrezza, auspicata da Gesù, ed alla quale dovrebbero ispirarsi i “figli della luce” si basa, infatti, sulla necessaria consapevolezza che i beni di cui disponiamo sono beni che ci sono stati dati solo in “amministrazione” e dei quali, pertanto, non possiamo disporne a nostro piacimento, dovendo renderne conto al vero ”Padrone”; “inique”, quindi, devono considerarsi quelle ricchezze usate oltre le proprie necessità: così, ciò che avanza sulle nostre tavole e viene gettato via è, di fatto, indebitamente sottratto a chi ne aveva, invece, bisogno. Concludendo, rileggendo il brano evangelico in esame, nella prospettiva come sopra suggerita, lo stesso non appare più “sconcertante” od “imbarazzante”, rivelandosi come un ulteriore ammonimento ed invito, a tutti rivolto, ad una radicale svolta nel rapporto con i propri beni, sostituendo - al febbrile e spasmodico attaccamento al denaro ed alla bramosia di un suo progressivo accrescimento che producono egoismo, odio, invidia, sperperi, divisioni e sempre più cruente lotte di classe - un diverso stile di vita, fondato sulla disponibilità alla condivisione dei propri beni con i più bisognosi, con benevolenza e magnanimità, contribuendo, così, alla realizzazione di una vera giustizia sociale, percorrendo quella feconda via dell’amore che consente l’accesso alle “dimore eterne”.

25) La sofferenza degli animali e la loro presenza in paradiso

Va innanzi tutto premesso che, in tempi non troppo remoti, alcuni (anche nell’ambito del pensiero cattolico) hanno ritenuto di poter negare la sofferenza degli animali, giustificando tale convinzione con la mancanza di coscienza da parte loro: una simile tesi è, per fortuna, assolutamente superata dato che per coscienza, in questa accezione, deve intendersi non già la valutazione, sul piano morale, del proprio comportamento (autocoscienza che costituisce attributo specifico ed esclusivo dell’uomo), bensì solo l’insieme delle capacità psico-fisiche che consentono la percezione di tutto ciò che accade su di sé ed intorno a sé e che costituiscono patrimonio comune sia degli uomini che degli animali. Anche se non si rinvengono, nei Vangeli, precise indicazioni che l’uomo deve seguire nei rapporti con gli animali, il loro rispetto è da ritenersi prescritto, (come affermato nel “Catechismo della Chiesa Cattolica”) dal settimo comandamento, nel quale rientra il rispetto dell’integrità della creazione, affidata all’uomo perché la “custodisse” (Gn 2, 15): “la signoria sugli esseri inanimati e sugli altri viventi accordata dal Creatore all’uomo non è’ assoluta………Gli animali sono creature di Dio: Egli li circonda della sua provvida cura. Anche gli uomini devono essere benevoli verso di loro,…….. è, pertanto, contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita.” Gli animali, quindi, soffrono e muoiono come gli uomini: ma qual’ è la causa della loro sofferenza? Difficile è sostenere, come da alcuni si continua a farlo, che ciò è la naturale conseguenza del “peccato” dell’uomo che avrebbe coinvolto tutto il creato, anche se molte delle sofferenze patite dagli animali sono, in effetti, attribuibili a disumani comportamenti dell’uomo nei loro confronti. Se, infatti, è vero, sulla base dei risultati ottenuti da scientifiche ricerche svolte sull’argomento, che i primi organismi pluricellulari comparvero sulla terra 570 milioni di anni fa, i dinosauri 200 milioni di anni fa, i primi piccoli mammiferi 65 milioni di anni fa, l’”homo habilis” 2 milioni di anni fa ed, infine, l’”homo sapiens sapiens” “solo” 40.000 anni fa, è evidente che la sofferenza e la stessa morte degli animali preesistesse molto prima che l’uomo comparisse sulla faccia della terra; né la prescienza, da parte del Dio Creatore, del futuro peccato dell’uomo può aver determinato un simile effetto: d’altra parte lo stesso S.Tommaso D’Aquino sostiene nella sua “Summa” (I, q. 69, a 2) che il peccato dell’uomo non ha cambiato per nulla la natura delle cose. Dovendo, pertanto, escludere che il peccato dell’uomo possa essere la causa della sofferenza degli animali e che, comunque, sofferenza e morte non rientravano nel progetto di Dio creatore, deve concludersi che entrambe sono opera di chi ha sempre cercato di ostacolare e deturpare la Sua opera, cioè del Demonio: “la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo” (Sap. 2, 24). Pur essendo il diavolo e gli altri demoni stati creati da Dio naturalmente buoni, da se stessi si sono trasformati in malvagi. La Scrittura parla di un peccato di questi angeli: tale caduta consiste nell’avere, questi spiriti creati, con libera scelta, radicalmente ed irrevocabilmente rifiutato Dio; delle loro opere malvagie, la più grave nelle sue conseguenze è stata la seduzione menzognera che ha indotto l’uomo a disobbedire a Dio. Sebbene la loro azione causi gravi danni, sia di natura spirituale che di natura fisica, questa azione è permessa dalla divina Provvidenza: la permissione divina di tale nefanda attività diabolica resta sempre un grande mistero che, pertanto, investe, nella sua insondabilità, il problema della sofferenza dell’uomo, coinvolgendo anche quella fisica degli altri esseri viventi. Altro non ci resta, convinti per fede che “tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28), che sperare che la morte corporale, dalla quale gli esseri viventi sarebbero stati esentati, in assenza del peccato, sarà “l’ultimo nemico” a dover essere vinto e che, alla fine dei tempi, comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la Provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Alla fine dei tempi, infatti, il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza, dopo il Giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo ed anima e lo stesso universo sarà rinnovato. “Allora la Chiesa…avrà il suo compimento… nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose e quando con il genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo” (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium). Questo misterioso rinnovamento, che trasformerà l’umanità e il mondo, dalla Sacra Scrittura è definito con l’espressione “i nuovi cieli e una terra nuova”. Per l’uomo, questo compimento sarà la realizzazione definitiva dell’unità del genere umano, non più ferito dal peccato, dalle impurità, dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena. Quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l’uomo; anche l’universo visibile, dunque, è destinato ad essere trasformato, “affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti” (Sant’Ireneo di Lione). Ed allora, perché andare alla ricerca, come fanno innumerevoli teologi, di reconditi significati allegorici contenuti nella raffigurazione dei “tempi messianici” descritta da Isaia (11, 6-8), secondo cui, in quei tempi: “il lupo dimorerà insieme con l'agnello, la pantera si sdraierà accanto al capretto; il vitello e il leoncello pascoleranno insieme e un fanciullo li guiderà. La vacca e l'orsa pascoleranno insieme; si sdraieranno insieme i loro piccoli. Il leone si ciberà di paglia, come il bue. Il lattante si trastullerà sulla buca dell'aspide; il bambino metterà la mano nel covo di serpenti velenosi” , invece di limitarsiu al significato letterale di quell’affermazione? Certamente alcuni teologi storceranno il naso riguardo alla possibile salvezza degli animali, soprattutto quanti non li amano. Ma il Signore li ha creati e per loro, come risulta dai numerosi passi biblici, ha previsto la destinazione in paradiso. Se noi li amiamo, a maggior ragione li ama Dio Creatore: l’Amore. Ovviamente per loro non può esserci il giudizio in quanto incapaci di libero arbitrio. Di conseguenza mentre per gli animali il Paradiso è certo (pur sempre nei limiti della loro natura), per gli uomini è necessario transitare dal giudizio divino. Gli uomini che hanno rifiutato Dio fino alla fine della loro vita finendo all’inferno a far “compagnia” al diavolo, si roderanno d’invidia anche per la miglior sorte toccata agli animali. A tal proposito ripropongo, quanto riportato da un sito internet, come confidenza di un esorcista. “Poiché gli era morto da poco un cane a cui era molto affezionato, decise di chiedere conferma al Diavolo riguardo al seguente passo dell’Apocalisse 5,13 : ‘Tutte le creature del cielo e della terra, sotto la terra e nel mare e tutte le cose ivi contenute, udii che dicevano: A Colui che siede sul trono e all'Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli’. Riporto quanto successe in tale occasione. Esorcista (verso la fine dell’esorcismo, quando il demonio era spossato dalle preghiere): ‘In nome di Dio Onnipotente e del Santo Spirito di verità, cosa significa il passo dell’Apocalisse 5,13. Rispondi in nome di Dio’. Nessuna risposta del demonio. Esorcista:’In nome di Dio, Verità e Vita. Rispondi!’ Nessuna risposta del demonio che comunque manifestava rabbia. Dopo ripetuti interventi al riguardo, accompagnati da spruzzate di acqua benedetta, l’esorcista pregò mentalmente la Madonna chiedendo di aiutarlo a far parlare il diavolo. Dopo tale preghiera ebbe un’ispirazione e disse : ‘Perché non parli? Sei forse invidioso poiché gli animali vanno in Paradiso?’. ‘Sììììì!” rispose rabbioso il demonio evidenziando l’umiliazione e la rabbia d’essere finito all’inferno, mentre gli animali sono in Paradiso” .

26) La zizzania, ovvero le false dottrine

Nel Vangelo di Matteo (13, 24-30) si legge: "Il regno dei cieli si può paragonare a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. Ma mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò. Quando poi la messe fiorì e fece frutto, ecco apparve anche la zizzania. Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: Padrone, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene dunque la zizzania? Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo. E i servi gli dissero: Vuoi dunque che andiamo a raccoglierla? No, rispose, perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. Lasciate che l'una e l'altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: cogliete prima la zizzania e legatela in fastelli per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio". Cosa rappresenta la zizzania seminata dal “nemico” in mezzo al grano e perché il Padrone si oppone alla proposta dei servi di “raccoglierla”, per evitare che, cogliendola, verrebbe sradicato anche il grano? La parabola della zizzania, nel Vangelo di Marco, è proposta subito dopo quella del “seminatore” e, sotto certi aspetti, ne costituisce un ulteriore chiarimento, sulla base anche delle esplicite spiegazioni fornite dallo stesso Gesù. Conviene rileggerla (Mt. 13, 3-23): “Il seminatore uscì a seminare. E, mentre seminava, una parte del seme cadde sulla strada e vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta. Chi ha orecchi, intenda”. Una prima osservazione sorge spontanea: come mai il seminatore (che, come successivamente spiegato, è lo stesso “Figlio dell’uomo”) è così sprecone e distratto da far cadere gran parte del seme sulla “strada”, “in luogo sassoso” e sulle “spine”, mentre solo una parte cade sulla “terra buona”? La spiegazione ce la dà lo stesso Gesù: quei quattro diversi luoghi indicati, con linguaggio figurato, nella parabola, non vanno letti come identificazione dei vari posti ove cade il seme, bensì corrispondono alle diverse modalità ed effetti dell’ascolto della “parola del regno” da parte dell’uomo. Così, infatti, secondo le parole di Gesù, deve essere compresa la “parabola del seminatore” (13, 19-23): “Tutte le volte che uno ascolta la parola del regno e non la comprende, viene il maligno e ruba ciò che è stato seminato nel suo cuore. Questo è il seme seminato lungo la strada. Quello che è stato seminato nel terreno sassoso è l’uomo che ascolta la parola e subito l’accoglie con gioia, ma non ha radice in sé ed è incostante, sicché appena giunge una tribolazione o persecuzione a causa della parola, egli ne resta scandalizzato. Quello seminato tra le spine è colui che ascolta la parola, ma la preoccupazione del mondo e l’inganno della ricchezza soffocano la parola ed essa non dà frutto. Quello seminato nella terra buona è colui che ascolta e la comprende; questi dà frutto e produce ora il cento, ora il sessanta, ora il trenta.” Il Seminatore, infatti, non è né sprecone, né distratto, dato che, come spiegato nella successiva parabola della zizzania, semina solo “buon seme nel suo campo”: l’uomo, cioè, è sempre naturalmente predisposto ad ascoltare “la Parola del regno” e, comprendendola, a produrre frutto. Ma, ecco che, dopo che il seminatore della parabola ebbe terminato il suo lavoro, “mentre tutti dormivano venne il suo nemico, seminò zizzania in mezzo al grano e se ne andò” (13, 25). Come il buon seme, anche quello della zizzania ha bisogno di un certo periodo di incubazione per fruttificare: il seme, sia quello buono che cattivo, contiene, infatti, solo embrionalmente il relativo frutto che si svilupperà solo se troverà terreno fertile per il suo naturale sviluppo. Così, “quando, poi, la messe fiorì e fece frutto apparve anche la zizzania” insieme al grano: i servi andarono dal padrone ed implicitamente lo accusarono di aver lui stesso seminato la zizzania (“Padrone non hai seminato del buon seme nel tuo campo?”); tale è, infatti, il comune sentire dell’uomo, il quale posto di fronte al male del mondo è portato subito ad individuare nel Signore la sua fonte, per finire, poi, a pretendere di dimostrare l’inesistenza di Dio stesso, proprio sulla base dell’esistenza del male nel mondo. In entrambe le parabole, nel seme è esplicitamente raffigurato l’uomo stesso, il quale, a seconda della sua accoglienza della “Parola del regno” o della “zizzania”, assume la stessa identità di quanto accolto, rispettivamente, quale: “seme buono… figlio del regno” o “zizzania…figlio del maligno” (Mt. 13, 38). Il racconto della parabola mette in chiara evidenza la subdola strategia del maligno: la sua azione si svolge di notte, con il favore delle tenebre per non essere visto e colpisce quanti sono nel sonno, quanti, cioè, non sono capaci di una costante vigilanza. “Mentre tutti dormivano venne il suo nemico”: certamente, non dormiva il padrone, seminatore “del buon seme nel suo campo”; questi, infatti, è l’unico soggetto nella parabola che ha notato quanto è successo, tanto che, alla tendenziosa domanda dei suoi servi, risponde prontamente identificando nel suo “nemico” l’autore dell’accaduto. Ma in che cosa consiste la “zizzania” furtivamente seminata nel campo? Se il buon seme è costituito dalla “parola del regno”, nella zizzania va identificato tutto ciò che tale “parola” contrasta: tutte le false dottrine, cioè, che ad opera del maligno entrano nei nostri pensieri, suggestionandoli e guidandoli verso la direzione da lui stabilita. Ciò che viene seminato sono, però, solo i germi di ciò che sarà il frutto del male, che non si realizzerebbe senza che il terreno fornisca il nutrimento necessario al loro naturale sviluppo, lasciandoli crescere in sé, senza, cioè, la volontaria e determinante collaborazione umana: il male presente nella storia non si produce, infatti, come atto direttamente riconducibile a Satana, bensì come il frutto di una incubazione nell’animo umano di quei germi avvelenati che producono il peccato, conseguenza di una libera scelta dell’uomo. Nella “zizzania” vanno, pertanto, identificati i germi di tutte quelle dottrine che avvelenano il mondo, fondate su una falsa rappresentazione della libertà dell’uomo che lo conduce, inevitabilmente, a quel misterioso “peccato originale” (commesso su istigazione di Satana), rivendicando a sé stesso il potere di decidere ciò che è bene e ciò che è male, ritenendosi arbitro assoluto di modificare, a suo piacimento, il contenuto della legge morale, naturalmente ed immodificabilmente impressa nel cuore dell’uomo, facendo, così, prevalere l’utilitarismo ed edonismo che inevitabilmente sfocia nel peggiore relativismo, anticamera di vero e proprio ateismo. In dette false dottrine sono, innanzi tutto, da ricomprendersi quelle che attentano ai fondamentali valori della vita e della famiglia, nonché tutte le altre (che qui non è il caso di elencare) che, in vari settori dell’attività umana (dalla ricerca scientifica, alla politica, alla finanza, ecc.), contraddicono ai naturali principi di moralità, giustizia ed equità. Così, quanto al pericolo che il “relativismo” possa minare i fondamentali principi della legge morale, in dette false dottrine vanno ricompresi tutti i tentativi di far prevalere il subdolo principio che la legge morale debba essere applicata “caso per caso”, facendo venir meno quei principi di inderogabilità, universalità ed immutabilità, cui faceva riferimento Giovanni Paolo II, nella sua stupenda enciclica “Veritatis splendor” (significativo, al riguardo, risulta il riferimento, ivi contenuto, all’ “emblematica storia” della casta Susanna): invero, il “campo” di Satana non conosce luoghi privilegiati, immuni dalla sua semina velenosa. Perché i germi di dette false dottrine producano frutto, fondamentale risulta sempre, come si è detto, la volontaria adesione e partecipazione umana che, alla fine, conduce gli uomini ad essere “egoisti, amanti del denaro, vanitosi, orgogliosi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, senza religione, senza amore, sleali, maldicenti, intemperanti, intrattabili, nemici del bene, traditori, sfrontati, accecati dall’orgoglio, attaccati ai piaceri più che a Dio, con la parvenza della pietà, mentre ne hanno rinnegata la forza interiore”, conseguenze, tutte, identificative, secondo l’Apostolo Paolo, dei “momenti difficili” degli “ultimi tempi” (2 Tm, 3, 1-5) e che, purtroppo, in tutta evidenza, sono riscontrabili ai nostri giorni: come, però, la “Parola del regno” può essere respinta dall’uomo, altrettanto può accadere per le subdole lusinghe di Satana, nei cui confronti ciascuno è chiamato ad ingaggiare un vero combattimento spirituale al fine di far abortire questi malefici germi, prima che possano produrre i loro frutti velenosi. Se tutto ciò è comprensibile, resta, comunque, irrisolta l’angosciosa domanda del perché il divino Seminatore consenta l’azione del Maligno e, una volta che la sua velenosa semina ha prodotto i suoi frutti, preferisca che questi ultimi continuino a crescere in mezzo al grano buono, anziché estirparli. Si ripropone, con tale domanda, quella del perché dell’esistenza stessa del Male, sotto i due aspetti del male-colpa (peccato) e del male-pena (sofferenza): basti qui rilevare (per un approfondimento, rimando alle precedenti osservazioni sull’argomento: v. “Il bene ed il male: la sofferenza”) che il Male non proviene da Dio e, pur essendo la sua presenza nel mondo avvolta da un imperscrutabile mistero, svolge la sua azione secondo un insindacabile disegno divino che non riusciamo a comprendere pienamente. Quanto, poi, al fatto che il Seminatore respinga l’idea dei suoi “servi” di estirpare i frutti della zizzania, va osservato, innanzi tutto, che a nulla serve distruggere i frutti del seme avvelenato, se non viene eliminato chi tali semi ha seminato e tale opera non compete all’uomo: secondo le Sacre Scritture, infatti, solo alla fine dei tempi Satana sarà definitivamente sconfitto ed “il Figlio dell’uomo….separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra” (Mt. 25, 31-33). Inoltre, più di una volta Gesù, nella Sua predicazione, ha esplicitamente detto di non essere venuto per di¬struggere ma per liberare, non per condannare ma per perdonare, non per sterminare ma “a cercare e a salvare ciò che era perduto” (Lc. 19, 10). Compito del cristiano è, quindi, quello di far emergere, identificare e condannare tutto ciò che è in contrasto con la “Parola del regno”, ma non quello di condannare il peccatore ed eliminarlo. Invero, nei confronti degli altri siamo tutti più esigenti di quanto non lo siamo nei confronti di noi stessi: vorremmo una giustizia immediata, da realizzarsi quasi dopo ogni peccato, che precedesse quella di Dio stesso, con la conseguenza, forse, di impedire che la Sua inesauribile misericordia possa far sortire il grande miracolo che la zizzania possa trasformi in grano. Se le osservazioni sopra esposte possono costituire valide argomentazioni del perché la zizzania non possa essere sradicata dal mondo ad opera dell’uomo, nella parabola, comunque, il padrone raccomanda i suoi “servi” di non eseguire tale operazione, “perché non succeda che, cogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano”. Invero, nessun uomo è in grado di rivendicare a sé stesso di essere solo frutto del buon seme: in ognuno di noi sono inevitabilmente presenti e inestricabilmente aggrovigliati, sia pure in diverse proporzioni, i frutti sia del seme buono che della zizzania, sicché estirpare dal mondo quanti portano in sé i frutti della zizzania, significherebbe distruggere l’umanità tutta. D’altra parte, è proprio nella consapevolezza dei miei limiti nell’interiore combattimento spirituale contro le potenze del male, delle mie debolezze che mi procurano frequenti cadute, che posso far mia l’affermazione di Paolo (2 Cor, 12, 10), apparentemente paradossale: “quando sono debole, è allora che sono forte”, giacché solo allora prendo coscienza che la mia vera forza risiede esclusivamente nell’invincibile sostegno di Chi mi aiuterà a rialzarmi e proseguire verso la meta. A quest’ultimo proposito, mi viene in mente la storiella di quel bambino, intento a spostare una grossa pietra alla presenza del padre: il bambino si sforza nell’impresa, mentre il padre lo incoraggia a mettercela tutta, facendo appello a tutte le sue forze, garantendogli che ce l’avrebbe fatta. Alla fine il bambino, esausto, desiste e, sfiduciato, si rivolge al padre per fargli presente che la sua previsione era errata: il padre, invece, contesta quanto affermato dal suo bambino, facendogli notare di essersi dimenticato di utilizzare la forza più consistente a sua disposizione, in quanto non aveva chiesto il suo aiuto.

27) Sessualità

“Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn. 1, 27-28). L’Antico Testamento, pertanto, fin dalle prime pagine, con il racconto della creazione, da parte di Dio, dell’uomo e della donna, indica, nella loro differenza sessuale, la procreazione come elemento fondamentale della vita umana. Sulla base di tali premesse, la Chiesa cattolica, conscia dell’alto valore da attribuire all’esercizio della sessualità, naturalmente finalizzata alla procreazione di altre vite umane, indica, con la propria dottrina morale, nella coppia eterosessuale che abbia contratto matrimonio, l’unica sede legittimamente depositaria di tale nobile funzione. Nella generazione, l’uomo è chiamato ad esercitare un’attività ministeriale: nella generazione, infatti, Dio stesso è presente, in quanto con tale atto continua la creazione, trasmettendo la sua immagine e somiglianza al nuovo individuo, grazie alla creazione dell’anima immortale “La sessualità è ordinata all’amore coniugale dell’uomo e della donna. Nel matrimonio l’intimità corporale degli sposi diventa un segno e un pegno della comunione spirituale. Tra i battezzati, i legami del matrimonio sono santificati dal sacramento. La sessualità……si realizza in modo veramente umano solo se è parte integrante dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte. Gli atti con i quali i coniugi si uniscono in casta intimità, sono onorevoli e degni, e, compiuti in modo veramente umano, favoriscono la mutua donazione che essi significano, ed arricchiscono vicendevolmente in gioiosa gratitudine gli sposi stessi. La sessualità è sorgente di gioia e di piacere. Il Creatore stesso….ha stabilito che nella reciproca donazione fisica totale gli sposi provino un piacere e una soddisfazione sia del corpo sia dello spirito. Quindi, gli sposi non commettono nessun male cercando tale piacere e godendone. Accettano ciò che il Creatore ha voluto per loro. Tuttavia gli sposi devono saper restare nei limiti di una giusta moderazione. Mediante l’unione degli sposi si realizza il duplice fine del matrimonio: il bene degli stessi sposi e la trasmissione della vita. Non si possono distinguere questi due significati o valori del matrimonio, senza alterare la vita spirituale della coppia e compromettere i beni del matrimonio e l’avvenire della famiglia. L’amore coniugale dell’uomo e della donna è così posto sotto la duplice esigenza della fedeltà e della fecondità”. (“Catechismo della Chiesa cattolica”, nn. 2360-2363) Su tali presupposti, la Chiesa cattolica si è sempre richiamata al principio di una necessaria castità cui debba ispirarsi l’esercizio della sessualità: castità che, per definizione, quindi, non può sussistere in qualsiasi rapporto che avvenga al di fuori del vincolo matrimoniale, sacramentalmente assunto. Nell’ambito del rapporto matrimoniale, castità vuol significare usare della sessualità secondo la natura del rapporto stesso, finalizzato alla procreazione, senza, con ciò, mortificare l’aspetto della ricerca del piacere reciproco che non influisce sulla legittimità del rapporto stesso, laddove quest’ultimo non comporti, ovvero non possa obbiettivamente comportare alcun effetto in ordine alla procreazione. Ciò che la Chiesa non ritiene conforme ai suoi insegnamenti è, pertanto, il ricorso a mezzi o modalità, deliberatamente posti in essere nell’ambito del rapporto matrimoniale, che escludano l’idoneità del rapporto sessuale a produrre, sotto l’aspetto oggettivo, i suoi possibili effetti naturali: in tale prospettiva, ogni disquisizione in ordine alla liceità o meno, sotto l’aspetto morale, del ricorso a tali mezzi in tutti i rapporti extramatrimoniali (come tali, pertanto, sempre oggettivamente in contrasto con i precetti cristiani) potrebbe apparire sterile, dato che la loro sussistenza, collocandosi all’interno di un comportamento disordinato, non può, certo, produrre alcun effetto sul giudizio dei rapporti in questione (aggravandoli, ovvero giustificandoli). Invero, su quest’ultimo argomento, il Papa ha testualmente affermato che: “Vi possono essere singoli casi giustificati, ad esempio quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole. Tuttavia, questo non è il modo vero e proprio per vincere l'infezione dell'Hiv. È veramente necessaria una umanizzazione della sessualità”. Con tale affermazione, il Papa non dice nulla di nuovo in ordine all’illiceità di tali rapporti; la “giustificazione” dell’utilizzo suddetto va, pertanto, correttamente letta nella prospettiva, come del resto esplicitamente affermato, che nello stesso possa intravedersi, nel suo autore – con la consapevolezza di cercare di evitare i possibili effetti dannosi di quel rapporto – “il primo passo verso una moralizzazione” che lo spinga a comprendere “che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò Particolare attenzione, in tema di rapporti sessuali al di fuori di un vincolo matrimoniale tra un uomo ed una donna, deve esser, poi, riservata al problema dell’omosessualità. Va, innanzitutto, premessa una netta distinzione tra la “tendenza” all’omosessualità e l’effettiva “pratica” della stessa. Pur prendendo atto che “un numero non trascurabile di uomini e di donne presenta tendenze omosessuali innate, sicché la loro condizione non dipende da una loro scelta” e che “la genesi psichica dell’omosessualità rimane in gran parte inspiegabile”, (Catechismo della Chiesa Cattolica: nn. 2357-2358) è innegabile che l’omosessualità, obbiettivamente, rimane qualcosa che è fuori della norma e contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto, creando l’uomo “maschio e femmina” per essere “fecondi” e “moltiplicarsi”; riscontrandosi detto fenomeno anche in altre specie del mondo animale, unitamente ad altri fenomeni naturali che deturpano il creato, dette anomalie, per il credente, possono farsi risalire all’opera del Maligno che, sin dalle origini, ha sempre cercato di contrastare e deturpare, in ogni modo, l’opera del Signore. Nei confronti di dette “tendenze”, la Chiesa ha ripetutamente “deplorato con fermezza che le persone omosessuali siano state e siano ancora oggetto di espressioni malevoli e di azioni violente. Simili comportamenti meritano la condanna dei Pastori della Chiesa, ovunque si verificano. La dignità propria di ogni persona deve essere sempre rispettata nelle parole, nelle azioni e nelle legislazioni.” (Congregazione per la Dottrina della Fede, Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica per la cura pastorale delle persone omosessuali, 1986). La Chiesa, pertanto, non condanna l’omosessualità come tale, in quanto “tendenza” naturale (con esclusione, quindi, dell’omosessualità alla quale si sia pervenuti per deliberata scelta), ma la sua “pratica”, che si traduce in atti, qualificati “atti impuri” e che sono condannati, come tali, similmente ai rapporti eterosessuali nei casi “disordinati” sopra considerati, senza, quindi, alcuna discriminazione, derivando, detta qualifica – in entrambe le suddette situazioni ed a prescindere dalla diversa gravità dei singoli fatti - da un volontario comportamento sessuale, fuori del matrimonio e/o non atto, oggettivamente, alla procreazione, escludendo sempre e nel modo più categorico che possa parlarsi di matrimonio nell’unione di due persone dello stesso sesso. Da sempre la dottrina cattolica ha affermato che i rapporti sessuali fra persone dello stesso sesso non possono essere approvati in nessun caso, e sono contrari alla legge naturale anche qualora l'omosessualità non fosse il risultato di una scelta deliberata; anche in questo caso, infatti, permane quella libertà fondamentale che caratterizza la persona umana e che le consente di evitare l'attività omosessuale. Anche le persone omosessuali, come qualsiasi altra persona, sono, quindi, “chiamate alla castità: attraverso le virtù della padronanza di sé, educatrici della libertà interiore, mediante il sostegno, talvolta, di un’amicizia disinteressata, con la preghiera e la grazia sacramentale, possono e devono, gradatamente e risolutamente, avvicinarsi alla perfezione cristiana.” (Catechismo della Chiesa Cattolica n. 2359). Altre fattispecie di atti gravemente “disordinati” e, pertanto, decisamente condannati dalla morale cattolica sono quelli riconducibili all’inquietante fenomeno della pedofilia. A prescindere da ogni questione terminologica – da alcuni, infatti, si cerca di distinguere tra pedofilia in senso stretto, intesa come semplice attrazione sessuale per i minori e l’abuso sui minori che procuri danni attraverso comportamenti sessuali – nel concetto di pedofilia, secondo l’accezione comune del termine, devono comprendersi tutti i rapporti sessuali intrattenuti da adulti con minori e procurati con violenze o lusinghe: l’estrema gravità di tali vergognosi comportamenti emerge indiscutibilmente dalla circostanza che gli stessi risultano messi in essere nei confronti di minori, soggetti, cioè, particolarmente vulnerabili e manipolabili. Particolarissima gravità assumono, poi, gli atti “disordinati” di cui sopra (con particolare riferimento ai casi di omosessualità e pedofilia) quando a porli in essere è un sacerdote della Chiesa Cattolica, avendo presente l’alto valore della sua missione. Il sacerdote, infatti (usando le parole della Venerabile Madre Margherita Claret de la Touche) “è stato fatto dispensatore dei misteri di Dio e dei tesori del suo Amore. Tutto gli è stato messo tra le mani affinché lo distribuisca alle anime. Vi è dunque in lui stesso il deposito dei misteri della Verità Increata e dei tesori dell’Amore Infinito. Oh, quanto è grande il sacerdote! Quanto è degno di rispetto e d’onore! Il sacerdote ha dunque in suo possesso, non per se stesso, ma per donarli, tutti i tesori della Verità e dell’Amore! Se non distribuisce questi beni divini e viventi, se li trattiene, se li nasconde, ne priva le anime e si rende colpevole. Se li distribuisce, invece, è un dispensatore fedele e benedetto, meglio ancora, diventa un canale vivente e vivificante nel quale l’Amore Infinito fa passare le sue onde sacre”. Rileggendo queste ispirate parole, appaiono ancor più indegne ed intollerabili le turpi azioni di cui sopra, intrinsecamente disordinate, se commesse da un sacerdote. Nel recente libro-intervista “Luce del mondo”, Benedetto XVI ha, innanzi tutto, affermato che: "laddove un sacerdote vive insieme a una donna si deve esaminare se esista una vera volontà matrimoniale e se i due possano contrarre un buon matrimonio. Se così fosse, dovranno imboccare quella strada (ovviamente, previa riduzione allo stato laicale). Se, invece, si trattasse di una caduta della volontà morale, senza un autentico legame interiore, sarà necessario trovare vie di risanamento per lui e per lei. In ogni caso è necessario provvedere al fatto che i bambini - che sono il bene più prezioso - siano tutelati e che possano vivere nel contesto educativo vivo del quale hanno bisogno".

Sempre nello stesso libro, il Papa ha, inoltre, avuto modo di ribadire che l’omosessualità, che rimane, comunque, qualcosa che è contro la natura di quello che Dio ha originariamente voluto, “non è conciliabile con il ministero sacerdotale, perché altrimenti anche il celibato come rinuncia non ha alcun senso. Sarebbe un grande pericolo se il celibato divenisse motivo per avviare al sacerdozio persone che in ogni caso non desiderano sposarsi, perché in fin dei conti anche il loro atteggiamento nei confronti di uomo e donna è in qualche modo alterato, ed in ogni caso non è in quell’ordine della creazione del quale abbiamo parlato". "È necessario - aggiunge Benedetto XVI - usare molta attenzione affinché il celibato dei preti non venga identificato con la tendenza all’omosessualità", ribadendo che “l’omosessualità non può essere mai moralmente giusta”. All’osservazione dell'intervistatore, il giornalista tedesco Peter Seewald, che faceva notare a Benedetto XVI che nei monasteri, se pure non vissuta, c'è omosessualità non praticata, il Papa ha risposto che: ''anche questo fa parte dei travagli della Chiesa. E chi ne è colpito dovrebbe almeno tentare di non esercitare attivamente quella inclinazione, per rimanere fedele al compito più intimo del proprio ufficio”. Quanto, poi, ai casi di abuso su minori, da parte di sacerdoti, Benedetto XVI ha testualmente affermato: “I fatti non mi hanno colto di sorpresa del tutto. Alla Congregazione per la Dottrina della Fede mi ero occupato dei casi americani; avevo visto montare anche la situazione in Irlanda. Ma le dimensioni comunque furono uno shock enorme. Sin dalla mia elezione al Soglio di Pietro avevo ripetutamente incontrato vittime di abusi sessuali. Tre anni e mezzo fa, nell'ottobre 2006, in un discorso ai vescovi irlandesi avevo chiesto loro di stabilire la verità di ciò che è accaduto in passato, prendere tutte le misure atte ad evitare che si ripeta in futuro, assicurare che i principi di giustizia vengano pienamente rispettati e, soprattutto, guarire le vittime e tutti coloro che sono colpiti da questi crimini abnormi. Vedere il sacerdozio improvvisamente insudiciato in questo modo, e con ciò la stessa Chiesa Cattolica, è stato difficile da sopportare. In quel momento era importante però non distogliere lo sguardo dal fatto che nella Chiesa il bene esiste, e non soltanto queste cose terribili”. Sull’azione dei media nella diffusione dei fatti in questione, il Santo Padre ha soggiunto: “Era evidente che l'azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla. E tuttavia era necessario che fosse chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti. La verità, unita all'amore inteso correttamente, è il valore numero uno. E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato. Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei”. Già in precedenza, il Papa, in altra occasione, aveva dichiarato che: “Questi misfatti che costituiscono un così grave tradimento della fiducia, devono essere condannati in modo inequivocabile. Essi hanno causato grande dolore e hanno danneggiato la testimonianza della Chiesa. Chiedo a tutti voi di assistere i vostri vescovi e di collaborare con loro per combattere questo male. Le vittime devono ricevere compassione e cura, e i responsabili di questi misfatti devono essere portati davanti alla giustizia”. Per la dichiarata inconciliabilità di tali indegne condotte con il ministero sacerdotale, dovrebbe sempre procedersi, in tempi brevi, alla “riduzione allo stato laicale” di tutti quei sacerdoti che di tali condotte si rendono colpevoli, sulla base della vigente normativa canonica; indubbiamente, l’adozione di un provvedimento di riduzione allo stato laicale presenta talune difficoltà pratiche di attuazione: come qualsiasi procedimento giudiziario, anche quello canonico richiede, infatti, una preventiva attività investigativa sull’accertamento dei fatti da contestare. I fatti, per poter formare oggetto di indagini, devono innanzi tutto essere formalmente denunciati all’autorità ecclesiastiche competenti e/o all’autorità giudiziaria: lo stesso Benedetto XVI affermando chiaramente che “i responsabili di questi misfatti devono essere portati davanti alla giustizia…….al fine di portare alla luce la verità”, inequivocabilmente invita quanti sono direttamente offesi o, comunque, vengono a conoscenza di tali fatti a denunciarli alle autorità competenti. In questi casi, infatti, il silenzio, lungi dal poter essere considerato un atto di misericordia verso i colpevoli, costituisce, di fatto, vera e propria connivenza, in quanto favorisce la loro impunità, senza considerare la circostanza che i fatti in questione, se non prontamente individuati e repressi, il più delle volte, finiscono per essere oggetto del più deprecabile ed incontrollato pettegolezzo, con l’effetto, per malevola intenzione di chi tali fatti racconta amplificandone il contenuto, di coinvolgere anche persone del tutto estranee alla vicenda, determinando, così, una grande confusione (tra i fatti veri e quelli che sono solo frutto di perfide fantasie) che si ripercuote, negativamente, sulla credibilità degli stessi fatti realmente accaduti. Non può, inoltre, sottacersi la circostanza che mentre i casi di “pedofilia”, costituendo, detta fattispecie, ipotesi penalmente rilevante, formano oggetto di indagini di polizia giudiziaria, i cui risultati, di norma, sono utilizzati anche dalle autorità ecclesiastiche, i casi, invece, di pratiche omosessuali, essendo le stesse suscettibili di una valutazione, rilevante ai soli fini della morale cattolica, possono essere oggetto di indagine esclusivamente da parte delle competenti autorità ecclesiastiche, che non dispongono, certo, degli stessi mezzi a disposizione della polizia giudiziaria; avendo, inoltre, presente che si tratta di fattispecie nelle quali i soggetti direttamente “interessati” sono naturalmente difficilmente disponibili ad ammetterle. Quanto, poi, alla necessità del raggiungimento della prova della sussistenza dei fatti contestati, pur prendendo obbiettivamente atto della difficoltà delle indagini, da parte delle competenti autorità ecclesiastiche, nel doveroso accertamento della verità in un campo così delicato, è, comunque, da tener presente che la ricerca di prove oggettivamente certe possa, sempre, far riferimento anche al principio, recepito dalla legge penale italiana (e non solo), secondo cui “l’esistenza di un fatto può essere desunta anche da indizi, purché siano gravi, precisi e concordanti” (art. 192 c.p.p.). Inoltre, potrebbe, forse, farsi maggiore ricorso, nel corso delle indagini, all’istituto della “sospensione” (comunque già adottata in qualche caso), per evitare che soggetti notoriamente praticanti tali turpi attività possano continuare ad “insudiciare” il loro ministero sacerdotale. Concludendo, seguendo le parole di Benedetto XVI, è “importante, però, non distogliere lo sguardo dal fatto che nella Chiesa il bene esiste, e non soltanto queste cose terribili”, ricordando l’innumerevole schiera di sacerdoti (che rappresentano la stragrande maggioranza) che, appassionatamente e con la massima dedizione, esercitano amorevolmente la loro missione, nonostante tante malevoli incomprensioni, difficoltà ed, a volte, vere e proprie persecuzioni, fino all’offerta della propria vita.

28) Eclissi d'amore

Non è forse l’eclissi d’amore la vera causa dello sgretolamento di tutti i valori, cui quotidianamente assistiamo, accompagnato da una preoccupante fragilità morale che colpisce l’uomo contemporaneo, sfiduciato della vita, profondamente deluso dal crollo di tanti presunti valori, puramente umani, nei quali aveva riposto la propria fiducia e le proprie attese, sopraffatto dall’odio e dall’egoismo e sempre all’affannosa rincorsa di effimere chimere? Siamo di fronte ad una follia dell’intelligenza che vuole provocare Dio, ad un’agitazione generale che solleva tutte le classi della società, ad una crisi morale che travaglia il mondo e lo scuote fin nelle sue basi. Non siamo più capaci di amare: questa la sconcertante verità! L’amore è offuscato, irriconoscibile, quasi caduto nell’oblio: come procedere per il suo recupero? L’amore è, forse, una dottrina, oggetto di insegnamento e di apprendimento? Leggendo, sull’argomento, gli scritti della Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche, pare proprio di sì: predisponiamoci, allora, all’ascolto del suo insegnamento, trascrivendo alcuni brani tratti dalla raccolta dei suoi scritti. "Tutti i sentimenti dell’ordine naturale sono una riproduzione, una specie di copia, molto imperfetta, è vero, dei sentimenti dell’ordine soprannaturale. L’amore divino e l’amore umano hanno tra loro mille punti di rassomiglianza; da principio Dio aveva creato l’uno e l’altro; nel pensiero di Dio l’amore umano doveva essere un riflesso pallido, ma fedelissimo, dell’amore divino. L’uomo, corrotto dal peccato, ha perduto la nozione esatta dell’amore, dimenticando la sua origine e il suo fine; vivendo solo della vita dei sensi, l’amore divino s’è offuscato in lui e gli è parso incompatibile con la sua natura divenuta carnale. L’amore umano, separato dalla sorgente a cui attingeva la vita, fu condotto dall’uomo fuori della via che Dio gli aveva assegnato e, da quasi divino che era, divenne un sentimento grossolano destinato a dare ai sensi i godimenti più bassi, sentimento da cui l’anima esulava completamente e che ben presto divenne simile all’istinto cieco della bestia. Questi due amori, unendosi e completandosi, dovevano dare all’uomo una felicità perfetta quasi simile all’infinita felicità del cielo. Peccato! Maledetto peccato! Perché sei venuto nelle anime per inaridirle e stamparvi il marchio dell’infamia? L’amore divino non era più capito dal cuore dell’uomo; soltanto l’amore umano parlava ai suoi sensi, l’attirava e lo seduceva; e credette di trovare in esso la gioia e il riposo del cuore. Strana illusione! Dopo che il cuore ebbe gustato questo amore, si sentì ancora affamato; dopo che ebbe bevuto a queste false delizie, si sentì ancora riarso dalla sete. Felici coloro che, soffrendo questa sete, hanno cercato la sorgente d’acqua viva; più felici coloro che l’hanno trovata e vi hanno bevuto. Quanto compiango coloro che si sentono soddisfatti nell’amore umano! Ma sono pochi! Molti sentono questo vuoto del cuore che nessuna cosa terrena può colmare, ma purtroppo molti di essi restano con questo vuoto e con questa tristezza non sapendo come rimediarvi. Oh! Se sapessero ricorrere al rimedio divino. Se sapessero che in questo santo amore ogni sete trova il suo refrigerio, ogni tristezza la sua consolazione, ogni sofferenza la sua guarigione! E’ pur dolce al cuore sentirsi amato da una creatura, e più la creatura è bella e perfetta e più la gioia è amabile. Eppure che cos’è una creatura? E’ un cuore che oggi ama, e non ama più domani; è un cuore debolissimo, molto freddo, molto impotente, soprattutto molto incostante; per quanto costante esso sia, la morte verrà pur sempre a porre un termine al suo amore. Ma senza attendere la separazione della morte, la minima lontananza non basta forse a spegnere questa povera fiamma? L’oblio viene così presto! Ma l’amore di Dio per un’anima, l’amore casto di un’anima per Dio, possono durare eternamente; cominciano e s’abbozzano sulla terra, ma si perfezionano nell’eternità……… Il senso dell’uomo, profondamente turbato dal peccato, ha perduto la nozione chiara del vero. Brancola, si sbaglia, devia; non ha più la bella e luminosa intelligenza, la volontà ferma e diritta che possedeva nei primi giorni della sua creazione; non gliene restano più che le rovine. Perciò lo si vede allontanarsi continuamente dalla verità, cambiare l’ordine delle cose, trasformare il bene in male, e preferire spesso il male al bene: il giudizio dell’uomo non segue più la primitiva rettitudine, si piega e troppo spesso si smarrisce. L’umanità, dopo la prima colpa, è caduta in molti errori; ma, forse, sopra nessun punto si è ingannata come sopra l’amore. A misura che l’uomo s’allontanava da Dio, si attaccava maggiormente alle creature; e, per accontentare il suo cuore che reclamava l’Amore Infinito, gli dava in pascolo quest’attaccamento funesto, chiamandolo “l’amore”. L’uomo, dimentico di Dio, non unendosi più a lui con l’amore, non sapendo più a che cosa credere, non osando più nulla sperare, si trovò in mezzo al mondo come un povero naufrago, sperduto nell’oceano. Cercò di afferrare tutto ciò che gli si presentava; si attaccò al più piccolo relitto ed abbracciandolo disperatamente, se lo strinse al cuore e si persuase che l’amava. Ma questo non era l’amore. L’amore vero, il solo che merita questo nome divino, è quello che risale a Dio, unico principio d’amore. Le cupidigie terrestri, le voluttà carnali, sono passioni scatenate dalla colpa originale, sono prodotti dal peccato. Mai potranno appagare contemporaneamente l’intelligenza e il cuore dell’uomo, mai saranno l’amore. L’intelligenza ed il cuore dell’uomo! Due strumenti meravigliosi creati da Dio! Toccati dal soffio divino dell’Amore Infinito, essi dovevano, in un perfetto accordo, effondere la più soave armonia e, raccogliendo, in qualche modo, tutte le note lanciate dalle creature inferiori, formarne un inno melodioso di lode, di riconoscenza e di adorazione. Tutta la bellezza morale dell’uomo, quell’armonia umana che da lui deve risalire verso il cielo, consiste in quest’accordo, in questo perfetto equilibrio, che egli mantiene fra l’intelligenza ed il cuore. Un solo tocco, un solo soffio deve farli vibrare all’unisono: e solo l’Amore Infinito è l’artista divino capace di toccare questi strumenti armoniosi, da lui stesso creati!” Un così appassionato insegnamento, denso di spunti, a volte, lirici , a volte, invece, carichi di sana e ferma violenza nel condannare le funeste conseguenze (di estrema attualità) del progressivo allontanamento dell’uomo da Dio, unico principio di vero amore, non può non provenire da chi di quell’Amore Infinito ne ha ricevuto una personale e diretta percezione, quasi travolto dalla sua onda impetuosa, come avvenuto nell’esperienza vissuta dalla Venerabile Madre Luisa Margherita Claret de la Touche. "Sento che tutta l’anima mia – così, infatti, scrisse la Madre – è permeata da Dio. Sento talvolta che Dio invade il mio essere da ogni parte, pervade la mia intelligenza con luminosità divine, penetra nel cuore con ardori struggenti, si getta nella volontà e la trascina a sé." Da questa soprannaturale esperienza, sorge in lei la quasi istintiva vocazione di rendersi missionaria, nel mondo moderno, della conoscenza del vero Amore e della compatibilità tra l’amore divino e l’amore umano, in quanto hanno tra loro mille punti di rassomiglianza; seguendo, allora, il suo insegnamento, ci renderemo conto che il mondo si salverà solo se potrà fare affidamento sulla rinascita, nell’uomo, di un amore verso gli altri che non sia separato dalla sorgente da cui attingere la sua linfa vitale che risiede nell’Amore Infinito di Dio, certi che questi due amori, unendosi e completandosi, daranno all’uomo una felicità perfetta quasi simile all’infinita felicità del cielo

29) Cristiani perseguitati

Tutta l’Europa è ancora scossa dal massacro avvenuto la notte di Capodanno davanti ad una chiesa copta di Alessandria d’Egitto, dove lo scoppio di una bomba ha provocato 22 morti e 79 feriti, la maggior parte dei quali copti ortodossi. Parole di cordoglio e appelli alle autorità politiche e religiose si sono alternati in questi primi giorni dell’anno. Tra i primi a manifestare dolore e sgomento per quanto era accaduto in Egitto è stato Benedetto XVI che, dopo l’Angelus di domenica 2 gennaio, ha detto: “Questo vile gesto di morte, come quello di mettere bombe vicino alle case dei cristiani in Iraq per costringerli ad andarsene, offende Dio e l’umanità intera”. Lo stesso nostro ministro Frattini è sceso in prima linea invocando l’attivazione del Parlamento Europeo per imporre ai paesi negligenti nella tutela dei cristiani una serie di sanzioni. I ventuno morti per l’autobomba piazzata all’ingresso della chiesa ad Alessandria d’Egitto, vanno a sommarsi alla cinquantina di vittime fatte in un’altra chiesa, a Bagdad, il 31 ottobre, a cui è seguito poco dopo il supplizio di altri sei cristiani (con 33 feriti), alla terribile condizione dei cristiani in Pakistan, per non parlare del caso di Arshed Masih che è stato bruciato vivo per la sua fede cristiana, mentre la moglie – andata a denunciare il fatto dalla polizia – è stata violentata davanti agli occhi dei figli. Sulle persecuzioni nei confronti dei cristiani, Bernard Henri Lévy un mese fa sul Corriere della sera scriveva:“oggi i cristiani formano, su scala planetaria, la comunità più costantemente, violentemente e impunemente perseguitata”. Sembrerebbe, quasi, che i cristiani trucidati, vittime di genocidio (come in Sudan), perseguitati e umiliati in Cina e in tutti gli altri regimi comunisti (Corea del Nord, Cuba, Vietnam) non meritino di essere considerati vittime, giacché la Chiesa deve sempre stare sul banco degli imputati. Lo stesso Papa ha recentemente affermato che i cristiani costituiscono il gruppo umano più perseguitato del pianeta, ma i suoi continui appelli per fermare i massacri dei cristiani continuano ad essere inascoltati. Se la soppressione violenta della vita costituisce indubbiamente l’apice della crudeltà persecutoria nei confronti delle comunità cristiane, non bisogna sottovalutare l’esistenza di altre forme di violenza e di emarginazione cui i cristiani sono, da tempo, sottoposti. In occasione di una sua visita in Polonia, Giovanni Paolo II, pronunciò queste parole che appaiono sempre attuali:“nonostante le apparenze, i diritti della coscienza vanno difesi anche oggi. Sotto l’insegna della tolleranza si diffonde, infatti, nella vita pubblica e nei mezzi di comunicazione di massa una intolleranza sempre più forte: i credenti ne risentono dolorosamente. Essi avvertono crescenti tendenze alla loro emarginazione nella vita sociale: si deride, a volte, e si schernisce ciò che per loro è più sacro. Queste forme di ritornante discriminazione destano inquietudine e fanno molto pensare”. E’ fuori dubbio, infatti, che quasi quotidianamente assistiamo ad una vera e propria campagna di scristianizzazione sia nella “vita pubblica” che “nei mezzi di comunicazione di massa”. Così, nella vita pubblica, si vanno sempre più affermando principi (dal divorzio all’aborto, all’eutanasia, alla legalizzazione delle unioni omosessuali) ed atteggiamenti (come quello dell’abolizione del Crocifisso dalle aule scolastiche) in netto contrasto con i fondamentali principi cui, per secoli, si sono ispirate le legislazioni della vecchia Europa, con riferimento alle sue radici cristiane che, ora, si vogliono cancellare e dimenticare: : lo stesso dicasi per quelle iniziative, come accade in Spagna, di introdurre, nelle scuole, l’insegnamento di principi, in tema di educazione sessuale, che apertamente contraddicono con l’affermato principio di libertà religiosa. Per quanto concerne, poi, i mezzi di comunicazione (dai giornali alla televisione, ai libri ed, ora, ad internet) non c’è chi non veda come sia in atto una continua, massiccia azione di denigrazione del cristianesimo in genere, con particolare riferimento alla Chiesa cattolica. La strategia seguita è, essenzialmente, sempre la stessa: partendo dalla constatazione di fatti recenti e moralmente inaccettabili dei quali si siano resi responsabili taluni esponenti della Chiesa cattolica (come, per esempio, episodi di pedofilia commessi da parte di sacerdoti) ed enfatizzandone il contenuto, si perviene, anche rivangando episodi accaduti diversi secoli addietro, ad una raffigurazione malevola della realtà per condurre l’ascoltatore od il lettore a condividere un sommario e generalizzato giudizio di condanna nei confronti del cattolicesimo, con il ricercato effetto di mettere in discussione le stesse fondamentali verità di fede. A solo titolo di esempio di tale mentalità che manifesta un profondo, irriducibile quanto ingiustificato astio nei confronti della Chiesa cattolica, basti citare un recente libro di Corrado Augias (volto ben noto per le sue frequenti apparizioni in programmi televisivi), dal titolo “I segreti del Vaticano”. Oggetto dichiarato del libro è quello di raccontare i segreti “quasi impenetrabili e gelosamente serbati della Santa Sede”; “rivelatrici” di tali segreti, sarebbero, secondo l’autore, “le storie di coloro che, nel corso dei secoli, hanno abitato questi palazzi”. In effetti, il libro non svela alcun segreto, ma si limita a raccontare fatti e comportamenti già ampiamente descritti da altri, come, per esempio, l’indiscutibile decadimento morale che aveva coinvolto, intorno all’anno 1000, le alte gerarchie della Chiesa (non escluso lo stesso Pontefice) fino ad arrivare alle ben note e discutibili operazioni finanziarie della banca del Vaticano (IOR) ed alla recente vicenda dei preti pedofili. Appare evidente che la rievocazione di tali vicende ha solo lo scopo di screditare il più possibile il cattolicesimo nel suo insieme, spingendo il lettore a ritenere verosimile tutta una lunga serie di semplici supposizioni (come quelle relative alla morte di Papa Giovanni Paolo I ed alla scomparsa di Emanuela Orlandi) o addirittura di vere e proprie leggende (come quella della Papessa Giovanna): è sintomatica, al riguardo, la frase dell’autore, secondo cui “il fascino romantico di storie come queste sta proprio nelle ombre di cui sono intessute, in cui nessuna luce riuscirà mai a penetrare”. Quanto, poi, all’irriducibile e preconcetto livore nei confronti del cattolicesimo - sia nelle persone dei suoi rappresentanti, che nella sua dottrina morale e teologica - che emerge da ogni pagina del libro, basti far riferimento, a solo titolo esemplificativo, ad alcune sintomatiche affermazioni. Nel capitolo dedicato ai Gesuiti (dal titolo “L’irrequieto esercito del papa”), l’autore ritiene opportuno introdurre, così, l’argomento: “Il dizionario milanese-italiano del Cherubini, nell’edizione del 1814, dava per la parola gesuita queste accezioni: verro, maiale, porco”, per proseguire, poi, dipingendo l’Ordine dei Gesuiti come un’autentica banda di fanatici malfattori. In detto capitolo, viene, infatti, riferito un, a dir poco, fantasioso racconto tratto da una pubblicazione edita in Inghilterra “proprio nell’anno dell’assassinio di Enrico IV”, nel quale si sostiene che la Compagnia era dedita, anche, a veri e propri assassini, utilizzando a tale scopo i nuovi adepti. “Tutta la diabolica Compagnia s’inchinava ai piedi del sicario. Lo convincevano che in lui vi era qualcosa di divino e che gli altri erano così illuminati dallo splendore che lui emanava, da cadere ai suoi piedi. La recluta aveva la certezza di andare realmente e subito in paradiso, senza passare per il purgatorio”. Al riguardo, così Augias commenta: “una promessa che tutti i fanatici, non solo, quelli religiosi, hanno sempre ripetuto e che continuano a ripetere ai danni dei loro adepti più ingenui. Anche oggi”. Sul “tesoro perduto dei templari”, l’autore riferisce una tesi, secondo cui, “la Chiesa cattolica avrebbe comprato il silenzio dell’abate Bérenger Saunière, il quale, restaurando la sua chiesa a Rennes-le-Chateau, avrebbe scoperto un segreto esplosivo: Gesù non sarebbe morto sulla croce, ma avrebbe trovato riparo in Provenza insieme alla sua sposa Maria Maddalena e al loro bambino”. In altra parte del libro, Augias sostiene che sulla “figura di Gesù” il Cardinale Carlo Maria Martini avrebbe una “visione” “molto più benevola, dunque assai lontana da quella del ‘vero Dio e vero uomo’ che emerge dal libro di Joseph Ratzinger Gesù di Nazaret”, evidentemente dimenticandosi che la definizione di “Gesù Cristo vero Dio e vero uomo” (che, tra l’altro, è presente nel Credo, atto di professione della fede cattolica) risale al Concilio di Calcedonia (anno 451). Inoltre, nel capitolo “Quando una Chiesa si fa Stato” si sostiene che “la Chiesa ha acquisito il beneficio dell’8 per mille da prelevarsi direttamente sulle dichiarazioni fiscali di tutti i contribuenti con la sola esclusione di chi affermi esplicitamente di voler destinare quella cifra a scopi diversi”: tale affermazione è, invero, frutto di una (malevola?) disattenzione. Basta riferirsi al modulo per la dichiarazione dei redditi, per rilevare che i possibili destinatari dell’8 per mille sono sette (il primo è lo stesso Stato) e che, come esplicitamente ivi annotato, “in caso di scelta non espressa da parte del contribuente, la ripartizione della quota d’imposta non attribuita si stabilisce in proporzione alle scelte espresse”. A conclusione della sua opera denigratoria della Santa Sede e, con essa, di tutta la comunità cattolica, l’autore, facendo propria un’affermazione attribuita al Macchiavelli, trionfalmente annunzia che “la presenza della Chiesa ha impedito l’unificazione del paese e fatto gli italiani senza religione e cattivi”: affermazioni come questa non contribuiscono, certo, all’instaurarsi di un clima distensivo e di riappacificazione religiosa da tutti auspicato, soprattutto con riferimento ai recenti eccidi sopra ricordati. Tutto questo, e di peggio, è raccontato nel libro di Augias: ma quali sono, allora, “i segreti del Vaticano”, se i racconti scritti nell’omonimo libro si riducono solo a vaghe ombre, sospetti, insinuazioni, fantasiose e calunniose storielle? Il vero segreto del cattolicesimo si identifica, invero, nell’azione silenziosa e discreta di quanti (sacerdoti o laici) operano nel campo della solidarietà, venendo in soccorso dei più deboli, poveri, affamati, ammalati, afflitti ed oppressi. Sono cose, che restano “segrete” (cioè non oggetto di divulgazione) solo perché nessuno se ne occupa: il bene, purtroppo, non fa notizia, non interessa a nessuno. Come disse qualcuno, quando un albero si schianta al suolo, nella foresta, fa un gran fracasso che non sfugge a nessuno: contemporaneamente, nessuno, però, si avvede che tutti gli altri alberi della foresta continuano a crescere, in silenzio. Anche di fronte a queste subdole forme di vera e propria persecuzione, i discepoli di Gesù devono evitare di accusare stanchezza per il pesante onere della testimonianza al Crocifisso e proporsi, invece, come scrisse Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor” ad una “nuova evangelizzazione, ossia all’annuncio del Vangelo sempre nuovo e sempre portatore di novità, una evangelizzazione che dev’essere nuova nel suo ardore, nei suoi metodi e nella sua espressione. L’evangelizzazione è la sfida più forte ed esaltante che la Chiesa è chiamata ad affrontare sin dalla sua origine. In realtà, a porre questa sfida non sono tanto le situazioni sociali e culturali che essa incontra lungo la storia, quanto il mandato di Gesù Cristo risorto, che definisce la ragione stessa dell’esistenza della Chiesa: ‘Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo ad ogni creatura’ (Mc. 16, 15)”.

30) Nicola il mistico barbone

Ogni giorno, ormai già da tempo, siamo letteralmente sommersi, dai vari organi di informazione, da notizie tenebrose: eccidi, assassini, sequestri di persona, stupri, rapine che si susseguono con cadenza impressionante e che sono, a volte, raccontate con dovizia di particolari assai macabri, non tanto per l’esigenza di una corretta e completa informazione, quanto per soddisfare la morbosa curiosità del lettore od ascoltatore. Così non di rado accade che turpi eventi di cronaca nera occupino pagine intere di giornali ed ore di trasmissioni televisive: quasi c’è da meravigliarsi se, per caso, qualche giorno giornali e televisione ci fanno restare a digiuno di simili notizie. Allora, forse per reazione a tutto questo, avvertendo il bisogno di notizie che riempiano di gioia o facciano sbocciare un almeno tenue sorriso sul volto del lettore od ascoltatore, mi è ritornato in mente un episodio realmente accaduto diversi anni fa, che, per la sua obbiettiva irrilevanza e semplicità non poteva certo essere destinato, allora, a fare “notizia” e, pertanto, potrebbe, forse, sembrare una vera e propria provocazione proporlo, oggi, a chi legge questa pagina: lo racconto lo stesso. Per diversi anni avevo l’abitudine di frequentare, prima di iniziare il lavoro quotidiano, la Chiesa di San. Carlo alle Quattro Fontane in Roma (insigne opera del Borromini, detta: San Carlino, per le sue ridotte dimensioni), ove mi recavo, alle sette, per partecipare alla Santa Messa, essendo il mio posto di lavoro ubicato nelle immediate vicinanze: i presenti erano, invero, ben pochi – da contarsi sulle dita di una sola mano – e, per lo più, sempre gli stessi. Uno, in particolare, non poteva passare inosservato, nemmeno al celebrante: si trattava di un barbone di circa quarant’anni. Si chiamava Nicola e, pur essendo assai reticente a parlare di se stesso, raccontava di vivere di elemosine e, non avendo dove dormire, la notte trovava rifugio sotto una tettoia, all’esterno di un convento di frati, nelle vicinanze di Piazza Venezia, riparandosi dal freddo con cartoni che reperiva tra i residui di un supermercato. Da oltre dieci anni, da quando, cioè, non frequento più quella chiesa per essere andato in pensione, non l’ho più visto, né qualcuno ha saputo darmi sue notizie. Il suo aspetto esteriore era proprio quello tipico di un barbone: barba incolta, abito che solo con un eufemismo poteva definirsi trasandato, scarpe sgangherate. Dal suo volto ed, in particolare dai suoi occhi, traspariva, però, una bellezza interiore ed una bontà d’animo che si traducevano in atteggiamenti di una persona più propensa alla gioia che alla tristezza, nonostante il suo indigente stato, sempre attenta ed, a modo suo, disponibile verso chi gli stava accanto: capitava, così, che, a volte, intuendo in me qualche segno di contrarietà o preoccupazione mi diceva di aver capito che quella mattina c’era qualcosa che non andava per il verso giusto e cercava di consolarmi con ampie manate sulle spalle. In chiesa si asteneva dal chiedere elemosine e seguiva con la massima attenzione e devozione la Santa Messa, accostandosi alla Comunione con le braccia leggermente alzate ed intonando saltuariamente qualche canto, sempre appropriato, anche se con voce decisamente stonata: i suoi occhi, rivolti verso l’alto, sembrava che percepissero qualcosa di misterioso ed incomunicabile, come rapito in mistiche visioni. Il suo arrivo in chiesa, qualche minuto dopo di me e, comunque, con una puntualità sconcertante, era annunciato da un fastidioso cigolio, provocato dalle sue scarpe sgangherate. Una mattina d’inverno, particolarmente fredda, gli chiesi se avesse gradito un paio di scarpe nuove. Dopo un po’ di esitazione, annuì e, su mia richiesta, mi indicò il numero di scarpe da lui indossate. La sera stessa acquistai un bel paio di stivaletti che, l’indomani gli consegnai: ricordo ancora l’espressione stupita del suo volto, dopo aver aperto il pacco e preso in mano le scarpe; mi ringraziò dicendomi di non aver mai avuto in vita sua una paio di scarpe così belle. La mattina dopo ero ansioso di vedere Nicola indossare le scarpe che gli avevo regalato: invece, come al solito, l’ormai abituale fastidioso cigolio mi avvertì che Nicola era entrato in chiesa: indossava le sue solite scarpe sgangherate. Finita la messa, gli chiesi perché mai non avesse le scarpe nuove: con la massima naturalezza e, lungi da qualsiasi pensiero che quello che stava per dirmi potesse in qualche modo dispiacermi, mi rispose: “le mie scarpe, tutto sommato, non sono poi da buttare via; ieri sera, al convento, ho incontrato il mio amico frate che camminava a piedi quasi nudi: poverino, si vedeva che aveva tanto freddo. Le tue scarpe le ho date a lui”; e se ne andò per la sua strada, con il suo abituale ondeggiante andamento, lasciandomi stupito e senza parole, a riflettere su quanto avevo appena ascoltato.

31) Diritto alla privacy e morale cattolica

Per privacy si intende, comunemente, il diritto alla riservatezza delle informazioni che riguardano la propria persona e la propria vita privata, impedendo che altri possano divulgarle, senza il proprio consenso. In tale concetto, in senso ampio, rientrano, pertanto, sia le informazioni attinenti al proprio stato, come per esempio quelle che permettono l’identificazione diretta dell’interessato (dati anagrafici) ovvero risultino idonee a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere e lo stato di salute della persona, sia anche quelle che riguardano la sua attività sociale e di relazione con gli altri soggetti, così detta “vita privata”. La tutela di detta riservatezza è oggi affidata ad un complesso di norme legislative e di codici deontologici, alla cui violazione segue l’applicazione (da parte degli organi a tale scopo preposti) delle sanzioni specificamente ivi previste. Non è qui il caso di addentrarci nell’esame della notevole casistica offerta dalla materia in esame: con riferimento alla circostanza che, ormai da parecchio tempo, da più parti si continua a parlare e denunciare un comportamento abnorme nella diffusione di notizie che riguardano essenzialmente la vita privata dell’individuo, non v’è chi non veda come detta diffusione, a prescindere dall’eventuale sua oggettiva illiceità (sia con riferimento all’oggetto della notizia che alle modalità della sua acquisizione e divulgazione), debba, comunque rispondere, per un comune sentire, a due fondamentali requisiti. Il primo risiede nell’accertata verità di quanto divulgato; il secondo, nella necessità che la notizia venga diffusa, sempre, ovviamente, nei limiti consentiti, per esigenze di informazione e non come strumento per fini diversi. Accade, invece, sempre più di frequente che vengano diffuse, come vere, semplici supposizioni o indizi sui quali la magistratura non si è ancora espressa e con un fine ben preciso che non è certamente quello di fare informazione, bensì quello di colpire un soggetto sottoponendolo alla pubblica gogna ed a sommari processi mediatici ove, di fatto, tutto è consentito all’istrionico accusatore di turno, che svolge la sua requisitoria innanzi ad un pubblico plaudente e quasi sempre in assenza dell’interessato, al quale non resta altro che l’arma della ritorsione. Ritorsione, sempre perseguibile per la facilità della ricerca, nel “nemico”, di punti deboli sui quali infierire e, pertanto, puntualmente esercitata, a mezzo di altri mezzi di comunicazione di massa, nei confronti del presunto mandante della campagna mediatica, come sopra inscenata: si da, così, avvio ad un accanito ed indecente scontro al massacro, senza esclusione di colpi, del quale tutti i protagonisti dovrebbero solo vergognarsi. Tutto ciò appare inaccettabile ed in contrasto con i più elementari principi cui dovrebbe ispirarsi un corretto vivere civile. Qualcuno, a questo punto, potrebbe obbiettare che quanto fin qui esposto esula dal fine che queste pagine perseguono che è quello, esplicitamente dichiarato, di costituire solo spunti di riflessione su fondamentali principi della morale cattolica: invero, quanto è stato detto costituisce l’indispensabile presupposto per proporre una lettura di quanto descritto, alla luce, appunto, di tali principi, mettendo da parte tutte le argomentazioni e sottigliezze giuridiche che, a volte, distolgono dal conseguimento del vero bene. E’ evidente, infatti, che se è vero che la divulgazione e la strumentalizzazione di particolari notizie riguardanti aspetti di vita privata, coperte dal diritto alla riservatezza, può di fatto talvolta avvenire con indebita violazione della normativa prevista per la loro tutela, sia per quanto concerne la loro acquisizione, sia con riferimento alla loro divulgazione con mezzi e finalità assai discutibili, è pur vero che, in tali circostanze, il soggetto che si sente danneggiato, il più delle volte, fa esclusivo affidamento sulla denuncia di dette violazioni che, alla fine, possono condurre al nascondimento di una verità più meno scomoda. Invero, sulla base delle deleterie conseguenze che la diffusione, senza controlli, di certe notizie comporta, può sorgere, dapprima, spontanea, la domanda: tutta l’indecente gazzarra che, immancabilmente, segue sempre la divulgazione di notizie, non certo edificanti, sulla vita privata di soggetti appartenenti alle più varie categorie, innescando contese e lotte senza esclusione di colpi, ivi compresi anche conflitti tra i vari organi istituzionali del Paese, potrebbe essere evitata con una più attenta e vigile osservanza delle norme che presidiano alla tutela della riservatezza, eventualmente rafforzandone le difese? A prima vista, la risposta potrebbe sembrare positiva: ma una più attenta valutazione dei fatti in questione sembra indurre a percorrere una diversa strada. Infatti, di fronte ad episodi che obbiettivamente appaiono indubbiamente riprovevoli, non risulta appropriata (evidentemente al di fuori di valutazioni d’ordine giuridico) la reazione di chi si limita a lanciare i propri strali nei confronti degli organi di informazione che dette notizie diffondono, con modalità e finalità, che risultino, anche esse, per altro verso, condannabili. Esemplare risulta, al riguardo, l’insegnamento di Benedetto XVI il quale, con riferimento alla divulgazione delle notizie relative alla nota triste vicenda dei preti pedofili, avvenuta, da parte della stampa, con commenti assai malevoli ha, di recente, nel libro intervista “Luce del mondo”, affermato che: “Era evidente che l'azione dei media non fosse guidata solamente dalla pura ricerca della verità, ma che vi fosse anche un compiacimento a mettere alla berlina la Chiesa e, se possibile, a screditarla. E tuttavia era necessario che fosse chiaro questo: sin tanto che si tratta di portare alla luce la verità, dobbiamo essere riconoscenti. La verità, unita all'amore inteso correttamente, è il valore numero uno. E poi i media non avrebbero potuto dare quei resoconti se nella Chiesa stessa il male non ci fosse stato. Solo perché il male era dentro la Chiesa, gli altri hanno potuto rivolgerlo contro di lei”. La causa, quindi, che determina le su descritte situazioni, vero e proprio insopportabile imbarbarimento del vivere civile, va essenzialmente ricercata non già solo con riferimento all’indecoroso ed illecito uso delle notizie, sia pure oggettivamente meritevoli di riservatezza, bensì, piuttosto, nella fonte che tali notizie genera, identificabile nell’allarmante caduta verticale dei valori morali, fino ad una loro completa perdita, che sembra coinvolgere, ormai irrimediabilmente, quasi tutti i partecipanti ai vari settori d’attività: caduta verticale che costituisce il vero male della società contemporanea e consente ai media (per usare le parole del Papa) di “rivolgerlo contro di lei”. Si assiste, infatti, ad un progressivo affievolimento, se non ad un ribaltamento delle virtù cristiane. La virtù della temperanza, fondata sulla moderazione nell’attaccamento ai beni di questo mondo, è sostituita da un’affannosa e convulsa corsa all’accaparramento di beni, oltre i bisogni individuali; la virtù della solidarietà che dovrebbe ispirarsi alla regola aurea del Signore, il quale “da ricco che era, si è fatto povero” per noi, perché diventassimo “ricchi per mezzo della sua povertà”, è mortificata da una serie di comportamenti e di atti che contrastano la dignità umana; la sessualità è depersonalizzata e strumentalizzata: da segno, luogo e linguaggio dell’amore, ossia del dono di sé e dell’accoglienza dell’altro, diventa sempre più occasione e strumento di affermazione del proprio io e di soddisfazione egoistica dei propri desideri ed istinti, soffocando il fondamentale valore della famiglia; diventa sempre più radicato l’erroneo convincimento che di ciò che è mio (dal mio denaro allo stesso mio corpo) ne posso liberamente disporre a mio incondizionato piacimento, per soddisfare ogni mio desiderio, sulla cui liceità solo io sono giudice. Tutto ciò accade, con l’arroganza di chi crede di poter decidere, in totale indipendenza, ciò che è bene e ciò che è male. “Voi diventerete come Dio, conoscendo il bene e il male” (Gn. 3, 5): “questa è la prima tentazione ( come scrisse Giovanni Paolo II, nell’enciclica “Veritatis splendor”), a cui fanno eco tutte le altre tentazioni, alle quali l’uomo è più facilmente inclinato a cedere per le ferite della caduta originale”. Al riguardo, nella stessa enciclica, Giovanni Paolo II, così ammoniva: “Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia. Così in ogni campo della vita personale, familiare, sociale e politica, la morale – che si fonda sulla verità e che nella verità si apre all’autentica libertà – rende un servizio originale, insostituibile e di enorme valore non solo per la singola persona e per la sua crescita nel bene, ma anche per la società e per il suo vero sviluppo”. Nel contesto come sopra delineato, parlare, quindi, di diritto alla riservatezza che, di fatto, conduca al nascondimento di comportamenti che siano in contrasto con principi morali, ai quali tutti dovrebbero ispirarsi perché universalmente riconosciuti, potrebbe apparire quasi un non senso (ovviamente non su di un piano giuridico), soprattutto se il richiamo alla violazione di tale diritto proviene da parte di soggetti cui è affidata l’amministrazione di beni altrui: dall’amministratore di un condominio, al responsabile di una società per azioni, al preposto all’amministrazione della cosa pubblica, di soggetti, cioè, la cui scelta si può presumere che avvenga anche sulla base di una valutazione d’ordine morale, non escluso il riferimento a condotte relative alla loro così detta “vita privata”. Si potrebbe, allora, pervenire, evidentemente a solo titolo provocatorio, all’enunciazione di un principio – che farebbe inorridire i cultori del diritto – secondo cui il diritto alla riservatezza sulla vita privata di una persona dovrebbe tendere ad affievolirsi progressivamente, in corrispondenza all’acquisizione ed all’accrescimento di poteri e facoltà connessi alla sua qualità di “uomo pubblico”. La preoccupante caduta verticale di ogni valore morale, considerato come un pesante fardello da cui liberarsi, appare, inoltre, trovare ulteriore conferma da un’altra considerazione: infatti, quanti pretendono di sostenere che ognuno è libero di fare tutto ciò che vuole, nell’ambito della propria vita privata - che deve, pertanto, essere sempre più tutelata nella sua riservatezza e, quindi, preservata da qualsiasi giudizio esterno – affermano esplicitamente che, se così non fosse, ci troveremmo di fronte al tentativo di introdurre, un inammissibile modello di “stato virtuoso”, come se il possesso delle “virtù” fosse da ritenersi cosa inutile, se non addirittura disdicevole. Si finisce, così, per auspicare una sempre più bassa soglia di intervento del diritto su detti comportamenti, che andrebbero, invece, relegati nell’ambito di un giudizio solo d’ordine morale, sempre meno rilevante, in quanto considerato retaggio di vecchi pregiudizi puritani ormai superati. Invocare la violazione del diritto alla privacy e far ricorso a tesi come dianzi accennate appaiono, invero, argomentazioni diversive, atte a distogliere l’attenzione sul “valore numero uno” che è quello dell’obbiettiva verità dei fatti, da perseguire, in ogni caso, in vicende così poco edificanti. In conclusione, le verità morali non possono né nascondersi, né indebolirsi; di fronte a fatti e comportamenti che risultino in evidente contrasto con i suddetti principi morali, e che restano, comunque, disdicevoli, anche se inseriti in una realtà, eventualmente, malevolmente in parte distorta e impropriamente qualificata sotto l'aspetto giuridico, la fede e la dottrina della Chiesa - sempre ferma nel difendere la validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi - costringono il cattolico a prendere posizione con una ferma ed incondizionata condanna (senza, peraltro, alcun specifico riferimento a determinati soggetti, appartenenti a questa o quella parte finanziaria, culturale o politica) di tutto ciò che è male ed offende la dignità della persona umana, con particolare riferimento a quanti soffrono per la loro indigenza ed a quanti, con la loro onesta attività lavorativa, contribuiscono validamente al conseguimento del bene comune.

32) Gethemani

O mio amatissimo Gesù, in quest’ora tremenda sei rimasto solo: i tuoi discepoli si sono addormentati, li hai svegliati, ma sono ricaduti nel sonno e li hai lasciati dormire. Anche Pietro, Giacomo e Giovanni non hanno resistito al sonno e ti hanno negato ogni conforto: solo un angelo è sceso dal Cielo, mandato dal Padre a consolarti. Tu sei lì a grondare sudore di sangue, presagendo l’imminente abbandono anche del Padre: ti è dinanzi l’orrore di tutti i peccati del mondo – passati, presenti e futuri – che tu, per soprannaturale atto di amore, hai preso su di te per la redenzione dell’uomo che solo tu – unico vero Giusto – puoi portare a compimento. Per quest’opera sai che non c’è altra strada che quella di fare la volontà del Padre, che è in attesa, non di un sacrificio espiatorio, ma del tuo atto di libera offerta, come libero e volontario era stato il peccato dell’uomo: ed ora pazientemente aspetti di consegnarti nelle mani di chi ti flagellerà, ti sputerà in faccia, ti crocifiggerà……e l’anima tua è rattristata fino alla morte, avvolta da una solitudine angosciosa e terrificante. Eccomi, o mio Signore….sono qui….io ad offrirmi per tua compagnia e conforto. Ma come posso osare tanto? Non sono forse io stesso uno di quelli che ti ha tante volte tradito e trafitto? Ma io ti amo lo stesso, o mio Gesù; forse è più prudente, per me, limitarmi a dirti che so solo di volerti amare: se e quanto ti amo lo sai solo tu. Ma io oso lo stesso. Questo sì, Signore, so di volerlo con tutto il cuore: aggiungere quello che manca alla tua passione…..la mia presenza, la mia partecipazione e condivisione alle tue sofferenze di questo momento, da offrire per la salvezza dei fratelli, come umile contributo alla tua opera di redenzione. Ti chiedo troppo? Accogli, allora, la mia preghiera e, per intercessione della beata Vergine tua Madre, consentimi di tergere una goccia almeno del tuo preziosissimo sangue dal tuo volto divino: Amen!

33) Gesù e il divorzio

Recenti indagini statistiche hanno messo in evidenza un allarmante riduzione del numero dei matrimoni, soprattutto quelli religiosi, cui fa riscontro un incremento delle unioni di fatto. Le motivazioni possono essere diverse: da quella, forse la più banale, delle spese da sopportare per la celebrazione di un matrimonio (ricevimento e quant’altro) che richiedono la disponibilità di somme non indifferenti che le giovani coppie non sono in grado di sopportare a quella, invece, più seria, che va ricercata nella scarsa consapevolezza dell’istituto matrimoniale, essenzialmente determinata dalla mancanza di quel necessario discernimento che può raggiungersi solo con un’adeguata preparazione sull’alto valore morale e sociale di tale vincolo che costituisce un naturale ed indispensabile fondamento della società civile. E’ fuori dubbio, poi, che la possibilità, prevista dalla maggioranza delle attuali legislazioni, di annullare il vincolo matrimoniale, con il divorzio, non può fare altro che sminuirne il valore, inducendo le giovani coppie ad optare per una semplice convivenza che possa cessare di comune accordo, senza ricorrere alle vie burocratiche-legali, tra l’altro onerose, che l’ottenimento del divorzio richiede. Inoltre, a confondere di più le idee sull’argomento, si va diffondendo tra i cattolici la convinzione che la condanna del divorzio, da parte della Chiesa, sia frutto di una intransigente presa di posizione di quest’ultima che non troverebbe riscontro nel Vangelo. Alcuni, infatti, ritengono di poter sostenere che, nella Sua predicazione, Gesù non sia stato così’ categorico, come, invece, indicato nella dottrina morale della Chiesa Cattolica, nel condannare il divorzio, dato che esplicitamente lo ammetteva “in caso di concubinato”. Il riferimento è a quel passo del Vangelo (Mt. 19, 3-9) che conviene trascrivere integralmente: “Allora gli si avvicinarono alcuni farisei per metterlo alla prova e gli chiesero: «E' lecito ad un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?». Ed egli rispose: «Non avete letto che il Creatore da principio li creò maschio e femmina e disse: Per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola? Così che non sono più due, ma una carne sola. Quello dunque che Dio ha congiunto, l'uomo non lo separi». Gli obiettarono: «Perché allora Mosè ha ordinato di darle l'atto di ripudio e mandarla via?». Rispose loro Gesù: «Per la durezza del vostro cuore Mosè vi ha permesso di ripudiare le vostre mogli, ma da principio non fu così. Perciò io vi dico: Chiunque ripudia la propria moglie, se non in caso di concubinato, e ne sposa un'altra commette adulterio»”; quest’ultima affermazione era già contenuta in un precedente bramo dello stesso vangelo (5, 32) che riporta queste parole di Gesù: “chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio”. Per completezza, va aggiunto che detta eccezione non viene formulata nei Vangeli di Marco (10, 11) e Luca (16, 18). Va, innanzi tutto premessa un’attenta analisi a che cosa si riferisse Gesù con il termine “concubinato”, dato che, secondo una compiacente interpretazione, si vorrebbe comprendere in detto termine anche l’adulterio, allargando a dismisura la portata dell’eccezione come sopra formulata. Il termine “concubinato”, nella traduzione italiana, corrisponde all’originario termine, in lingua greca, πορνεια, che significa “impudicizia”, “fornicazione”, e, soprattutto, rapporti sessuali, di natura incestuosa, contratti in violazione dei precetti veterotestamentari (Es. 21, 7-11; Lv. 18,7-18); inoltre, nell’Antico Testamento era proibito il matrimonio tra un ebreo ed uno straniero: ma, ai tempi di Gesù, molte donne ebree sposavano soldati romani per avere vantaggi economici; una tale unione era considerata “concubinato”, in quanto illegittima ed invalida. Tutto ciò in assenza di un precedente valido vincolo matrimoniale. Non può, inoltre, dimenticarsi che la società ebraica, di fatto, ammetteva la poligamia, in evidente contrasto con il principio che marito e moglie fossero monogami, esplicitamente richiamato da Gesù: “per questo l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne”(Gn. 2, 24). Pertanto, nell’ambito di un rapporto di poligamia, il termine “moglie” (così come inteso da Gesù, nella Sua predicazione) risulta inappropriato, dovendosi dette “mogli” essere più correttamente qualificate mere concubine. Il termine “adulterio”, invece, corrisponde al termine greco μοιχεια che, si riferisce a qualsiasi atto sessuale extramatrimoniale: non può, pertanto, farsi confusione tra concubinato ed adulterio, in quanto, quest’ultimo, tra l’altro, presuppone l’esistenza di un valido rapporto matrimoniale, cui riferirsi. Per quanto concerne, poi, il divorzio condannato sia da Gesù (il quale, parlava, invero, di “ripudio”) che dalla dottrina morale della Chiesa Cattolica, va tenuto presente che detto divieto si riferisce esclusivamente ad ogni ipotesi di scioglimento di un vincolo matrimoniale validamente e sacramentalmente contratto, restando esclusi da tale valutazione tutti quei rapporti che non corrispondono a tale requisito. Diverso è il caso di annullamento che viene disposto nei casi in cui, per l’obbiettiva assenza di elementi essenziali (soprattutto quello del libero consenso), per la sussistenza di un valido matrimonio, quest’ultimo viene considerato come mai esistito. Dalla trascrizione del brano del Vangelo di Matteo, all’inizio riportato, sembra evidente, pertanto, come, per Gesù, l’indissolubilità del vincolo matrimoniale fosse fuori discussione (“quello dunque che Dio ha congiunto, l’uomo non lo separi”); la successiva affermazione, secondo cui “chiunque sposa una ripudiata commette adulterio” ne è un’esplicita riconferma: ma, allora, che senso ha l’affermazione che il divieto di ripudiare la propria moglie trova un limite “in caso di concubinato” (ovvero, nella malevola interpretazione sopra riferita, anche in caso di adulterio)? E’ evidente che l’ipotesi di concubinato , prevista come eccezione al divieto di ripudio della propria moglie, non possa riferirsi alla circostanza che la propria moglie sia diventata concubina di un altro uomo: sulla base di tale interpretazione, infatti, l’affermazione che il ripudio del marito, in questo caso, “espone” la propria moglie “all’adulterio”, al rischio, cioè, di diventare adultera, non avrebbe alcun senso, per la semplice constatazione che in tale ipotesi detto adulterio si sarebbe, già consumato da parte della stessa (con l’illecito rapporto di concubinato). Un’interpretazione letterale delle parole di Gesù porta, invero, ad un altro e più convincente risultato: partendo, infatti, dalla considerazione sopra formulata, secondo cui il termine “concubinato” era, all’epoca di Gesù, riferibile a qualsiasi rapporto carnale sostanzialmente illecito, sia pure avvalorato da un formale vincolo matrimoniale (a titolo di esempio, basti riferirsi - oltre al caso, su citato, delle ebree che contraevano matrimonio con soldati romani - ad Erodiade. che era pur sempre “moglie” di Erode, avendo sposato il fratello del marito, contravvenendo ad un chiaro divieto previsto dalla legge ebraica) è facile pervenire alla conclusione che il divieto di ripudiare la propria “moglie” (nel senso ora chiarito), nell’ambito , cioè, di un rapporto sostanzialmente illecito, venisse di fatto meno secondo l’eccezione formulata da Gesù, in quanto le persone legate da tali rapporti non potevano certo qualificarsi come “congiunte da Dio” e, pertanto, i rapporti in questione erano da considerarsi del tutto inesistenti, in assenza di un valido vincolo matrimoniale sacramentalmente assunto. Né più né meno di quanto può oggi accadere, nell’ipotesi di divorzio che intervenga con riferimento ad un matrimonio celebrato solo civilmente e, pertanto, da considerarsi inesistente sotto l’aspetto sacramentale. In sostanza, il termine “concubinato”, inteso come irregolare rapporto sessuale, cui si riferisce Gesù nell’indicare un’eccezione al principio dell’indissolubilità del matrimonio, va letto nella prospettiva di considerare tale rapporto, non come causa per consentire un lecito scioglimento di un regolare rapporto matrimoniale, bensì, in sé stesso, quale situazione nella quale il suo scioglimento, in quanto, appunto, sostanzialmente non valido, non assume alcuna rilevanza. Concludendo, la condanna del divorzio, così come sostenuta dalla dottrina morale della Chiesa Cattolica, appare assolutamente in linea con la predicazione di Gesù, narrata dai Vangeli. Il divorzio, pertanto, deve considerarsi “una grave offesa alla legge naturale. Esso pretende di sciogliere il patto liberamente stipulato dagli sposi, di vivere l’uno con l’altro fino alla morte. Il fatto di contrarre un nuovo vincolo nuziale, anche se riconosciuto dalla legge civile, accresce la gravità della rottura; il coniuge risposato si trova in tal caso in una condizione di adulterio pubblico permanente. Il carattere immorale del divorzio deriva anche dal disordine che esso introduce nella cellula familiare e nella società. Tale disordine genera gravi danni: per il coniuge che si trova abbandonato; per i figli, traumatizzati dalla separazione dei genitori, e sovente contesi tra questi; per il suo effetto contagioso, che lo rende una vera piaga sociale” (Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2384-2385).

34) La Madre di Dio e le Sue apparizioni

Gesù Cristo venne al mondo per mezzo della Vergine Maria, dopo che lo Spirito Santo ebbe chiesto ed ottenuto il suo consenso: la sua umiltà fu così profonda che Dio si compiacque di occultarla agli sguardi di quasi tutti gli uomini nella sua nascita, nella sua vita, nella sua resurrezione ed assunzione. Maria è il vero albero che porta il frutto di vita ed è, quindi, il mezzo sicuro, la via retta ed immacolata per andare a Gesù Cristo ed allontanarci dal male. Dio, infatti, donò a Maria fin dal paradiso terrestre, quantunque ella esistesse solo nella Sua mente, tanto odio contro Satana, maledetto nemico di Dio (“Io porrò inimicizia tra te e la donna, la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno”), tanta abilità per scoprire la malizia di questo antico serpente, tanta forza per vincerlo ed umiliarlo, che egli la teme più degli angeli. Maria, attraverso la luce della fede, scopre il senso ultimo che si nasconde sotto le vicende spesso misere e contraddittorie che lei e la sua famiglia stanno vivendo. È la “sapiente” per eccellenza così come la Bibbia aveva già indicato, cioè colei che sa penetrare nel segreto profondo delle cose e sa intuire in esse un valore “simbolico”, sa che esse parlano di un mistero più alto. Certo, il piccolo che ella stringe tra le braccia assomiglia a tutti i bimbi che si affacciano alla vita piangendo ed agitandosi. Eppure, attraverso la “meditazione”, Maria sa che dietro i lineamenti terreni traspare un profilo non iscritto nella storia degli uomini, nei loro codici genetici, nella loro limitazione di creature. Gesù Cristo nostro Salvatore, vero Dio e vero uomo, deve, comunque essere sempre il fine ultimo di tutte le nostre devozioni verso Maria: altrimenti esse sarebbero false ed ingannatrici. Gesù Cristo è il nostro avvocato e mediatore di redenzione presso Dio Padre; ma non abbiamo forse bisogno di un altro mediatore presso il Mediatore stesso? La nostra purezza è abbastanza grande per unirci direttamente a Lui da soli? Convinciamoci, allora, con S. Bernardo che abbiamo bisogno di un mediatore presso il Mediatore e che Maria è la più idonea a compiere questo ufficio. Offrendo, così le nostre buone opere al Signore per suo tramite, Ella le purifica di ogni macchia che si insinua insensibilmente nelle migliori azioni. La Vergine abbellisce ed adorna i nostri doni dei suoi meriti e delle sue virtù. “Ed avviene – citando un esempio indicato da San Luigi M. Grignion da Monfort – come se un contadino, volendo guadagnarsi l’amicizia e la benevolenza del re, andasse dalla regina e le presentasse una mela che è tutta la sua rendita, affinché la presentasse al re. La regina, avendo accettato il povero e piccolo dono del contadino, metterebbe questa mela in un grande e bel piatto d’oro e lo presenterebbe al re da parte del contadino: allora la mela, sebbene indegna in sé stessa d’essere presentata ad un re, diventerebbe un dono degno della sua Maestà, avuto riguardo al piatto d’oro in cui si trova ed alla persona che lo presenta”. Offrendo, allora, tutte le nostre azioni al Signore, per mezzo di Maria, saremo sicuri del suo intervento: così le nostre statue saranno completate ed abbellite, i nostri vasi rotti saranno ricomposti, i nostri quadri sbiaditi riceveranno nuovo colore e splendore, i nostri fiori appassiti ritorneranno freschi e profumati. S. Agostino chiama Maria “forma Dei”, stampo vivo di Dio: soltanto in lei si formò l’Uomo-Dio, al naturale, senza che gli mancasse nessuno dei lineamenti divini e, ugualmente, solo in lei l’uomo può trasformarsi in Dio, con la grazia di Gesù Cristo. In due maniere l’artista può produrre una statua: lavorando la materia a colpi di scalpello, oppure ricavandola di getto da uno stampo. Il primo modo è lungo, difficile, ed esposto a molti sbagli; il secondo, invece, è svelto e facile, purché lo stampo sia perfetto: il grande stampo di Dio preparato dallo Spirito Santo per formare al naturale un Dio-uomo, è Maria. Chiunque si metta in esso e si lasci plasmare, riceve subito i lineamenti di Gesù Cristo, vero Dio. Da ciò il grande vantaggio di santificarsi per mezzo di Maria con una vera e perfetta devozione nei suoi confronti. “Fortunata l’anima – scriveva S. Luigi da Monfort – in cui è piantato l’Albero della vita, Maria; più fortunata quella in cui ha potuto crescere e fiorire; fortunatissima quella in cui ha potuto dare il suo frutto; ma soprattutto fortunata quella che gode di questo frutto e lo conserva fino alla morte e per i secoli dei secoli”. Numerose volte, nel corso dei secoli, la Madonna si è degnata di apparire a persone ed in luoghi più disparati, come dimostra l’enorme documentazione esistente al riguardo. Nei confronti di tali fenomeni straordinari, la Chiesa ha sempre adottato, correttamente, un atteggiamento estremamente prudente, prima di emettere un giudizio definitivo su qualsiasi notizia di apparizioni; la storia, infatti, è piena di racconti, messaggi e fatti straordinari che sarebbero accaduti in varie parti del mondo e che , poi, si sono rivelati frutto di menzogne: accettare, per vere, apparizioni mariane che non siano state ufficialmente dichiarate tali, espone, quindi, al rischio, per il credente, che quelle apparizioni siano in seguito accertate come false, con tutti i danni che possono derivare sulla sua vera fede. Inoltre il necessario studio di un’apparizione per verificarne la veridicità, non potrà mai concludersi prima che il fenomeno non sia cessato: ciò risponde ad una necessaria prudenza cui la Chiesa si attiene per evitare eventuali errori in tale giudizio. Appare, pertanto, più che giustificato il silenzio della Chiesa su di un fenomeno che dura da circa trent’anni: quello delle apparizioni della Madonna a Medjugorje. Senza aver la pretesa di esprimere giudizi su detto fenomeno che, comunque, ha spinto, sin ora, per fede o curiosità, circa 50 milioni di persone a salire su quel monte, va messa obbiettivamente in risalto la sua particolarità che lo distingue dalle altre apparizioni, sia per la lunga durata, sia per il filo conduttore cui, secondo diffuse interpretazioni, sembrerebbero ricondursi i vari messaggi trasmessi ai “veggenti”. Ricorrente è l’invito alla conversione; nei suoi messaggi, sulla base di quanto riferito dai veggenti, la Madonna non parlerebbe mai della fine del mondo, ma dell’avvento di “un tempo nuovo, un tempo di primavera” , con la sconfitta di satana, dopo terrificanti avvenimenti che dovrebbero costituire il giusto castigo per quanti non avranno voluto convertirsi in tempo. Tutto ciò dovrebbe essere preannunciato da straordinari segni che appariranno sul colle che domina Medjugorje, a tutti visibili, di fronte ai quali dovrebbe essere impossibile continuare ad essere scettici. Una tale profetica indicazione, secondo talune interpretazioni, risulterebbe in linea con quella così detta “venuta intermedia di Gesù” che troverebbe fondamento su taluni testi biblici (soprattutto nell’Apocalisse di San Giovanni) e su quanto affermato da San Bernardo di Chiaravalle, Dottore della Chiesa, che, sull’argomento, comunque, così si esprimeva: “conosciamo una triplice venuta del Signore. Una venuta occulta si colloca, infatti, fra le altre due che sono manifeste. Nella prima il Verbo fu visto sulla terra e si intrattenne con gli uomini, quando, come egli stesso afferma, lo videro e lo odiarono. Nell’ultima venuta ‘ogni uomo vedrà la salvezza di Dio’ (Lc 3,6) e vedranno colui che trafissero (cfr. Gv. 19, 37). Occulta è invece la venuta intermedia, in cui solo gli eletti lo vedono entro se stessi, e le loro anime ne sono salvate”. Sul punto, Benedetto XVI, nel recente libro-intervista “Luce del mondo”, ha affermato che: "È importante che ogni epoca stia presso il Signore. Che anche noi stessi, qui ed ora, siamo sotto il giudizio del Signore e ci lasciamo giudicare dal suo tribunale. Si discuteva di una duplice venuta di Cristo, una a Betlemme ed una alla fine dei tempi, sino a quando san Bernardo di Chiaravalle parlò di un Adventus medius, di una venuta intermedia, attraverso la quale sempre Egli periodicamente entra nella storia”. Che si tratterebbe, comunque, di un”Adventus” d’ordine solo spirituale, sembra, poi, riconfermato anche da vari messaggi sempre sulla base di quanto riferito dai veggenti, con particolare riferimento a quello, molto recente, del 25 gennaio 2011 nel quale, la Madonna avrebbe affermato: “Cari figli, oggi vi invito affinché con il digiuno e la preghiera tracciate la strada per la quale mio Figlio entrerà nei vostri cuori”. Non va, comunque, sottaciuto che quanto sopra riferito, circa eventi straordinari che starebbero per accadere in un futuro più o meno prossimo, non è desumibile dagli innumerevoli messaggi della Madonna, così come riferiti dai veggenti, bensì solo da indiscrezioni che sarebbero trapelate sul contenuto di dieci segreti che sarebbero stati affidati ai veggenti e sui quali questi ultimi risulta abbiano osservato uno scrupoloso riserbo. Così, per quanto riguarda, in particolare, il “segno a tutti visibile” che dovrebbe apparire sul colle che sovrasta Medijgoirje ( e che dovrebbe rimanere fino alla fine dei tempi, di fronte al quale sarebbe impossibile continuare ad essere scettici) è lecito rimanere dubbiosi, anche se sulla base di personali e pur sempre consentite convinzioni. In tale contesto, lasciarsi prendere dalla frenesia di conoscere tempi e modalità di tali presunti eventi straordinari non può certo costituire un positivo elemento di accrescimento della nostra fede. “Perciò (come disse tempo addietro Padre Gabriele Amorth) stiamo attenti quando sentiamo riferirci messaggi privati o interpretazioni particolari. Il Signore non parla mai per spaventarci, ma per richiamarci a sé. E non parla mai per soddisfare le nostre curiosità, ma per spingerci ad un cambiamento di vita. Noi uomini invece abbiamo più sete di curiosità che di conversione. E' per questo che prendiamo abbagli, che cerchiamo novità imminenti, come già facevano i Tessalonicesi (1Ts, 5) ai tempi di S. Paolo. “Ecco, vengo presto Maranathà (ossia: Vieni, Signore Gesù)” così termina l'Apocalisse, riassumendo l'atteggiamento che deve avere il cristiano. E' un atteggiamento di fiduciosa attesa, nell'offerta a Dio della propria attività; e un atteggiamento di continua prontezza ad accogliere il Signore, in qualunque momento Egli venga” Invero, l’unico grande ed irripetibile evento che ha cambiato la storia dell’umanità tutta, si è già verificato 2000 anni fa, con l’Avvento sulla terra dell’unico Figlio di Dio che con la Sua Passione, Morte e Resurrezione ha redento in mondo……

35) Resurrezione

“Tutto è compiuto”. Dopo aver sofferto la passione dell’anima al Gethsemani (“l’anima mia è angosciata fino alla morte”), dopo un processo burla conclusosi con la condanna a morte, dopo essere stato flagellato, deriso, offeso, incoronato con una corona di spine, inchiodato su di una croce come un volgare peccatore; dopo essersi fatto Lui stesso peccato ed aver sperimentato l’abbandono del Padre, tanto da lanciare quel grido così carico di umano strazio (“Padre mio, perché mi hai abbandonato ?”); dopo aver toccato il fondo del più totale annichilimento, il corpo di Gesù pende inanimato dalla croce. Nessuno l’ha soccorso, i suoi angeli lo hanno ignorato e Lui è morto come muoiono tutti gli uomini, come, peggio, muoiono due comuni ladroni, condannati come Lui a subire la stessa morte. Di fronte alla testimonianza di tali eventi, che valore può più avere la sua affermazione di essere figlio di Dio? Già nell’agonia del Gethsemani, gli Apostoli lo hanno abbandonato, cedendo al sonno; dopo il suo arresto ed il suo processo, l’abbandono si fa più incisivo fino ad arrivare al rinnegamento. Di fronte, poi, ad una morte così scandalosa non resta che la fuga: ai piedi della croce restano quelle poche persone che solo un grande amore può tenere ancora a Lui avvinte, come sua Madre e Giovanni. Dove sono le folle che lo seguivano per sentirlo e usufruire dei suoi miracoli? L’autore di tanti miracoli non è stato capace di salvare sé stesso; ormai non c’è più alcuna speranza di altri suoi interventi, perché Lui stesso è morto e le folle si dissolvono. Il Messia, colui sul quale un intero popolo faceva affidamento e voleva incoronare come Re ha, ora, quel titolo scritto su di un foglio inchiodato, come il suo corpo, sul legno di una croce. Tutto è finito, come un sogno; resta solo il ricordo di una speranza ormai svanita. Sconforto e paura coinvolgono tutti i seguaci di in tempo, unitamente ad una grande delusione come chiaramente manifestata dai due discepoli di Emmaus: così tutti ritornano alle loro originarie occupazioni, con l’unico intento di disperdersi e confondersi tra gli altri per evitare di essere riconosciuti e subire la stessa ingloriosa fine. Passano alcuni giorni e la scena è radicalmente cambiata: i seguaci di Gesù sono tornati sulla breccia. Non hanno più paura di incontrarsi; tristezza e disperazione cedono il passo ad una irrefrenabile gioia. Che cosa è successo? Chi li ha svegliati dal sonno nel quale erano caduti, fornendogli un nuovo vigore, tanto che ora non hanno più paura di essere riconosciuti e sono pronti e disponibili a dare la propria vita come Lui l’ha data? Solo qualcosa di veramente sensazionale può sortire un simile effetto: nessun ripensamento, così immediato e clamoroso, è, infatti, possibile dopo quello che è successo. Gesù è risorto! Ecco la sconvolgente notizia: sono in tanti a vederlo e la notizia si propaga tra il suo popolo; il Redentore, pazzo di amore per i fratelli, è davvero ritornato!. “Se Gesù non è risorto la nostra fede è vana”, così dice S. Paolo: è, infatti, la Resurrezione di Cristo l’indispensabile fondamento su cui basare la nostra fede e la nostra speranza sulla nostra resurrezione, come lo fu per i suoi contemporanei seguaci. Resurrezione è riconoscerLo e farsi riconoscere: “Chi mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio, che è nei cieli”. Appaiano anche ora i segni della nostra futura resurrezione e ciò che un giorno deve verificarsi nei corpi, si compia ora nei cuori, trasformandoci in creature nuove – con il dono di amore di Dio – per essere preparati alla Pasqua gloriosa del Suo regno. Il mondo passa, dobbiamo passare dal mondo per non passare col mondo: per tutti si apra il passaggio alla Patria perduta, a meno che qualcuno non voglia precludersi da sé stesso quella via, che pure si aprì alla fede del ladrone.

36) Il perdono

Si insiste, molto spesso, sulla necessità, per il cristiano, di essere sempre disponibile al perdono nei confronti dei fratelli. A volte, però, il perdono può assumere connotazioni tali da farlo apparire nient’altro che manifestazione di biasimevole arroganza. Non di rado, infatti, la mia disponibilità a perdonare l’altro per la presunta offesa ricevuta presuppone implicitamente un mio giudizio sul suo operato, sicché il “mio” perdono diventa un atto che, nella mia valutazione, sostituisce, solo per magnanimità, una “mia” giusta condanna: il mio perdono, quindi, assume (per me), anche se inconsapevolmente, valore di atto di liberalità, utile, se non a rimuovere, almeno ad attenuare la colpa del mio fratello: con ciò si dimentica sia il precetto evangelico di “non giudicare”, sia la considerazione che solo Dio distrugge e dimentica i peccati, quando l’uomo è sinceramente pentito, mentre il mio perdono non può portare alcun vantaggio all’eventuale colpevole. Il vero perdono cristiano deve, quindi, trovare valido fondamento nella misericordia, quale disponibilità ad accettare pazientemente le difficoltà che derivano dalla convivenza con i nemici del bene, trattandoli con bontà fraterna, nella speranza che, vinti dall’amore, mutino condotta, senza mai dimenticarsi che siamo noi i primi a dover chiedere perdono per le nostre innumerevoli colpe. “Siate benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonatevi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo”: questo l’insegnamento di S. Paolo, individuando nel perdono vicendevole la disponibilità ad accollarsi anche le colpe degli altri. “Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno”: questa è l’invocazione dalla quale traspare il perfetto atteggiamento da assumere da parte di chi voglia realmente conseguire il perdono per i fratelli: perdono, quindi, che si risolve in preghiera di intercessione verso il Signore, al di fuori da ogni giudizio e nel convincimento, invece, che la pretesa offesa ricevuta dall’altro è solo frutto di una sua condotta inconsapevole. Quanto, di contro, risultano davvero fuor di luogo le affermazioni di chi, a volte ostentatamente e pubblicamente dichiara di non perdonare i colpevoli di atti, sia pure commessi con particolare ferocia. Il perdono, pertanto, è un fatto intimo che rileva solo nei confronti del soggetto che ha subito un danno a seguito dell’illecito comportamento altrui e che lo predispone a dimenticare il torto subito, escludendo ogni proposito di vendetta ed odio : di per sé, quindi, non è destinato ad essere esternato, né pubblicamente, né nei confronti del colpevole, se non al fine di addivenire ad una concreta riappacificazione con quest’ultimo. Non vanno, inoltre, dimenticate quelle forme di ipocrita atteggiamento, ove una necessaria richiesta di perdono da rivolgersi alla persona offesa, venga, di fatto, sostituita da intenzioni di preghiere, a volte pubblicamente divulgate, a favore di chi soffre a seguito di ingiuste persecuzioni, quando, invece, siamo proprio noi, con le nostre azioni od omissioni, ad essere stati i veri autori delle stesse. Il perdono dei peccati è, invero, solo quello che promana dal Signore, la cui misericordia è infinitamente più grande del peccato dell’uomo e si consegue attraverso la Riconciliazione e la Penitenza, intesa, quest’ultima come libera e volontaria accettazione della via feconda della Croce , che è la via dell’amore che si dona, si sacrifica per i fratelli, dei quali condivide gioie e dolori, fatiche e speranze, evitando ogni presunzione o disperazione (qualora ritenessimo infondatamente di poter ottenere la salvezza facendo affidamento solo sulle nostre forze). E’ tale perdono, inoltre, una chiara manifestazione dell’onnipotenza del Signore. Un filosofo ateo riteneva di poter contestare l’onnipotenza di Dio affermando che almeno una cosa a Dio era preclusa: rendere non accaduto quanto ormai si è concretamente già compiuto. Ciò, invece, si realizza pienamente proprio nel perdono divino; non solo, infatti, il documento della nostra condanna, ma tutte le prove e gli atti del processo a nostro carico sono stati distrutti, inchiodati su quella Croce e, pertanto, definitivamente posti nel nulla: se ancora erroneamente rivivono nella nostra memoria, è solo a causa di infondati sensi di colpa che non hanno più alcuna ragione d’essere, una volta conseguito il perdono del Signore.

37) L'umiltà

Nella ricerca della conoscenza di sé stessi, molto frequentemente la mente umana commette due fondamentali errori che inevitabilmente conducono, poi, al risultato opposto: all’oblio, se non addirittura a rinnegare ciò che realmente si è. Il primo errore risiede nel tentativo di cercare in noi stessi elementi – che il più delle volte sono del tutto assenti – tali da farci apparire quello che non siamo: idealizziamo un personaggio che diventa, nella nostra mente, il modello cui riteniamo di doverci uniformare, per poi arrivare all’errata conclusione di non essere molto distanti da quel prototipo; ovvero, in senso opposto, riteniamo di identificarci come persona meritevole dell’altrui riprovazione e disprezzo, sulla base di infondati sensi di colpa. L’altro fondamentale errore consiste nell’opposizione, più o meno cosciente, ad essere quello che si è. Ognuno di noi è depositario di facoltà inespresse, sentimenti soffocati, parole non dette: tutto ciò costituisce una potenziale riserva che, comunque, non ci fa vivere per quello che siamo, fino a che non accettiamo di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla loro manifestazione. “Diventa ciò che sei”, appare, pertanto, l’imperativo indispensabile per fare emergere concretamente la verità del mio io. Questo difficile lavoro che dobbiamo intraprendere su noi stessi è paragonato da Plotino al lavoro dello scultore che da un blocco di marmo deve ricavarne una statua; dapprima aggredisce il blocco con violenti colpi di scalpello per rimuovere il superfluo, poi, con lavoro sempre più leggero e delicato, continua a scavare per modellare il soggetto da rappresentare. Alla fine del lavoro, da quell’informe blocco di marmo uscirà una splendida statua: nessuno potrà, allora, mettere in dubbio che quella statua era già presente in quel blocco sin dall’inizio del lavoro dello scultore. Cerchiamo quindi di scavare in noi stessi per far emergere la vera nostra identità, senza fermarci o, peggio, abbandonare l’opera intrapresa e rischiare, quindi, di rimanere a livello di pietra indecifrabile o solo parzialmente abbozzata. Scavare in noi stessi è, indubbiamente, estremamente difficile; l’umana esistenza, diceva qualcuno, è come un immenso oceano pieno di onde: di questo oceano i più si limitano ad osservare solo le onde in superficie. L’idea della ricerca di noi stessi., associata a quella dell’immenso oceano mi evoca l’immagine di un sommergibile che navighi in superficie, in piena tempesta: volendo uscire da quella tempesta e non avendo ali per volare, quel sommergibile non ha altra soluzione che quella di inabissarsi e, così, trovare tranquillità nel fondo del mare. Ma qual è il nostro sommergibile atto a realizzare il risultato sperato, di raggiungere il fondo di noi stessi? Il mezzo utile a tale scopo è, appunto, l’umiltà, da intendersi correttamente come la capacità non solo di scoprire, bensì anche, se non soprattutto, di accettare la verità di noi stessi. Accettarsi per quello che siamo, senza nulla aggiungere o togliere. Esiste, infatti, anche una falsa umiltà: il ritenersi il peggiore di tutti, il più grande peccatore può, infatti, a volte, celare una strana forma di orgoglio. Umiltà che ci fa capire, dopo aver “fatto tutto quello che ci è stato ordinato”, di essere “servi inutili”, perché “abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc. 17, 10). “Servi inutili”, non perché quello che siamo e che abbiamo fatto non valga niente, ma in quanto il bene operato l’avremo compiuto senza aspettarci alcuna “utilità” a nostro favore, avendo la consapevolezza di non aver diritto, a differenza di quanto comunemente avviene nei rapporti umani, ad alcuna ricompensa. Umiltà che ci fa, così, scoprire la nostra pochezza ed incapacità e ci spinge a dimenticare i grandi progetti che, comunque sarebbero rimasti irrealizzati; umiltà che ci fa desistere dall’affannosa ricerca di fare il bene, per dedicarci, invece, a fare bene tutto ciò che ci capita di dover fare nella nostra pur modesta realtà quotidiana, unendo l’umiltà verso noi stessi all’amore verso gli altri. Umiltà ed amore o, meglio, umile amore che fa scendere l’intelletto nel cuore, facendolo diventare l’organo della nostra coscienza, divenuta, così, non più raziocinante, bensì più intuitiva che analitica. Umile amore che ci fa capire la bellezza e fragranza delle piccole cose e ci spinge alla raccolta della modesta margherita del nostro praticello, lasciando le stelle alpine lì dove sono, sulle vette di monti per noi irraggiungibili: scopriremo così che anche una minuscola goccia di rugiada ha il suo valore, se disseta un filo d’erba. Umile amore che, avvicinandoci al volto di Cristo, al suo sguardo misericordioso, è capace di incontrollabili reazioni a catena, culminanti nell’esplosione del miracolo del raggiungimento della vera pace interiore che ci predispone a gustare, sin da ora, l’oggetto della nostra speranza.

38) Il sangue di Cristo

In questo tempo di Pasqua, se il pensiero del credente si rivolge a Gesù Cristo, non può prescindere dalla Sua più significativa qualifica, di Redentore del mondo intero, attraverso la Sua Passione, Morte e Resurrezione: innumerevoli sono, al riguardo, le preghiere che fanno esplicito riferimento all’“effusione del Suo Preziosissimo Sangue che ci ha salvato”. Sicchè, se il “donatore di sangue” è colui che, con un atto d’amore, salva la vita di un altro, il Cristo, a buon diritto, potrebbe ritenersi, almeno per il credente, il più grande ed irripetibile “donatore di sangue” di tutti i tempi”. Non è certo questa la sede adatta per affrontare un tema così delicato ed importante per la fede cattolica, come quello del valore salvifico connesso alla Passione di Gesù Cristo: per ogni eventuale approfondimento, basti far riferimento all’ampia letteratura teologica esistente sull’argomento. Prima della Sua Passione, Gesù aveva versato altro sangue nell’agonia del Getsemani: “in preda all’angoscia, pregava intensamente; ed il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra” (Lc, 22, 44). Nell’ultima cena, inoltre, con l’istituizione dell’Eucarestia, Gesù aveva invitato i suoi a “mangiare” il Suo Corpo ed a “bere” il Suo Sangue (“questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi”: Lc, 22, 20), offrendo loro pane e vino che, attraverso il misterioso processo di “transustanziazione”, si trasformano, nella celebrazione eucaristica, - secondo la fede cattolica, - rispettivamente nel Suo Corpo e nel Suo Sangue. Ed è proprio con riferimento al mistero eucaristico che si contano a centinaia i così detti “miracoli eucaristici”, consistenti nella reale trasformazione dell’ostia consacrata in carne e/o del vino in sangue, avvenuti nei secoli, in varie parti del mondo, il più delle volte mentre celebrava messa un sacerdote che dubitava della realtà della transustanziazione, ovvero in occasione di profanazioni delle sacre specie. La Chiesa cattolica ha riconosciuto ufficialmente come realmente accaduti numerosi episodi di questo genere, la maggior parte dei quali nel Medioevo, provvedendo alla conservazione, come reliquie, delle specie oggetto di tali miracoli. A Paray-le-Monial, in Francia, è conservata una grande carta geografica con l'indicazione di 132 luoghi, sparsi nel mondo, dove si sarebbero verificati, nel corso dei secoli, miracoli eucaristici. Tra i “miracoli eucaristici” più significativi, vanno ricordati: - quello di Trani, avvenuto, secondo la tradizione, intorno all’anno mille: una donna ebrea, per irridere la fede cristiana, dopo aver occultato durante la messa un’osta consacrata, una volta a casa l’avrebbe messa in una padella di olio bollente, ma la particola si sarebbe trasformata in carne, sanguinando abbondantemente; la reliquia è attualmente custodita in una teca d'argento, nella chiesa di Sant’Andrea della cittadina pugliese; - quello di Bolsena che sarebbe avvenuto, nel 1263 mentre celebrava messa un sacerdote che dubitava della transustanziazione; in questo caso, dall'ostia divenuta carne sarebbe stillato abbondante sangue che avrebbe macchiato il corporale di lino usato per la celebrazione: a seguito di questo evento, l'anno successivo il Papa Urbano IV istituì la festa del Corpus Domini; le reliquie del miracolo sono conservate nel Duomo di Orvieto; - quello di Firenze che sarebbe avvenuto nel 1230, nella chiesa di sant' Ambrogio: un anziano sacerdote, che durante la messa aveva lasciato inavvertitamente nel calice un po' di vino consacrato, vi avrebbe ritrovato il giorno dopo "del sangue vivo raggrumato e incarnato". Nella stessa chiesa, nel 1595 , si sarebbe verificato un secondo miracolo eucaristico; - tra tutti, comunque, un particolare riferimento merita quello di Lanciano che è il più antico di cui si abbia notizia, essendo avvenuto secondo la tradizione intorno all'anno 700. Le specie eucaristiche si sarebbero mutate in carne e sangue durante una messa celebrata nella chiesa di San Legonziano da un monaco basiliano che dubitava della presenza di Gesù nell'eucaristia. Le reliquie del miracolo, oggi conservate nella basilica di San Francesco, vennero sottoposte ad indagine scientifica nell'inverno 1971-71. Le analisi vennero svolte dal Prof. Edoardo Linoli, dell'ospedale d'Arezzo e professore di anatomia, di istologia, di chimica e di microscopia clinica, coadiuvato del prof. Ruggero Bertelli dell'Università di Siena. Il prof. Linoli effettuò dei prelevamenti sulle sacre reliquie, il 18 novembre 1970, poi eseguì le analisi in laboratorio; il 4 marzo 1971, il professore presentò un resoconto dettagliato dei vari studi fatti, facendo queste conclusioni essenziali:1. la "carne miracolosa" è veramente carne costituita dal tessuto muscolare striato del miocardio; 2. il "sangue miracoloso" è vero sangue: l'analisi cromatografica lo dimostra con certezza assoluta e indiscutibile; 3. lo studio immunologico manifesta che la carne e il sangue sono certamente di natura umana e la prova immunoematologica permette di affermare con tutta oggettività e certezza che ambedue appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB. Anche nel 1973, il Consiglio superiore dell'Organizzazione mondiale della Sanità, O.M.S./O.N.U. aveva nominato una commissione scientifica per verificare, mediante esperimenti di controllo, le conclusioni dei medici italiani. I lavori durarono 15 mesi con un totale di 500 esami: la conclusione di tutte le reazioni e di tutte le ricerche confermarono ciò che già era stato dichiarato e pubblicato in Italia. Altre tracce di sangue di Gesù Cristo sono presenti nella Sacra Sindone, almeno per quelli che credono, come l’estensore di queste brevi note, che quel telo abbia avvolto il Suo corpo, dopo la Sua morte in croce. La presenza di sangue nella Sindone fu rivelata nel 1982 dai prof.ri Baima Bollone, Jorio e Massaro, i quali usando test immunologici identificarono il sangue come umano di gruppo AB (lo stesso riscontrato negli esami relativi al miracolo di Lanciano): il loro test fu ripetuto in seguito da altri analisti che ne confermarono il risultato. Detto ritrovamento diede adito a tutta una lunga serie di studi specifici, da molti denominati, nel loro insieme, come “il linguaggio del sangue rinvenuto sulla Sindone”: tali studi portarono, infatti, alla conclusione che tutte le tracce di sangue ivi presenti parlano in modo davvero sorprendente di tutte le varie tappe della Passione, crocifissione e morte di Gesù. A solo titolo meramente esemplificativo, basti riferirsi ad un particolare risultato emergente dall’esame morfologico delle impronte di sangue, che evidenzia la differenza delle impronte lasciate sulle mani, sui piedi, sul dorso e sulla testa (come provenienti da sangue sgorgato da una persona ancora in vita) da quella, invece, lasciata sul costato, che risulta prodotta da sangue di persona già morta (nei Vangeli viene, infatti, riferito che un soldato romano, per accertarsi l’avvenuta morte di Gesù, gli trafisse il costato con una lancia e, dalla ferita, ne sgorgò acqua e sangue): quest’ultima indagine viene, a volte, effettuata dai periti del Tribunale, incaricati di ricostruire la scena del delitto, per particolari crimini. Un simile risultato, dovrebbe, quanto meno, escludere che ci si trovi di fronte ad un falso (come, da alcuni, ancora si pretende di affermare): è davvero, infatti, logicamente insostenibile che il presunto falsario del XIV secolo (epoca in cui misteriosamente riapparve il telo) sia ricorso, per raffigurare le tracce di sangue, ad un vero sangue umano (con l’ulteriore distinzione di cui sopra, tra sangue di persona viva e sangue di persona morta), laddove, all’epoca in cui detto falso sarebbe stato prodotto, era assolutamente inconcepibile pensare ad un qualsiasi esame in proposito che ne avrebbe svelato la falsità. Tutti gli esami come sopra svolti sul sangue presente sulla Sindone, dovrebbero, invece, condurre alla conclusione che quel telo abbia realmente ravvolto il Corpo di Gesù Cristo, dopo la Sua morte: anche su questo punto, è d’obbligo, in questa sede, limitarsi a far rinvio all’ampia letteratura esistente sull’argomento.

39) Ragionevolezza della fede cristiana

Sulla base di quanto ricordo di aver letto su di un quotidiano, a firma di chi professava il proprio ateismo, “la fede è un’illuminazione concessa per grazioso dono del Signore a coloro che per suo insindacabile giudizio Egli destina alla salvezza” e, pertanto, così intesa, non può che essere ritenuta “una vera ingiustizia”. Data la validità della premessa (“la fede è un’illuminazione…”), potrebbe apparire suggestiva, oltre che logicamente fondata, la conseguente deduzione circa l’ingiustizia della fede. Come, d’altra parte negare che la fede è un dono del tutto gratuito del Signore riservato a quanti sono destinati alla salvezza? Come negare, inoltre, che ciò corrisponde ad un insindacabile giudizio del Signore? Avverto che il problema da risolvere non risiede nelle risposte da dare a tali domande. Qualcuno sosteneva che è facile rispondere a qualsiasi domanda, il difficile, invece, sta nell’individuare l’appropriata domanda da porsi sulla questione da risolvere. Ed allora a me sembra che la domanda vada più correttamente posta in questi termini: la scelta dei salvati è un atto arbitrario – sia pure insindacabile – del Signore, del quale noi siamo totalmente estranei e, pertanto, meri accidentali destinatari? Nell’intimo della mia coscienza – e, pertanto, nei limiti di una valutazione soggettiva che non può essere avulsa dall’esperienza personale concretamente vissuta – sento una profonda avversione a rispondere affermativamente a tale domanda anche se sono perfettamente consapevole dell’assoluta inconsistenza di miei eventuali meriti per ottenere una simile grazia che, comunque, resta sempre tale. “Io sto alla porta – dice il Signore – e busso: se qualcuno mi aprirà io entrerò, cenerò con lui ed egli con me”. Il Signore è alla porta: alla porta di tutti, nessuno escluso, ed aspetta pazientemente; non la forza dal di fuori perché è discreto e rispettoso della nostra libertà. Si tratta, da parte nostra, solo di aprire quella porta e farlo entrare: il Signore è dunque fuori di me? Ma allora che senso ha l’esperienza di chi, come S. Agostino, ha affermato di aver perso tanto tempo alla ricerca del Signore fuori di sé stesso, per accorgersi, alla fine della ricerca, che il Signore era dentro di sé?. Il Signore è, dunque, dentro o fuori di me? Innanzi tutto una cosa è certa: il Signore è sempre con me. Che abbia, oppure no, varcato quella porta, a volte diventa difficile percepirlo. Se fermo e consapevole è il desiderio di ricevere quell’ospite particolare, allora sai cosa devi fare: svuota la tua casa da tutte le inutili ed ingombranti cianfrusaglie di cui l’hai riempita, ripuliscila radicalmente, inondala del più inebriante dei profumi e spalanca la porta; come potrai non accorgerti, allora, della Sua entrata? Ma, quasi sempre, ciò non avviene: mentre, da un lato, non ci facciamo carico minimamente di far pulizia interiore, dall’altro, pur dichiarando, più o meno consapevolmente, di essere alla ricerca di qualcosa per noi indefinito, non abbiamo il coraggio di aprire quella porta, perché abbiamo paura, paura di chi è per noi ancora sconosciuto e, pertanto, estraneo. Forse quasi inconsapevolmente, se comunque almeno l’intenzione della ricerca è sincera, ci accadrà di limitarci a socchiudere quella porta: allora il Signore entrerà lo stesso, ma furtivamente e, una volta entrato, non trovando la casa predisposta a riceverlo, finirà nascosto tra le cianfrusaglie, non per sua scelta, ma perché noi stessi l’avremo lì seppellito. In tale stato l’affannosa ricerca non approderà ad alcun risultato positivo e, come avviene quando nella ricerca di un minuscolo oggetto sperduto in un enorme scatolone stracolmo di oggetti più disparati, alla fine ci decidiamo a capovolgere l’intero scatolone per ritrovare quanto cercavamo, così, nel caso nostro, se permarrà ancora vivo il desiderio di quell’incontro, non ci resterà altro da fare che pazientemente procedere a quella radicale pulizia che inizialmente avremmo dovuto operare: man mano che procederemo su questa via, l’ansia di pervenire a quell’incontro ci spingerà sempre più ad accelerare i tempi, con sempre maggiore cura fino a che le nubi si squarceranno, le tenebre fuggiranno e tutta la nostra casa risplenderà di eterna Luce. Aprire la porta al Signore che viene: ecco l’atto che ognuno di noi , in piena libertà di scelta, è chiamato a compiere, se in tutta sincerità di cuore è realmente alla ricerca di quell’incontro. Certo non basterà aprire o socchiudere la porta per assaporare la Sua presenza e cenare con Lui; in altri termini a nulla servirà la sola volontà di credere in Lui; sarà necessario, invece, diligentemente provvedere a sgombrare la nostra casa di tutto ciò che l’ingombra, cioè in parole molto più semplici e chiare, sarà necessario passare attraverso quel rinnegamento di sé stessi, a volte tanto difficile e doloroso, che costituisce l’indispensabile presupposto dell’incontro con Cristo e della sua sequela. Ma di fronte a questa opportunità che ci viene offerta siamo tutti egualmente liberi, o sussistono, invece, obbiettivi condizionamenti esterni che possono spingere alcuni a credere ed altri a non credere? Un carissimo amico, tuttora in attesa di una particolare illuminazione per credere, tempo addietro mi confidava che avrebbe facilmente creduto qualora a lui stesso fosse capitato quanto accaduto a S. Paolo: è troppo facile credere di fronte a segni così evidenti che appaiono condizionare quasi inevitabilmente la consequenziale scelta. “Ma è davvero tanto diversa, mi venne di chiedere al mio interlocutore, la tua posizione rispetto a quella di Paolo?: se tu, in effetti, credi a quell’evento così come ci è stato riferito, è come se tu stesso fossi stato protagonista; d’altra parte, se non credi, molto probabilmente quand’anche l’episodio capitato a S. Paolo fosse capitato a te, tu avresti creduto di aver avuto un’allucinazione”. Devo confessare che la mia sofisticata costruzione logica non convinse affatto il mio interlocutore. Il fatto che la fede costituisca un “dono” gratuito del Signore, non deve, però, costituire un alibi per quanti dichiarano di non credere, in quanto non destinatari di quel dono. La fede, infatti, non va considerata come semplice “illuminazione” passivamente ricevuta solo da soggetti, scelti dal Signore, a Sua insindacabile discrezione, bensì un dono da conquistarsi da chiunque abbia un serio interesse alla ricerca di risposte da dare alle fondamentali domande sulla nostra vita (donde vengo?, che ne sarà di me, dopo la mia morte?.....). A tal proposito è bene ricordare l’insegnamento del grande Sant’Anselmo, che nei suoi scritti dimostra una capacità speculativa che lo rendono uno dei maggiori teologi cristiani d’ogni tempo, e che è uno dei primi assertori del metodo dialettico che tende a dare un fondamento razionale alla fede, anche se, a prima vista, può apparire contraddittorio parlare di una fede alla quale possa pervenirsi attraverso un percorso razionale. Famosa è la sua affermazione: “Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino a un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire” (Proslogion). Per penetrare a fondo di quest’ultima affermazione (“non cerco di capire per credere, ma credo per capire”) non va dimenticata la peculiarità del contenuto della fede cristiana: la religione cristiana, infatti, non è una delle tante dottrine esistenti, bensì si identifica con una Persona che, qualificandosi Figlio di Dio e Dio stesso, ha detto di sé “io sono la Verità”. Sicché, mentre per comprendere e, conseguentemente, accettare o meno una qualsiasi altra dottrina, ovvero, contestarne i contenuti non risulta indispensabile accertare e conoscere l’identità del soggetto o dei soggetti da cui promana, per quanto riguarda la dottrina cristiana, risulta, invece, essenziale e risolutivo credere o meno nell’identità di Gesù Cristo, così come sopra da Lui stesso dichiarata, per riporre in Lui la propria incondizionata fiducia: per quanti accettano tale identità, risulta, infatti, di conseguenza, logicamente inammissibile ogni contestazione su quanto dallo stesso affermato nella Sua predicazione. La domanda essenziale alla quale dover dare una risposta resta, pertanto, una sola: “perché credere che Gesù Cristo è Figlio di Dio?” A tale domanda, Benedetto XVI, nei suoi due recenti volumi “Gesù di Nazaret”, ha dato una soddisfacente risposta sostenendo, con argomentazioni logico-esegetiche, sulla base di un’attenta analisi dei testi sacri, che è del tutto ragionevole concludere che la figura storica di Gesù Cristo corrisponda a quella narrata dai Vangeli, quale Figlio di Dio e Dio stesso. (cfr. sul punto, un mio precedente articolo, presente su questo blog, al n. 9, dal titolo: “Avvento, perché credere in Gesù Cristo, Figlio di Dio?”). Se, infatti, Gesù Cristo non fosse il Figlio di Dio e Dio stesso, tutto il suo insegnamento cadrebbe miseramente, in quanto riferibile ad un bugiardo e millantatore, come tale inaffidabile e non degno di alcuna fiducia. Per un opportuno approfondimento su tale ricerca rimando principalmente ai due volumi su citati: a solo titolo esemplificativo, basti qui ricordare che tutti i testi dell’Antico Testamento (scritti nel corso di vari millenni, prima di Cristo) contengono, trasversalmente, l’annuncio profetico dell’avvento di un Messia, con l’indicazione di particolari (ne sono stati identificati più di trecento) tutti riconducibili, ed in via esclusiva, con sconcertante precisione e puntualità alla persona di Gesù Cristo. Concludendo, a prescindere da ogni condizionamento esterno, la fede è da considerarsi pur sempre un dono del tutto gratuito del Signore – con il quale accettiamo per vere cose non dimostrabili altrimenti – sempre che per “dono” si intenda la meta che viene raggiunta da quanti, con un libero atto della propria volontà ed a seguito di una seria e serena ricerca comunque avulsa da contrari preconcetti, si determinano a rendersi disponibili all’azione della Grazia divina; il tutto per mero atto di amore, anche se inizialmente inconsapevole, verso il Dio che ci ha creati, verso il Dio che si è incarnato per noi, assumendo su di sé le nostre colpe ed il conseguente martirio per la nostra redenzione: ma questi sono misteri, da accettarsi come tali e riconducibili in quel vortice di Infinito Amore divino che sovverte ogni umano ragionamento.

40) Crisi finanziaria: schiavi del denaro

Molto si scrisse alla fine del 2007 sulla crisi immobiliare che, in quell’anno, colpì l’economia Mstatunitense a causa dei così detti mutui “subprime”: quanto allora accadde si ritenne essenzialmente addebitabile, da un lato, all'impossibilità di far fronte ai propri impegni da parte di un'ingente numero di prenditori privati di prestiti (nella maggior parte mutui fondiari) concessi con estrema leggerezza da diverse organizzazioni di "allegri" finanzieri e, dall'altro, dalla spregiudicata ed incontrollata cartolarizzazione di detti crediti che erano stati immessi sul mercato, sia americano che del resto del mondo, (con ingenti utili personali ed aziendali) coinvolgendo una massa enorme di risparmiatori (privati o banche ed istituti finanziari) acquirenti di tali titoli. In tale situazione, al di fuori di considerazioni di convenienza strettamente finanziaria, destò notevoli perplessità, su di un piano eminentemente morale di una pur sempre necessaria solidarietà sociale, l'intervento pubblico (americano e non) per far fronte a tale crisi, il cui enorme costo andava, in ogni caso, a carico dell'ignara collettività. Di ben più ampia portata è la crisi che ha colpito l’economia mondiale nel 2011: mentre, infatti, la crisi statunitense del 2007 riguardò essenzialmente l’impossibilità, da parte dei privati, a far fronte ai propri impegni, assunti al di sopra delle proprie disponibilità, quella del 2011 riguarda, ora, la stessa impossibilità, riferita, però, a singoli stati (Grecia, Spagna, Italia e gli stessi Stati Uniti), con ripercussioni su tutta l’economia mondiale, per effetto dell’inevitabile globalizzazione determinata dall’interdipendenza che coinvolge tutto il sistema finanziario mondiale, escludendo, di fatto, che una crisi possa rimanere circoscritta nella determinata area geografica ove si è manifestata. La crisi attuale è essenzialmente avvertita dai mercati finanziari: anche se detti mercati necessariamente sono condizionati dall’andamento dell’economia reale dei vari paesi, non può sottacersi, però, la considerazione che l’affermarsi, sempre di più, di nuovi e sofisticati strumenti finanziari (prodotti derivati ed innumerevoli altri mezzi che qui non è il caso di elencare), ancorché sorti inizialmente con funzione di copertura di rischi, vengono usati, spregiudicatamente, prevalentemente con fini speculativi con un deleterio effetto moltiplicatore che determina un costante e progressivo allontanamento del mercato finanziario dall’economia reale dei vari paesi, creando quasi una sorta di ricchezza virtuale: le operazioni a carattere speculativo, infatti, sono poste in essere da soggetti che perseguono l’unico fine dell’accrescimento delle proprie ricchezze, senza scrupoli o veri interessi su quanto forma oggetto delle proprie attenzioni. La ricchezza così accumulata, inevitabilmente a danno di altri operatori, non può non determinare effetti solo destabilizzanti dal punto di vista economico (con la sua sterilizzazione, in quanto fine a sé stessa), mettendo, inoltre, in evidenza l’assoluta immoralità di un simile comportamento, né più, né meno di quanto avviene con riferimento ad altri atteggiamenti illeciti, posti in essere al solo fine di indebiti accrescimenti delle proprie disponibilità, come il furto, l’appropriazione indebita, il sequestro di persona, l’uso illecito di disponibilità pubbliche, la corruzione, la camorra, la mafia, ecc. ecc. Le motivazioni di fondo di tali indegni comportamenti vanno ricercate essenzialmente, soprattutto sul piano individuale, nella continua caduta verticale dei valori dell'essere rispetto ai valori dell'avere; io sono non per quello che realmente sono ma per quello che ho e per quello che riesco ad apparire agli altri, finendo, così, veramente schiavo del denaro che diventa l'unico fine da raggiungere ad ogni costo. Assistiamo, infatti, (a parte i casi di effettiva indigenza) ad un progressivo indebitamento delle famiglie, finalizzato al mantenimento di un tenore di vita non consentito dalle proprie disponibilità finanziarie: sul piano dell'impresa, la spinta determinata dalla ricerca ad ogni costo dell'incremento del profitto, porta su vie di lotte selvagge per l'accaparramento di fette di mercato. Ho letto, tempo addietro, un articolo di un dirigente di una società di consulenza aziendale il cui motto era: "dominare o morire". E' questa logica perversa che ci spinge ad accumulare insensatamente ricchezze, senza badare all'altro che siamo pronti a prevaricare se non addirittura ad "uccidere": a volte uccidiamo anche noi stessi, cedendo ai mezzi più indegni, pur di realizzare il "dominio" sul mondo, in contrasto con ogni principio morale. E’, comunque, indiscutibile che attualmente ci si trovi di fronte ad una crisi di vaste proporzioni. Orbene, se è vero che, nell’ambito dei paesi industrializzati, lo stato di benessere di una popolazione o di una nazione si misura sulla base dell’andamento dell’indice di crescita del prodotto interno lordo, è fuori dubbio che quest’ultimo è strettamente condizionato all’incremento dei consumi. Questi ultimi sono stati alimentati, negli ultimi anni, prevalentemente da un indebitamento esponenziale ed insostenibile, in quanto superiore alle effettive disponibilità dei consumatori. Tutto ciò ha comportato, una sempre maggiore concentrazione di ricchezza nelle mani di pochi, a danno della collettività: non a torto in un'intervista fatta a John Kenneth Galbraith dal titolo "Economia dello sviluppo e del sottosviluppo" nel 1998, quest’ultimo affermava che l'evoluzione della società e dell'economia va verso una direzione in cui ciò che contano sono soprattutto, se non soltanto, i livelli dei consumi che i consumatori, appunto, esprimono, tanto che i cittadini non vengono quasi più considerati persone portatrici di idee e valori, ma solo "consumatori", esplicitando, in tal modo, il fatto che a livello sociale si conta solo in funzione del proprio livello di consumi. E’ fuori discussione la considerazione (come del resto confermato da indagini effettuate di recente) che, negli ultimi anni, il divario tra ricchi e poveri (sia intesi come singole persone fisiche che come Paesi) è notevolmente aumentato: alla concentrazione della ricchezza in mano a pochi ha fatto riscontro il conseguente impoverimento delle classi medie, sempre più avviate ad incrementare la numerosa schiera dei poveri. Tutto ciò comporta, inevitabilmente, la contrazione della massa dei consumatori (sin ora sospinti da interessati stimolatori del sistema economico, attraverso l’apporto di sempre crescente liquidità) con conseguente caduta verticale dei consumi e, quindi, degli indici di produzione industriale. Come ebbe tempo addietro ad affermare l’economista, premio Nobel, Joseph Stiglitz: “per gran parte dei Paesi del mondo, la globalizzazione - per come è stata gestita - assomiglia a un patto col diavolo. In ogni Paese, c'è qualcuno che si arricchisce; le statistiche sul Pil, per quello che valgono, presentano risultati migliori, ma il tenore di vita generale e i valori fondamentali sono messi in pericolo”. In tale situazione, sembra di poter pervenire alla conclusione di un economista indiano (Ravi Batra) secondo cui “quando la ricchezza raggiunge valori di estrema concentrazione il ciclo economico giunge al termine dando inizio ad una crisi che può trasformarsi in recessione”: la crescente povertà conduce, infatti, da un lato, ad una sempre maggiore contrazione dei consumi e, dall’altro, ad una vera e propria sterilizzazione della ricchezza detenuta da pochi, non più in grado di ulteriore accrescimento, venendo meno la fonte primaria di alimentazione. Il male più grave del nostro tempo consiste, quindi, nella dilagante povertà, accompagnata da una diseguaglianza, sempre più davvero insostenibile che, inevitabilmente, si ritorce sulla stessa ricchezza dei pochi. Il rimedio più efficace per contrastare siffatta insostenibile diseguaglianza appare, allora - escludendo il ricorso a nuovi strumenti finanziari per sollecitare artificiosamente i consumi, senza un necessario sostegno economico - quello di una migliore e più equa distribuzione o redistribuzione della ricchezza, suggerito da grandi economisti come Samuelson, Solow, Krugman, Galbraith, Reich ed il già citato Stiglitz, da realizzarsi con necessari e coraggiosi interventi su quei patrimoni che, con le loro abnormi dimensioni, costituiscono un vero e proprio scandalo, oppure, almeno, quello di attingere da tali patrimoni le necessarie risorse per fronteggiare l’attuale crisi. La concentrazione della ricchezza, quando raggiunge tali livelli, è da considerarsi, infatti, sempre “iniqua”, sia che conseguita con mezzi così detti leciti che con mezzi illeciti, in quanto pur sempre realizzata a spese della collettività. Analogo discorso vale anche per le profonde sperequazioni esistenti tra Paesi ricchi e Paesi poveri: per quanto concerne il bisogno di sostegno dell’economia di Paesi che si trovano in situazioni di evidenti difficoltà finanziarie non va comunque dimenticata la sostanziale differenza – come del resto accade per le situazioni di difficoltà delle singole famiglie – tra Paesi realmente poveri e Paesi le cui economie versano in condizioni di disagio determinate da dissennate politiche di insostenibile indebitamento ovvero, ancora peggio, da eccessivi ed ingiustificati sperperi, sicché la ritrosia ad intervenire in aiuto di quest’ultimi può, a volte, apparire comprensibile. Se le cose stanno in questi termini, è davvero sorprendente constatare come la ricetta sopra proposta per fronteggiare, se non risolvere del tutto, l’attuale grave situazione finanziaria, suggerita sulla base di validi principi di mera politica economica, corrisponda perfettamente, quanto meno per gli effetti da conseguire, al comportamento indicato dai principi evangelici di fratellanza e solidarietà. Allora, anche se ciò può sembrare estremamente provocatorio, non è forse meglio inneggiare alla povertà? Povertà da non identificarsi con l'effettivo distacco da ogni bene, bensì identificata (seguendo un concetto suggerito dalla morale cristiana) nella castità del rapporto con le cose, anche se estremamente difficile appare il suo raggiungimento. D'altra parte è lo stesso concetto di proprietà privata, civilisticamente inteso, che viene ridisegnato in termini sconvolgenti dalla morale cristiana: ciò che è "mio" in effetti mi è stato dato in semplice custodia e gestione. Ciò comporta che ogni uso abnorme di quello che ho, diventa lesivo del precetto "non rubare": il pane che avanza dalla mia tavola per essere buttato via è, infatti, sottratto al povero che muore di fame: fame che costituisce uno dei più grandi scandali del nostro tempo. Se ciascuno diventa trasgressore del settimo comandamento per ogni smodato abuso nella spendita di ciò che è proprio, molto di più, poi, dovrebbero sentirsi trasgressori di tale comandamento quanti nella gestione di disponibilità non proprie - soprattutto se pubbliche - non si adeguano a criteri di doverosa moderazione, anche se i comportamenti posti in essere risultano formalmente conformi al diritto positivo. La mancanza di un'appropriata cultura cristiana sul rapporto con il denaro porta, a volte, da un lato, a seguire vie illecite pur di procurarsene sempre di più, dall'altro, sempre per la stessa finalità, ad accettare condizioni troppo onerose imposte da soggetti senza scrupoli. E' necessario, pertanto, ripristinare una corretta scala dei valori che, privilegiando il valore dell'essere su quello dell'avere, tenga in debito conto il rispetto della dignità umana che esige la pratica della virtù della temperanza (moderazione), giustizia (rispetto dei diritti altrui) e solidarietà (aiuto ai fratelli bisognosi). 

41) Il nome di Dio

  A Mosè, il quale chiedeva quale fosse il nome di Dio che gli aveva parlato dal roveto ardente, per riferire agli Israeliti quanto aveva udito, Dio rispose: “Io sono colui che sono. Dirai agli Israeliti: Io sono mi ha mandato a voi”. Pare quasi di sentirla questa voce solenne e maestosa scandire con potenza quell’ “Io sono”, come il fragore che, rompendo il silenzio, squassa ogni cosa e si propaga di valle in valle, moltiplicandosi in mille echi tumultuosi. Può sembrare la voce imperiosa di un Dio sterminatore, vendicatore, “terribile”, pronto impietosamente a castigare le sue malcapitate creature, senza possibilità alcuna di scampo o riparo: di fronte ad un Dio siffatto c’è solo, inevitabilmente, la propensione ad una fuga precipitosa e di esito quanto mai incerto, unitamente ad un angoscioso senso di paura e di disperata tristezza. Ma come mai è possibile pervenire a tale concezione di Dio che, invece, è sommo Bene ? Perché questa sensazione di annichilimento e di crollo spaventoso innanzi a chi si identifica con l’ “Io sono”; crollo simile a quello di cui furono colpiti i guerrieri romani quando, venuti a prendere Gesù ed avendogli chiesto se era proprio lui, ne ebbero un’analoga risposta?. Invero, tale è la condizione della creatura che avverta, sia pure inconsapevolmente, come la propria identificazione sia da ricercarsi nel suo “non essere”: è allora che la distanza tra l’io e l’“Essere” diventa abissale ed incolmabile. “Non essere”, identificato in quel continuo divenire, ove si finisce per vivere immersi nel passato (o meglio nel ricordo di un passato che non esiste più) e dallo stesso, comunque, condizionati, nel bene e nel male e, quindi, proiettati verso un futuro tutto terreno (comunque anch’esso non reale, perché ipotetico, sul cui contenuto si hanno, alternativamente, solo vaghe aspettative positive o negative): tutto ciò comporta la perdita del “presente” che diventa, così quell’attimo fuggente assolutamente indecifrabile, con la conseguenza della fuga da Chi, invece, è l’eterno presente, oltre ogni umano limite di tempo. Si tratta, allora, di trovare la capacità di adeguare il proprio “non essere” all’ “Essere” per convertire quella fuga da ciò che passa verso ciò che rimane in eterno, al fine di pervenire ad una concreta partecipazione con l’ “Essere” stesso: la via, l’unica via giusta che conduce a quell’incontro, tutti già la sappiamo. Allora il tuono fragoroso si modificherà in un “lieve sussurro di una brezza leggera”; la disperata tristezza in soave malinconia che pervade l’uomo quando, per dirla con le parole di Romano Guardini, “avverte di essere prossimo all’infinito”; la terrificante paura, in sano timore. Timore che non è lo stato d’animo che attanaglia l’umana debolezza quando teme di soffrire ciò che non vorrebbe gli accadesse: in tale stato d’animo ciò che si teme non è oggetto di apprendimento, poiché le cose terribili si incaricano da sé stesse di incutere terrore. Del timore di Dio sta, invece, scritto: “Venite, figli, ascoltatemi: vi insegnerò il timore del Signore”. Dunque il timore del Signore si impara, perché viene insegnato. “Questo genere di timore – come diceva S. Ilario – non sta nello spavento naturale e spontaneo, ma in una realtà che viene comunicata come dottrina. Non promana dalla trepidazione della natura, ma lo si comincia ad apprendere con l’osservanza dei comandamenti, con le opere di una vita innocente e con la conoscenza della Verità”. In altri termini, mentre la “paura” riguarda l’aspettativa di ricevere del male dall’altro, il “timore” riguarda, invece, l’avvertita incapacità del soggetto di non corrispondere appieno all’amore che l’altro riversa su di noi. Si deve all’ispirata intuizione della Venerabile Luisa Margherita Claret de la Touche una delle più belle pagine su: “Il nome di Dio”, qui di seguito integralmente trascritta. “All’inizio dei tempi Dio stesso si era dato un nome: ‘Io sono colui che sono’. L’Essere assoluto, sovranamente indipendente e libero nella conduzione degli avvenimenti. L’Essere esistente per Se stesso. Mosé, il grande legislatore degli israeliti, il privilegiato che con la sua dolcezza e la sua forza aveva attirato su di sé lo sguardo di Dio, riconoscendo nel roveto ardente del deserto la presenza della divinità, gli aveva chiesto il nome, e Dio aveva risposto in mezzo al fuoco: “Io sono Colui che sono”. Profonda risposta che rivelava Dio come l’Essere supremo, sostanziale, unico, causa e principio di ogni essere; di una stabilità e unità assolute; non soggetto ad alcun mutamento, ad alcuna diminuzione o accrescimento. Ma risposta misteriosa, come misteriose sono tutte le manifestazioni di Dio nell’Antico Testamento, che non svelavano il mistero di Dio e tenevano l’anima umana come sospesa davanti a questo Essere incomprensibile. L’uomo, ancora troppo vicino alla caduta delle origini, che ancora portava su di sé l’impronta infamante del peccato, poteva solo intravvedere la Divinità nascosta sotto i suoi attributi. Talvolta, quando vedeva la sua potenza manifestarsi con prodigi strepitosi, lo chiamava l”Onnipotente” altre volte, quando considerava l’ordine e la sapienza con cui era condotto l’universo, lo chiamava: la “Divina Sapienza”; quando i misteri della divina condotta sorpassavano la sua intelligenza, lo chiamava l”Altissimo”; altre volte ancora, quando si sentiva avvolto dalla sua tenerezza e perdonato dei suoi peccati, lo chiamava “Somma Bontà” e il “Misericordioso”. Tutti i nomi davano un’idea, un aspetto di Dio, ma non potevano definirlo nella sua totalità, nella sua essenza. Perché, chi lo chiamava: l’”Onnipotente” non si richiamava alla sua bontà e chi lo chiamava: “Somma Bontà” in certo qual modo dimenticava la sua giustizia. I Patriarchi e i Profeti non conobbero il vero nome di Dio; avevano intravisto, ma non visto la Divinità. Camminavano ancora fra le ombre; la luce piena della Rivelazione era riservata ad un tempo futuro. Giunsero finalmente i giorni della Redenzione e Dio diede alla terra una nuova rivelazione di Sé assumendo forma umana. La Seconda Persona della Trinità si fece carne; il Verbo divenne uomo unendo, con un atto di infinita misericordia, la natura divina alla natura umana. Divenne Gesù Cristo, Dio e uomo, veramente Dio così come veramente uomo: l’uomo-Dio. Gesù Cristo è dunque il nome di Dio, ma di Dio incarnato, vissuto sulla terra e poi trionfante in Cielo nella sua santa umanità. Questo santo Nome non ci dice tutto su Dio, ci dice soltanto Dio nella sua forma di Verbo fatto carne. Vivendo fra di noi, Gesù si è rivelato “potente in opere e in parole”, giusto e forte nella repressione del male, pieno di sapienza nei suoi insegnamenti, puro di una purezza senza ombre, buono e pietoso verso tutti, eroico nella sua passione e nel suo sacrificio. Nella sua profonda umiltà dava a se stesso il nome di “Figlio dell’uomo” e quelli che avevano riconosciuto in lui il “Figlio di Dio” e che capivano la sua divina missione, lo chiamavano il “Salvatore del mondo”. Com’è bello questo nome: Salvatore! Com’è divino! Eppure, questo nome non dice ancora tutto. A Dio occorre un nome che possa dirlo Creatore e insieme Salvatore; un nome che racchiuda in sé l’idea dell’onnipotenza, della sapienza infinita, della bontà, della misericordia, della grandezza, della forza, della dolcezza, della bellezza, del bene assoluto; un nome che parli di eternità senza inizio e senza fine; che possa convenire a Dio puro spirito, così come a Dio fatto uomo: Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo. Un nome che dica insieme l’Unità e la Trinità di Dio; un nome che narri tutte le sue opere, che spieghi i suoi misteri di gloria e di umiliazione. Molto ci dice il nome di Gesù perché Gesù è Dio e Dio tutto racchiude in Sé .Ma “Gesù” è un nome specifico, proprio del Verbo incarnato e quando, ad esempio, noi lo pronunziamo, non intendiamo parlare del Padre o dello Spirito Santo. Dunque, esso non dice tutto di Dio. Non diceva tutto nemmeno a coloro che lo pronunziavano, già adorandolo, nel tempo in cui Egli viveva sulla terra nella sua forma umana; a quelli che vedevano sul suo volto il riflesso della sua divinità e, pendendo dalle sue labbra, gustavano la verità della sua dottrina. Il Sangue redentore non era ancora fluito per lavare le iniquità del mondo; le ombre del peccato non si erano ancora dissipate. Dio non aveva ancora rivelato il suo nome; Cristo non era ancora salito al Padre e lo Spirito Santo non era ancora stato donato. Perché l’intelligenza umana potesse comprendere qualcosa di quel Nome, perché potesse pronunziarlo, bisognava che la Terza Persona della Santa Trinità venisse a compiere la sua missione nelle anime. È allo Spirito Santo che il Padre e il Figlio lasciano il compito di completare l’opera di Cristo illuminandola totalmente. Nel giorno di Pentecoste, lo Spirito scende sulla Chiesa riunita; questo Spirito vivificante la illumina, la riscalda, la feconda, e ben presto dal cuore infuocato e dalle labbra verginali dell’Apostolo prediletto esce la parola rivelatrice: “Dio è Carità! Dio è Amore!” (1 Gv. 4, 16). Dio, vedendo l’uomo purificato dal grande sacrificio del Calvario, ristabilito nella Grazia, ridivenuto il figlio obbediente erede della sua gloria, non ebbe più segreti per lui. Rivelandogli il proprio nome: “l’AMORE!”, si fa conoscere nella totalità dei suoi attributi. Nello stesso tempo, gli svela i suoi misteri, il segreto delle sue divine operazioni, la ragion d’essere delle sue azioni. Dio è l’AMORE: ecco il vero nome di Dio. Ma Dio è infinito: dunque è l’AMORE Infinito. L’Amore Infinito è la sua essenza, la sostanza del suo Essere e nello stesso tempo è il suo Nome. Si chiama AMORE, perché è l’amore personificato, perché tutto ciò che compie è amore e perché tutto ciò che fa, lo fa per amore e nell’amore. Tutti i misteri hanno la loro spiegazione perché Dio è l’Amore e le sue opere tutte impregnate di amore ci dicono che Egli è l’Amore stesso!”. 

42) "Gesù di Nazaret" di Benedetto XVI

  I due volumi su “Gesù di Nazaret” di Papa Benedetto XVI, pubblicati negli anni 2006 e 2010 e frutto di un lungo lavoro iniziato nell’estate del 2003, costituiscono, come affermato dal suo Autore, “il tentativo di presentare il Gesù dei Vangeli come il Gesù reale, come il Gesù storico in senso vero e proprio.” “Tentativo” molto ambizioso e reso possibile, sono sempre parole di Benedetto XVI, dalla “grande quantità di materiali e di conoscenze attraverso le quali la figura di Gesù può divenirci presente con una vivacità e profondità che pochi decenni fa non riuscivamo neppure a immaginare.” Da tale meticoloso studio, l’Autore esplicitamente dichiara di essere pervenuto alla conclusione che il “Gesù storico” coincide con quello narrato dai Vangeli: “questa figura è molto più logica e dal punto di vista storico anche più comprensibile delle ricostruzioni con le quali ci siamo dovuti confrontare negli ultimi decenni”. Con grande umiltà, Benedetto XVI ha ritenuto di dover avvertire il lettore che il risultato della sua indagine “è unicamente espressione della mia ricerca personale del volto del Signore. Perciò ognuno è libero di contraddirmi.” L’opera, come era prevedibile, ha ottenuto un notevole successo editoriale: eppure, secondo il mio modesto parere, non ha riscosso quell’accoglienza e consenso che avrebbe meritato per l’impegno profuso e, soprattutto, per i risultati raggiunti, costituendo davvero un’opera monumentale sulla via di una migliore conoscenza della reale figura di Gesù Cristo, non certo sulla base del rinvenimento di nuovi elementi fattuali sulla vita di Gesù che potessero avvalorare la tesi, oggetto del “tentativo” sopra riferito, bensì per la ragionevolezza delle argomentazioni svolte. Purtroppo la mente umana è pur sempre condizionata alla pretesa della dimostrabilità sperimentale di quanto le viene proposto prima di accettarlo, dimenticandosi che certe verità non sono suscettibili di siffatta dimostrazione (come quella dell’esistenza di Dio o del suo contrario). D’altra parte è lo stesso Benedetto XVI ad affermare, nel primo volume, che “la presunzione, che vuole fare di Dio un oggetto e imporgli le nostre condizioni sperimentali da laboratorio, non può trovare Dio. Infatti si basa già sul presupposto che noi neghiamo Dio in quanto Dio, perché ci poniamo al di sopra di Lui. Perché mettiamo da parte l’intera dimensione dell’amore, dell’ascolto interiore, e riconosciamo come reale solo ciò che è sperimentabile, che ci è stato posto nelle mani. Chi la pensa in questo modo fa di se stesso Dio e degrada così facendo non solo Dio, ma il mondo e se stesso”. Non è certo mia intenzione, con queste brevi riflessioni, commentare, o, peggio, riassumere il contenuto di un’opera tanto impegnativa che, dopo un’introduzione contenente “un primo sguardo sul mistero di Gesù”, analizza tutto il cammino della vita pubblica di Gesù, dal Suo battesimo fino alla Sua Resurrezione, mettendone in evidenza ogni aspetto significativo, riflettendo “solo sulle parole e sulle azioni essenziali di Gesù” per illustrarne la Sua “figura e messaggio” e non già per scrivere un “vita di Gesù”. Vengono, così, prese in particolare considerazione: le tentazioni di Gesù, il discorso della montagna, il messaggio delle parabole, la trasfigurazione, le affermazioni di Gesù su se stesso, la lavanda dei piedi, l’ultima cena, Gesù al Getsemani, il processo a Gesù, la sua Crocifissione, morte e Resurrezione, per finire, con la Sua salita al cielo, con un discorso escatologico circa la Sua “venuta definitiva che cambierà il mondo”, preceduta da una “presenza anticipatrice”, “l’adventus medius, la venuta intermedia di cui parla Bernardo”. In questa prospettiva, sempre al fine di indicare una via sicura per pervenire alla conclusione che il Gesù storico, in senso vero e proprio, è quello narrato dai Vangeli, non trova quindi posto alcun riferimento a fatti dai quali possa emergere la “dimostrazione” che Gesù è il vero Figlio di Dio, sulla base della (come sopra dichiarata) avversione ad ogni tentativo di ricerca di “condizioni sperimentali di laboratorio”; sicchè nell’opera manca il racconto ed il commento agli innumerevoli miracoli operati da Gesù. L’omissione, pertanto, non è casuale, tanto è vero che l’unico riferimento a tali miracoli riguarda quello delle nozze di Cana: tale miracolo, infatti, viene - quasi ostentatamente – indicato da Benedetto XVI non già come “miracolo”, bensì come “episodio” di Cana, cui l’Autore fa riferimento non già per parlare di tale evento, ma della “sovrabbondanza” come “segno di Dio”. “La sovrabbondanza di Cana è segno che la festa di Dio con l’umanità - il suo dono di sé per gli uomini – è cominciata. La cornice dell’avvenimento, le nozze, diventa così un’immagine che indica, al di là di se stessa, l’ora messianica: l’ora delle nozze di Dio con il suo popolo ha avuto inizio nella venuta di Gesù”. Il Gesù di Nazaret di Benedetto XVI è, pertanto, da intendersi come una mirabile opera con la quale un illuminato teologo affronta temi fondamentali della fede cristiana suggerendo logiche e ragionevoli soluzioni ad innumerevoli questioni sempre aperte al confronto ed alla discussione. A solo titolo esemplificativo che valga come semplice indicazione delle varie problematiche trattate, mi limito a segnalarne alcune che ritengo tra le più significative, senza alcuna pretesa di volerne fare, nemmeno di queste, una sintesi esaustiva. La prima riguarda l’affermazione, avvenuta con il Concilio di Calcedonia (451), sull’unione della divinità e dell’umanità in Gesù Cristo con la formulazione che, in Lui, l’unica Persona del Figlio di Dio abbraccia e porta le due nature, quella umana e quella divina, dopo che il precedente Concilio di Nicea (325) aveva affermato che, secondo il concetto cristiano di Dio, le tre Persone – Padre, Figlio e Spirito Santo – sono una cosa sola nell’unica sostanza di Dio. Questa formula,- due nature, un’unica Persona – è stata creata da Papa Leone Magno, “con un’intuizione, (secondo Benedetto XVI), che andava molto oltre il momento storico”. “Ma essa era un’anticipazione: il suo significato concreto, continua Benedetto XVI, non era ancora sondato fino in fondo….Per questo la recezione di Calcedonia è avanzata in modo molto intricato e tra accaniti litigi”. Il problema di fondo era questo: stante l’unità della persona può esistere soltanto un’unica volontà; la persona, infatti, si manifesta nella volontà e se c’è una persona sola, allora non può esserci che una sola volontà, nella specie quella divina che deve ritenersi assorbente quella umana. Da tutto ciò nasceva di conseguenza questa domanda: “Dio si è fatto veramente uomo in Gesù, se quest’uomo non aveva poi una volontà?”. Tale domanda, secondo Benedetto XVI, non ha ragion d’essere: “Il dramma del Monte degli ulivi consiste nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell’uomo dall’opposizione alla sinergia e ristabilisce così l’uomo nella sua grandezza. Nell’umana volontà naturale di Gesù è, per così dire, presente in Gesù stesso tutta la resistenza della natura umana contro Dio. L’ostinazione di tutti noi, l’intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura ricalcitrante in alto verso la sua vera essenza……..così la preghiera: ‘non la mia, ma la tua volontà’ è veramente una preghiera del Figlio al Padre, nella quale l’umana volontà naturale è stata tratta totalmente dentro l’Io del Figlio, la cui essenza si esprime appunto nel ‘non io, ma tu’, nell’abbandono totale dell’Io al Tu di Dio Padre. Questo ‘Io’, però, ha accolto in sé l’opposizione dell’umanità e l’ha trasformata, così che ora nell’obbedienza del Figlio siamo presenti tutti noi, veniamo tutti tirati dentro la condizione di figli”. Altro problema che sotto certi aspetti è un corollario del precedente, è quello relativo al valore salvifico, per tutti gli uomini, della Passione di Cristo, avendo Egli espiato tutto il peccato del mondo. Contro l’idea dell’espiazione, da parte di Gesù Cristo, è stata ripetutamente sollevata questa obiezione: “non è forse un Dio crudele colui che richiede un’espiazione infinita? Non è questa un’idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell’immagine di Dio, rinunciare all’idea dell’espiazione?” Per Benedetto XVI è, invece, “evidente che il perdono reale che avviene a partire dalla croce si realizza proprio in modo inverso. La realtà del male, dell’ingiustizia che deturpa il mondo e insieme inquina l’immagine di Dio – questa realtà c’è: per nostra colpa. Non può essere semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Ora, tuttavia, non è che da un Dio crudele venga richiesto qualcosa di infinito. E’ proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza…….Nella passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l’immensamente Puro……In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell’amore infinito…..Nella croce di Gesù era avvenuto ciò che nei sacrifici animali era stato tentato invano: il mondo aveva ottenuto l’espiazione. L’Agnello di Dio aveva caricato su di sé il peccato del mondo e l’aveva tolto via. Il rapporto di Dio col mondo – rapporto disturbato a causa della colpa degli uomini – era stato rinnovato. Si era realizzata la riconciliazione……..il desiderio che a Dio sia dato ciò che noi non siamo in grado di dargli e che il dono sia tuttavia dono nostro trova il suo adempimento”. Benedetto XVI avvertendo la difficoltà, per l’uomo, di accogliere una siffatta spiegazione, ne individua così la sua motivazione: “alla comprensione del grande mistero dell’espiazione è di ostacolo, però, la nostra concezione individualistica dell’uomo: non riusciamo più a capire il significato della vicarietà, perché secondo noi ogni uomo vive isolato in se stesso; non siamo più in grado di capire il profondo intreccio di tutte le nostre esistenze e il loro essere abbracciate dall’esistenza dell’Uno, del Figlio fattosi uomo”. Queste brevi e succinte riflessioni, senza alcuna pretesa di essere considerate quali critica o commento di un’opera tanto ponderosa, valgano, almeno, come invito a leggere e meditare le ispirate parole scritte da Benedetto XVI, per meglio conoscere Gesù che ha lasciato questa terra benedicendo. “Benedicendo (sono le parole poste alla fine dell’opera) se ne va e nella benedizione Egli rimane. Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una presenza”. 

43) Speculazione finanziaria e crisi dell'eurozona

Nell’attuale crisi finanziaria non si è molto parlato della speculazione quale uno dei suoi fattori determinanti: invero, anche se è fuori dubbio che detta crisi abbia ragioni più complesse, è innegabile che il ruolo svolto dall’attività speculativa non è da ritenersi del tutto secondario, tanto da dimenticarlo del tutto, come, a volte, accaduto. Al fine di metterne in evidenza, soprattutto sul piano morale, i suoi deleteri effetti, è opportuno svolgere alcune preliminari considerazioni sull’attività speculativa in generale. La speculazione può sinteticamente definirsi come l’attività economica diretta all’acquisto o alla vendita di un determinato bene al solo fine di ricavarne, sulla base di previsioni puramente soggettive, in un momento successivo e con un’operazione inversa, un profitto a seguito dell’incremento o decremento di valore rispetto a quello dell’operazione iniziale: non è pertanto da considerarsi speculatore chi, dopo aver acquistato un bene per detenerlo, successivamente ne vede accrescere il suo valore. Per quanto attiene, in particolare, alla speculazione finanziaria, quella cioè che si svolge nell’ambito dei mercati finanziari, va subito notato come detta attività speculativa si avvalga anche della possibilità di agire “allo scoperto”: in tal caso l’operatore vende strumenti finanziari che non possiede ovvero li acquista, senza disporre delle somme occorrenti. Sull’attività dei mercati finanziari, Benedetto XVI ebbe a dire (Enc. “Caritas in veritate”, n. 36): “la Chiesa ritiene da sempre che l’agire economico non sia da considerare antisociale…. La società non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest’ultimo comportasse ‘ipso facto’ la morte dei rapporti autenticamente umani. E’ certamente vero che il mercato può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo specificano e lo orientano. Infatti, l’economia e la finanza, in quanto strumenti, possono essere mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Così, si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi. Ma è la ragione oscurata dall’uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento di per se stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo, la sua coscienza morale e la sua responsabilità sociale”. L’attività speculativa finanziaria nel corso degli anni si è avvalsa di tecniche e strumenti sempre più raffinati, tutti finalizzati solo al conseguimento di profitti sempre più elevati, determinando un sempre maggiore allontanamento del mercato dall’economia reale e dalla morale: a quest’ultimo proposito è sintomatico ricordare che nel 1997 due matematici ottennero il premio Nobel per l’economia per aver messo a punto un modello economico moltiplicatore di perdite e guadagni utilizzato da un noto fondo speculativo. Così, con il progredire delle tecniche dei vari strumenti finanziari si è pervenuti all’elaborazione di sofisticati prodotti come, per esempio, i c.d. “prodotti derivati” i quali, nati in un primo tempo come strumenti di copertura di rischi (in particolare, quelli di cambio), sono stati successivamente usati prevalentemente come strumenti speculativi, soprattutto per l’effetto moltiplicatore connesso alle particolari modalità operative che consentono di assumere rischi molto elevati impiegando limitate risorse. Al riguardo, al fine di avvalorare l’affermazione di Benedetto XVI, secondo cui “non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l’uomo”, il quale riesce “a trasformare strumenti di per se buoni in strumenti dannosi”, basti considerare, sempre in tema di prodotti derivati, la notevole differenza che intercorre, nel ricorso a detti strumenti, tra il fine assicurativo di copertura del rischio di cambio (fisiologicamente perseguito con detti strumenti) ed il fine esclusivamente speculativo, nel quale l’interesse dell’operatore non è quello di avere a disposizione, ad una certa data, una determinata quantità di valuta ad un certo prezzo, ma solo quello di lucrare un profitto dalla compravendita del derivato. Un esempio chiarirà meglio il concetto ora espresso. Nel contratto di assicurazione contro il rischio di incendio, l’assicurato assicura un proprio immobile nei confronti di tale evento dannoso e, pertanto, incasserà l’indennizzo ove detto evento si verifichi; non è pertanto consentito stipulare un’assicurazione contro tale rischio che abbia per oggetto un immobile che non appartenga all’assicurato: in questo caso quest’ultimo avrebbe tutto l’interesse al verificarsi dell’evento dannoso che potrebbe spingerlo anche a provocarlo. Nella finanza quest’ultimo limite non esiste: così gli speculatori, utilizzando legittimamente gli strumenti offerti dal mercato, possono scommettere al ribasso su di una determinata impresa nella quale non hanno alcun interesse e che obbiettivamente versi in precarie condizioni, come se si fossero assicurati contro il suo fallimento ; è evidente che se i titoli di quell’impresa continueranno ad andare sempre peggio ciò si risolverà a tutto vantaggio degli speculatori i quali, a causa dell’enorme mole raggiunta da tali strumenti (che alcuni stimano globalmente dell’ordine di grandezza del Pil dell’intero pianeta), avranno anche a loro disposizione i mezzi sufficienti per intervenire sul mercato, deprimendo ancora di più il valore dei titoli in questione. Tutto ciò comporta, da un lato, il progressivo allontanamento dell’economia reale dal mercato che diventa sempre più solo virtuale, ove tutto ruota intorno ad una ricchezza artificiale cui non corrisponde una ricchezza reale, e, dall’altro, la separazione tra giudizio morale ed un’economia sempre più individualista ed utilitarista: lo speculatore, infatti, spinto solo dal suo tornaconto personale nel conseguimento di un immorale profitto, non si avvede (ovvero, finge di non avvedersi) che al suo guadagno corrisponde necessariamente una perdita subita da qualche altro soggetto, anche se indeterminato; ed è, forse, questa indeterminatezza a fornire allo speculatore un alibi, anche se assolutamente inconsistente, al suo modo di operare. A quest’ultimo proposito mi ricordo di aver sentito in televisione un’intervista con una ragazza di “buona famiglia”, la quale, all’insaputa dei genitori, vendeva su internet immagini del proprio corpo in pose decisamente pornografiche: all’esplicita domanda sulla correttezza morale di una simile attività, la ragazza, candidamente, rispose di ritenersi a posto con la propria coscienza, dato che tali immagini venivano vendute tramite un intermediario che le garantiva la loro diffusione, in maniera assolutamente anonima ed a clienti residenti in zone lontane dalla propria, e che, pertanto, lei non avrebbe mai frequentato o conosciuto! La speculazione finanziaria è da alcuni fondatamente ritenuta la peste del ventunesimo secolo per i suoi effetti devastanti, soprattutto quando ad essere presi di mira non sono singole imprese, ma, addirittura, interi Paesi, che versano in difficoltà economiche, deprimendo il corso dei rispettivi titoli del debito pubblico, come di recente sta accadendo: a tutto questo si aggiunga la presenza di Agenzie di rating, società private la cui attività (esercitata, di fatto, in regime di monopolio) è quella di esprimere valutazioni su detti titoli (che incidono pesantemente sul loro corso), sulla base di analisi non sempre affidabili a causa di conflitti di interesse sussistenti con altri soggetti, come l’ISDA Inc. (International Swaps and Derivatives Association), società consortile degli operatori in prodotti derivati. La spinta a conseguire facili guadagni attraverso una simile attività speculativa appare, comunque, davvero irresistibile, tanto che la tentazione di avvalersi degli strumenti offerti al riguardo dal mercato coinvolge anche banche e banchieri, di un’apparente ineccepibile moralità, confondendo detta attività speculativa come vera e propria forma di investimento: non stupì più di tanto, quindi, il fatto (riportato da tutta la stampa nazionale ed internazionale) che la stessa Banca d’Italia, tramite l’Ufficio Italiano dei Cambi, alla fine degli anni ’90 aveva “investito” oltre 400 miliardi delle vecchie lire in un fondo speculativo americano (L.T.C.M.) che operava, appunto, in prodotti derivati, speculando su vari titoli, non esclusi anche quelli del debito pubblico italiano. Con riferimento all’attuale crisi finanziaria, è a tutti ben noto che ad essere in prima linea presi di mira dalla speculazione (anche se, giova sempre ripeterlo, non può certo quest’ultima essere ritenuta la causa esclusiva della crisi) sono soprattutto i titoli del debito pubblico di Paesi che versano in notevoli difficoltà economiche e finanziarie: anche se, come si è visto, si tratta di un mercato essenzialmente “virtuale” le conseguenze dannose si realizzano realmente. L’artificiosa depressine dei corsi, infatti, inevitabilmente induce i portatori di detti titoli a disfarsene con reali inevitabili massicce vendite che non fanno altro che determinare un progressivo ed inesorabile abbassamento del loro valore; ciò comporta un corrispondente innalzamento dei tassi di rendimento, con la necessità, da parte dei governi dei Paesi colpiti, di adeguare a tali tassi, sempre crescenti, quelli delle successive emissioni: il tutto si risolve, pertanto, in un immane danno a carico dei Paesi più colpiti dalla crisi che diventano facile preda di questa schiera di speculatori senza scrupoli. Assistiamo, pertanto, ad un vero e proprio imbarbarimento del mercato: il mercato non è più il luogo ove avvengono le transazioni finanziarie nel fisiologico incontro della domanda ed offerta, bensì il luogo ove vengono consumate vere e proprie guerre, senza esclusione di colpi; siamo, infatti, ormai abituati a sentir parlare quasi giornalmente di “attacchi” nei confronti di determinati titoli: a fronte di un tale mercato, sembrerebbe facile ipotizzare la via da seguire, impedendo, con apposita normativa, le operazioni di speculazione finanziaria del tipo sopra descritto. In presenza, però, della globalizzazione di tutti i mercati mondiali che determina, di fatto, la loro inevitabile interdipendenza, un intervento normativo del genere, per essere valido, dovrebbe essere assunto su base internazionale, dato che non avrebbe alcun effetto se dovesse valere solo per una determinata area territoriale: una tale soluzione resta, però, allo stato attuale, solo un auspicio, dato che timidi tentativi in tal senso non hanno avuto, per ora, alcun seguito, in presenza di forti ed interessate resistenze, senza considerare che gran parte degli strumenti speculativi viene negoziata su mercati non regolamentati. Allo stato, pertanto, la speculazione viene di fatto considerata come un male inevitabile con il quale convivere, anche se, obbiettivamente, tutto ciò potrebbe apparire incomprensibile. La bufera finanziaria sopra descritta che ha colpito in maniera particolare l’ eurozona, non ha, purtroppo, risparmiato anche il nostro Paese: in questo caso la speculazione ha trovato terreno fertile oltre che nelle obbiettive difficoltà economiche nelle quali versa il Paese, anche a causa del gigantesco debito pubblico che, tra l’altro, risulta in mano estera per circa il 50%. Per uscire fuori dal tunnel urgono misure che, innanzi tutto, siano dirette a favorire la crescita economica del Paese e, nello stesso tempo, cerchino di risanare, in qualche modo, l’enorme debito accumulato, oppure, almeno, di renderne più sopportabile la gestione.

La situazione del nostro Paese, nell’ambito europeo, del resto similare a quella di altri Paesi, determina, però, un innegabile condizionamento nelle scelte: l’enorme debito e la conseguente scarsa fiducia sulla sua solvibilità, elementi su cui essenzialmente fanno leva gli attacchi speculativi, spingono di fatto - anche sulla base di interessate pressioni esterne, fondate essenzialmente su posizioni individualistiche ed egoiste - a privilegiare l’azione rivolta più verso il risanamento che verso la crescita. Si finisce, inevitabilmente, a puntare sulla leva fiscale per recuperare disponibilità che risulteranno, comunque, obbiettivamente inadeguate a conseguire un vero risanamento, imponendo a tutti sacrifici che potrebbero risultare inutili in quanto, appunto, inidonei a conseguire gli effetti desiderati. Infatti, a parte la considerazione che non può sussistere un vero risanamento che prescinda dalla crescita economica, l’aumento del peso fiscale, con un generalizzato impoverimento, determina una contrazione dei consumi che si riflette, poi, sullo stesso risanamento. D’altra parte non appare molto convincente l’affermazione di aver agito con equità nell’imporre sacrifici a carico di tutti, dato che, in ogni caso, il sacrificio che determina una maggiore povertà non è certo paragonabile a quello che determina, invece, solo una diminuzione di ricchezza; l’equità impone, infatti, in particolari condizioni, di dover escludere dai sacrifici chi obbiettivamente non è più in grado di sostenerli, al di fuori di qualsiasi calcolo ragionieristico sul valore oggettivo dei diversi sacrifici da imporre alla collettività. E’ evidente, a titolo esemplificativo (per quanto banale), che non possa ritenersi rispondente a criteri equitativi sottrarre un pezzo di pane a chi ha solo quello per sfamarsi (esponendolo solo alla disperazione) a fronte della sottrazione di un bel pezzo di torta (anche se di valore decisamente superiore) a chi ha già consumato un lauto banchetto. Comunque, il risultato conseguito, in termini di risanamento, a seguito dei pesanti sacrifici imposti alla collettività risulterà sempre assai modesto rispetto alla disastrosa situazione debitoria del Paese, sicché, dopo un possibile iniziale miglioramento della situazione, la speculazione potrà riprendere ad agire come prima, se non si apportano le necessarie modifiche alle attuali regole che disciplinano il mercato e l’emissione di titoli del debito pubblico da parte dei Paesi dell’eurozona, che obbiettivamente danneggiano i Paesi in difficoltà, i quali, come si è già detto, si vedono costretti ad applicare, alle nuove emissioni, tassi sempre più crescenti che, alla fine, risulterebbero non più sopportabili se riguardassero l’intero ammontare del proprio debito: ulteriori inevitabili manovre non potrebbero, infatti, reiterarsi all’infinito. Inoltre, al fine di perseguire una corretta, quanto doverosa, informazione della situazione nei confronti di tutti i cittadini, andrebbe chiarito che le varie manovre in atto (ipocritamente presentate come “salva Italia”, come se fossero da ritenersi risolutive a titolo definitivo della presente crisi) invero sono solo finalizzate a conseguire il pareggio di bilancio, per il prossimo anno, tra le entrate e le uscite, comprendendo, tra queste ultime, gli interessi dovuti per il debito pubblico: quasi nulla viene destinato ad una, se pur minima, riduzione dell’ammontare del debito che, pertanto, resta fermo nella sua enorme dimensione. E’ notorio, poi, che il tasso di interesse che grava sul nostro gigantesco debito (dell’ordine di circa 1.900 miliardi di euro) non solo è di gran lunga superiore a quelli posti a carico di altri Paesi che non si trovano nelle stesse nostre difficoltà (il termine “spread” è diventato fin troppo familiare a tutti) ma è sottoposto a continue ed imprevedibili oscillazioni: avuta presente la circostanza che, mediamente, vengono a scadenza annuale titoli del debito pubblico per circa 300-400 miliardi di euro e che il loro rimborso è possibile solo con nuove emissioni di importo corrispondente, è, purtroppo, facile concludere che, agli attuali tassi, i pareggi di bilancio per gli anni successivi potrebbero raggiungersi solo con nuovi sacrifici, non più sopportabili. L’unica vera soluzione, quindi, potrebbe realizzarsi solo pervenendo ad una stabilizzazione ed uniformità dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico dei vari Paesi dell’eurozona, attraverso un’adeguata revisione dei poteri e delle modalità di intervento della BCE: allo stato, però, questa via appare abbastanza problematica per le note intransigenti ed egoistiche posizioni di alcuni Paesi membri. D’altra parte la necessità di una revisione delle attuali regole emerge con maggiore evidenza se si considera, come da molti ritenuto, che gli “attacchi” speculativi diretti verso alcuni Paesi sono finalizzati a provocare una profonda destabilizzazione dell’euro, attraverso la disgregazione dell’intera area. E’ indiscutibile, comunque, che la situazione nella quale versano diversi Paesi del nostro pianeta ed il nostro in prima linea, sia davvero drammatica: non è certo questa la sede per suggerire efficaci strategie, senza alcuna preclusione, sul piano essenzialmente tecnico, per superarla; può solo formularsi un’amara considerazione: che, di fronte al complesso degli irresponsabili comportamenti come sopra evidenziati, da parte di vari soggetti senza scrupoli che hanno come esclusivo fine delle loro attività quello di conseguire ad ogni costo un proprio profitto, oppure sono incapaci ad abbandonare egoistiche posizioni individualistiche, appare più che giustificata la profonda indignazione di tutti quelli (appartenenti alle classi più deboli, con i giovani in prima linea) che vedono molto problematico il loro futuro. Ritornando al tema specifico della presente riflessione che è quello sulla speculazione finanziaria, che attualmente non solo non è vietata, ma nemmeno in qualche modo regolamentata, va purtroppo ribadito che la globalizzazione ha ulteriormente accentuato la separazione tra economia e giudizio morale: la speculazione, pertanto, resta quasi una normale, naturale ed inevitabile modalità di svolgimento dell’attività dei mercati finanziari, risultando, quindi, quasi fuor di luogo qualsiasi giudizio d’ordine morale sulla stessa. Sintomatica appare al riguardo l’affermazione di un noto banchiere anglo-tedesco (morto agli inizi del secolo scorso), Sir. Ernest Cassel: “quando ero giovane mi chiamavano giocatore d’azzardo, poi cominciarono a chiamarmi speculatore ed oggi dicono di me che sono un grande banchiere: io però ho fatto sempre la stessa cosa”. D’altra parte, la stessa Chiesa cattolica, pur prendendo atto dell’affermazione, sopra riportata, di Benedetto XVI, secondo cui “l’economia e la finanza.…possono essere mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici”, non sembra che abbia affrontato con la dovuta attenzione lo specifico argomento della speculazione finanziaria. L’unico riferimento, peraltro generico, si rinviene, infatti, nel Catechismo della Chiesa cattolica, ove al n. 2409, nel capitolo riguardante il settimo comandamento (“non rubare”) viene indicata tra gli atti “pure moralmente illeciti” anche “la speculazione, con la quale si agisce per far artificiosamente variare la stima dei beni, in vista di trarne un vantaggio a danno di altri”, senza, inoltre, considerare l’esistenza di strumenti di per se stessi dannosi, in quanto predisposti, per la loro natura, a perseguire esclusivamente fini moralmente illeciti. Invero, la speculazione finanziaria come sopra illustrata (sia con riferimento ai sofisticati strumenti usati, come i c.d. prodotti derivati, sia con riferimento agli interventi di organismi, come le agenzie di rating che, a volte, con le loro valutazioni di dubbia affidabilità, alimentano la speculazione stessa) costituisce un gravissimo crimine verso l’umanità e, per la consapevolezza dei danni prodotti da una condotta abitualmente seguita che distrugge la carità nel cuore dei suoi autori, racchiude in sé tutti gli elementi che la fanno rientrare nel concetto di “peccato mortale”, sulla base delle indicazioni fornite dallo stesso Catechismo della Chiesa cattolica (n. 1854 ss). Come uscire, allora, dall’attuale crisi (alla quale contribuisce se pure in parte la speculazione) che sembra coinvolgere sempre maggiori Paesi del pianeta? Forse non è azzardato affermare che tutto quello che accade sotto i nostri occhi non accade invano, dato che dovrebbe far emergere la consapevolezza dell’assoluta inconsistenza, da un lato, di ogni illusoria quanto presuntuosa convinzione, da parte dei Paesi in crisi, di poter risolvere da soli i propri problemi e, dall’altro, di un atteggiamento di distacco ed indifferenza, da parte dei Paesi apparentemente più fortunati, verso i primi, per il fondato rischio di contagio. Nella situazione attuale, infatti, da un lato, l’orgogliosa presunzione dei Paesi in difficoltà di poter risolvere da soli i propri problemi con infondate affermazioni di autostima che certamente non possono attenuare l’altrui diffidenza e, dall’altro, l’egoistica indifferenza degli altri Paesi costituiscono una diabolica accoppiata che potrebbe condurre ad un disastroso e globale fallimento, ferme restando le vigenti “regole”. In tale complessa situazione appare, quindi, sempre più indispensabile che qualsiasi soluzione tecnica si voglia adottare per risolvere i problemi sul tappeto non possa prescindere, sia pure inconsapevolmente, da un fondamentale ricorso ad un principio di solidarietà cui dovrebbero ispirarsi quanti abbiano a cuore le sorti di intere popolazioni: accade così che, ancora una volta, l’uniformarsi a principi di solidarietà cristiana cui si ispira la dottrina sociale della Chiesa cattolica, risulti, di fatto, utile a trovare idonee soluzioni anche nel settore economico. La solidarietà, comunque, va richiesta, abbandonando orgogliose, quanto infondate affermazioni di autosufficienza : i Paesi in difficoltà, nel chiedere l’aiuto della comunità internazionale, dovrebbero, pertanto, umilmente riconoscere il proprio stato di bisogno che il più delle volte è stato determinato da precedenti politiche economiche molto al sopra delle effettive loro possibilità, rendendosi, nel contempo, disponibili a quei sacrifici, necessariamente complementari agli aiuti richiesti. Concludendo queste brevi considerazioni, può affermarsi, pertanto, che, in generale, l’economia esige sempre il rispetto della morale. Svincolare l’economia dalla morale significa, infatti, passare da un’economia a servizio dell’uomo all’uomo a servizio dell’economia, tradendo, così, il fine naturale di quest’ultima che dovrebbe essere quello dell’utilizzo delle risorse senza sprechi, perseguendo il migliore sviluppo e benessere da distribuire equamente a tutti.

44) Blitz a Cortina: demonizzare la ricchezza?

Durante le festività natalizie e di fine anno dello scorso 2011, la Guardia di Finanza ha effettuato un vero e proprio blitz nell’elegante località di villeggiatura invernale delle Dolomiti, al fine di individuare, con mirati controlli, eventuali evasori fiscali sia tra i villeggianti, sia tra gli esercenti delle locali attività commerciali. Tale iniziativa ha provocato l’infastidita reazione di quanti sono stati oggetto di siffatte particolari “attenzioni”. Ciò che in primo luogo è stato contestato è l’aver ricercato, da parte degli investigatori, una spettacolarizzazione dell’operazione, anche con riferimento alla circostanza che gli stessi risultati potevano conseguirsi attraverso analisi da effettuarsi altrove, senza bisogno di un intervento in una località ed in periodo che apparivano scelti in funzione di colpire e quasi demonizzare un certo tipo di ricchezza: invero indagini particolari sono state rivolte all’identificazione degli effettivi proprietari di autovetture di alto costo (come le Ferrari) e presso note gioiellerie. Il risentimento di qualcuno che si è visto ingiustamente “disturbato”, soprattutto con riferimento alle indagini relative a tali autovetture, lo ha spinto a sostenere non solo la liceità di tale possesso ma anche il suo indiscutibile valore sociale, dato che l’utilizzo delle notevoli disponibilità finanziarie occorrenti per il suo acquisto aveva, tutto sommato, contribuito al mantenimento delle maestranze che tale prodotto aveva realizzato. Senza voler entrare nel merito e nelle modalità degli accertamenti così come effettuati (che, comunque, pare abbiano prodotto utili risultati), va innanzi tutto osservato che l’assolvimento del debito tributario, oltre ad essere un dovere sancito dal diritto positivo, costituisce un obbligo anche sul piano morale: più volte la Chiesa ha avuto modo di ribadire la necessità che il credente adempia al pagamento delle tasse, di quanto, cioè, lo Stato ritenga di porre a suo carico, in relazione alle sue disponibilità, per far fronte alle spese necessarie al mantenimento di quanto serva per il bene comune, costituendo, in mancanza, per il conseguente danno inevitabilmente prodotto a carico della collettività, una grave forma di inadempienza, oltre che del settimo comandamento (“non rubare”), di quel necessario principio di solidarietà cui deve ispirarsi l’agire umano. Se tutto ciò risulta sufficientemente chiaro, più complesso appare il discorso sulla “demonizzazione” della ricchezza, per se stessa. Al riguardo, sembra quasi scontato che ognuno di noi, almeno una volta, si sia posto questa domanda: “ma Gesù Cristo era contrario alla ricchezza ?”. Se leggiamo i Vangeli potremmo facilmente concludere, da un punto di vista letterale, per una risposta positiva. Tutti, infatti, conoscono la risposta che Gesù dette al giovane ricco (Mc. 10, 17-31) che gli chiedeva che cosa dovesse fare “per avere la vita eterna”: “una cosa sola ti manca: và, vendi quello che hai, dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi”; rivolgendosi ai suoi discepoli, sempre in tale occasione, Gesù aggiunse: “quanto difficilmente coloro che hanno ricchezze, entreranno nel regno di Dio!: è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio!”. Tali parole sembrano inequivocabilmente affermare l’obbiettiva impossibilità (sulla base del chiaro paragone offerto) che un ricco possa salvarsi, tanto che gli stessi “discepoli, sbigottiti, dicevano tra loro: e chi mai si può salvare?”. In realtà, Gesù non ha mai pronunciato espressamente parole di condanna per la ricchezza come tale: sin dalle origini (Gn. 1, 26-31; 2, 15) Dio ha affidato la terra con tutte le sue ricchezze e risorse all’uomo, perché le soggiogasse e le coltivasse, legittimandone, quindi, l’appropriazione al fine di farle fruttificare accrescendone anche la produttività. D’altra parte lo stesso Gesù, nella parabola dei talenti (Mt. 25, 14-30) aveva raccontato di quell’uomo che, partito per un viaggio, aveva affidato i suoi beni ai suoi servi ed, al suo ritorno, aveva chiesto loro il rendiconto: avendo ricevuto da un servo lo stesso talento che gli era stato affidato, senza alcun guadagno, lo aveva duramente apostrofato, qualificandolo “servo malvagio e infingardo” perché non aveva “affidato ai banchieri” il talento ricevuto, perdendo, così, gli interessi che avrebbe fruttato. La ricchezza deve, quindi, di per sé, considerarsi “cosa buona”: perché, allora, Gesù, nella risposta al giovane ricco, sembra precludere ai ricchi l’ingresso nel regno di Dio? Nella predicazione di Gesù, così come riportata nei Vangeli, emerge come quanto da Lui affermato risponda sempre ad un’esigenza di chiarezza, evitando giri di parole che possano dare adito a diverse interpretazioni, allontanando l’ascoltatore da quella verità, a volte molto scomoda, da Lui stesso proclamata in determinate occasioni: non può, nondimeno (proprio al fine di evitare travolgimenti) estrapolare una singola affermazione dalla particolare situazione nella quale si colloca e che l’ha determinata. Così, nell’episodio dell’incontro con il giovane ricco, raccontato nel Vangelo di Marco, Gesù che aveva manifestato amore (“lo amò”) per quella persona, pur conoscendone le sue ricchezze, intuisce, però, il suo morboso attaccamento ai suoi beni, tanto che, dopo aver sentito l’invito a vendere tutto quello che possedeva per darlo ai poveri, il giovane ricco “rattristatosi per quelle parole, se ne andò afflitto, perché aveva molti beni”. E’ evidente, allora, che l’eccessivo attaccamento ai beni materiali e l’incapacità, per il giovane ricco, di instaurare un diverso rapporto con la sua ricchezza, come intuito da Gesù, spinge quest’ultimo a suggerirgli la soluzione radicale, come del resto, in altre occasioni già avvenuto (“Se la tua mano ti scandalizza, tagliala………..se il tuo piede ti scandalizza, taglialo………se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo……” Mc. 9, 43-47). Ciò che nel Vangelo viene condannato non è la ricchezza in quanto tale, bensì il patologico attaccamento alla stessa ed il suo uso distorto, anche se, purtroppo, il più delle volte la ricchezza conduce a questa situazione; l’episodio del giovane ricco non è, quindi, lontano dalla realtà di molte persone: la ricchezza non è cosa dannosa per chi la possiede, ma lo può diventare se essa diviene il centro e la finalità della nostra vita. Gesù non ci chiede di diventare poveri, ma di fare della ricchezza un uso moderato ed utile, nell’interesse di tutti. Con la preghiera del Padre nostro lo stesso Gesù ci ha insegnato di chiedere al Padre di darci il “nostro pane quotidiano”, cioè niente di meno o di più di ciò che ogni giorno per noi è necessario: la nostra abbondanza, rispetto a ciò che per noi è necessario, non è per se stessa da demonizzare, ma costituisce quel “di più” che dobbiamo sapientemente gestire, nel “rispetto della dignità umana che esige la pratica della virtù della temperanza, per moderare l’attaccamento ai beni di questo mondo; della virtù della giustizia, per rispettare i diritti del prossimo e dargli ciò che gli è dovuto; e della solidarietà, seguendo la regola aurea e secondo la liberalità del Signore, il quale da ricco che era, si è fatto povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà” (Catechismo della chiesa cattolica, n. 2407). Come già detto in precedenza, spesso la ricchezza conduce il suo detentore a comportamenti non in linea ai suddetti principi: accade, quindi, che il “ricco” non si ponga nemmeno il problema circa la liceità, ovviamente sotto l’aspetto della morale cristiana, della sua condotta, ovvero, almeno per quanti ritengano di aver conseguito correttamente la loro ricchezza, proprio sulla base di quest’ultima considerazione, ritenga di poter disporre a proprio piacimento dei suoi beni, nel soddisfacimento dei propri desideri, nella convinzione, inoltre, che qualsiasi loro utilizzo anche se per tali fini, in ogni caso risponde ad un’utilità sociale in quanto, sia pure indirettamente, torna a vantaggio di qualche altro (come il caso, sopra richiamato, dell’acquisto di automobili di notevole costo che si risolve a favore dell’impresa che quelle autovetture produce e delle relative maestranze). Un simile modo di ragionare non appare condivisibile, sia perché dimentica il fondamentale principio cristiano secondo cui tutto ciò che possediamo non è da ritenersi nostro, ma solo affidato a noi in amministrazione e, pertanto, ne dovremo rendere conto, con particolare riferimento a quanto costituisce il “di più” rispetto alle nostre esigenze, sia perché se è vero che qualsiasi utilizzo delle nostre ricchezze può risolversi a vantaggio di altri, è pur vero che ciò che rileva negativamente è il fatto che detto utilizzo avvenga per il soddisfacimento di superflui ed egoistici desideri, dimenticando ogni principio di solidarietà verso chi è privo del necessario, senza considerare la circostanza che, laddove dette disponibilità venissero destinate per quest’ultimo scopo, si realizzerebbe, sempre, l’ulteriore vantaggio di quanti venissero impiegati nella fornitura dei mezzi idonei per venire incontro a tali necessità (abitazioni, mense, ecc.). Le considerazioni che precedono portano, inevitabilmente, ad una conclusione che potrebbe apparire sconcertante: posto che l’utilizzo ed, a volte, l’inaccettabile ostentazione di quanto posseduto oltre ogni limite di sana moderazione che obbiettivamente offende quanti versano in disagiate condizioni economiche (e, purtroppo, nell’attuale momento, costituiscono la maggioranza della popolazione) è cosa deprecabile, nel giudizio negativo non possono rimanere esclusi anche chi tali beni produce ed offre sul mercato, dato che domanda ed offerta sono tra loro reciprocamente interdipendenti, né più, né meno di quanto accade nel triste fenomeno della prostituzione. Ovviamente, il giudizio di condanna di ogni eccesso nell’uso delle ricchezze deve rivolgersi a chiunque, senza eccezioni, e, pertanto, anche nei confronti della stessa Chiesa cattolica che, a volte (come, per esempio, nella sfarzosa realizzazione della “chiesa inferiore” che accoglie le spoglie di San Pio da Pietrelcina) non sembra uniformarsi a quei corretti criteri di moderazione e sobrietà dalla stessa suggeriti, al fine di realizzare una migliore giustizia sociale, facendo appello ai fondamentali principi di condivisione e solidarietà cristiana cui dovrebbe ispirarsi il vivere civile. La Chiesa, comunque, non ha particolari dottrine economiche da suggerire ed, al riguardo, non sono condivisibili opinioni o movimenti (come, per esempio, la c.d. “teologia della liberazione”, sviluppatasi nell’America latina) che, ponendo in evidenza i valori di emancipazione sociale e politica presenti nel messaggio cristiano, auspicano l’avvento di una chiesa popolare e socialmente attiva. Condivisione e solidarietà sono, infatti, principi cui si ispira il messaggio evangelico che - al di fuori di qualsiasi azione al fine di farli imporre, attraverso il consenso popolare – mira alla conversione delle coscienze in tal senso, per mero atto di amore; in caso contrario risulterebbe vanificato tutto l’insegnamento di Chi, portatore di un Amore Infinito, non ha esitato a sacrificare la propria vita per la salvezza dell’uomo. Continua a pag. 2